C’è una sensazione che accomuna tutti i momenti in cui mi costringo ad aprire i libri che ho impilato in casa senza mai leggerli. O le serate in cui incastro gli impegni per riuscire assolutamente a vedere quel film consigliato dal Guardian che ho in lista da mesi, neanche fosse una scadenza per il giorno dopo. È una sorta di avversione inspiegabile nei confronti di alcune delle attività che preferisco e che ho sempre sentito in sintonia con le mie inclinazioni personali. Il più delle volte deriva da uno standard illusorio a cui mi impongo di aderire, per avere conferma di essere abbastanza “book enthusiast” o “movie addicted”, svuotando quasi del tutto il piacere connesso con quello che sto facendo. Oggi, infatti, stiamo assistendo a una crisi dei parametri che hanno sempre orientato i nostri discorsi su noi stessi, convincendoci di essere soltanto il nostro lavoro, con conseguenze decisive che interessano la dimensione economica, ma soprattutto quella esistenziale e ci portano a cercare altrove la definizione di ciò che siamo.
Per decenni siamo stati sottoposti a un modello di riconoscimento che vede nella professione un fattore identitario totalizzante. Questa convinzione ci ha spinto a rivederci completamente nel ruolo – non solo operativo, ma anche umano – che svolgiamo al lavoro per corrispondere all’immagine offerta dalla cultura dei test attitudinali e delle guide per diventare “perfetti colleghi” in dieci mosse, che pretenderebbe di appiattire la nostra identità a una qualifica di assicuratore, avvocato divorzista o marketing manager. L’identità professionale presa da sola, però, non è più sufficiente a definirci perché la precarietà del presente ha segnato la nostra realtà rendendola incompatibile con i valori sociali e i meccanismi di riconoscimento delle generazioni precedenti. Ma anche se percepiamo la forte necessità di pensare le componenti della nostra personalità in forme più flessibili e sfaccettate, in modo da non sentirci soffocare come è accaduto con il binomio identità-professione, molti dei tentativi che facciamo per svincolarci non fanno che replicarle.
Ci troviamo di fronte a un paradosso: da un lato non riconosciamo più alla qualifica professionale il ruolo di posizionamento sociale e individuale che aveva in passato; dall’altro, però, ci comportiamo ancora come se a definirci fosse un’etichetta unica, per avere un punto di riferimento solido a cui rimanere agganciati, proprio come facevamo con il nostro job title. La crisi del lavoro ha aperto un vuoto identitario inedito, che ci ha portato a proiettare il nostro bisogno di riconoscimento su nuove definizioni, cercando risposte in caselle diverse, ma altrettanto semplici e riduttive. Così facciamo rientrare a forza le peculiarità e gli interessi che coltiviamo – quando troviamo tempo per farlo nelle nostre routine sature di lavoro e impegni – in espressioni come “insane traveller”, “fitness mom” o “foodaholic” scritte sulle bio di Instagram, pretendendo che siano vere.
Questa tendenza a racchiudere le componenti della nostra identità in definizioni brevi, immediate e prive di contraddizioni è una delle ossessioni della nostra società, che mira a renderci il più possibile efficaci a partire dal modo in cui ci inquadra nel suo sistema. Le etichette ci assoggettano all’imperativo del funzionamento perché tendono a definire chi siamo sulla base di una caratteristica che ha direttamente a che fare con il nostro dimostrarci produttivi, interessanti e all’altezza delle prestazioni richieste. Quello che ci resta di noi stessi, in questo scenario, si riduce agli aspetti “utili”. La componente che viene del tutto annullata, invece, è quella del piacere fine a sé stesso. Per adattarci ai meccanismi che ci sono stati imposti abbiamo così trasformato anche i nostri interessi e ciò che ci piace in un obbligo, per avere conferma di chi sentiamo di essere e validarci agli occhi degli altri.
Non possiamo negare il nostro essere vittime di un ego sempre più allergico alla differenza, che sembra sentirsi al sicuro solo quando è protetto da un’etichetta stabile in cui riconoscersi, non importa se questa corrisponda a un’identità lavorativa sempre uguale a sé stessa; o a gusti e passioni da esibire regolarmente nei post per ricordare chi siamo a noi stessi e agli altri – con una costanza che per alcuni serve proprio a dimostrare la perfetta aderenza a quel tipo di persona che venera Gaspar Noé o si ammazza di squat in palestra sei volte a settimana. Come se per non farci travolgere dal flusso degli eventi, sempre più incalzante, sentissimo la necessità di fissarci in una struttura definita e immutabile. Ad acuire questa sensazione contribuisce di certo l’impostazione dominante, che continua a mettere il lavoro al centro della nostra vita e non lascia spazio sufficiente per elaborare e provare a mettere in pratica un’alternativa meno rigida, che ci conceda la libertà di essere qualsiasi cosa vogliamo e non soltanto una versione specifica di noi stessi alla volta.
Uno dei ritornelli più vuoti della cultura motivazionale, ovvero il “trasforma la tua passione in un lavoro e non faticherai un giorno nella vita”, si sta realizzando in una chiave inaspettata: “trasforma la tua personalità in un lavoro per lavorare sempre”. Il fatto di aver iniziato a vivere tutto ciò che ci piace e che consideriamo un tratto distintivo della nostra personalità come un dovere è una delle conseguenze dell’idea di “whole self”, per usare la definizione datale in un articolo dell’Economist, che riguarda le fondamenta della nostra struttura sociale. In un sistema basato sul mito dell’indipendenza e sulla spinta a essere sempre performanti è necessario mettere tutti noi stessi in ogni cosa che facciamo, per dimostrarci migliori degli altri e raggiungere una pallida parvenza di riconoscimento – e non solo per quanto riguarda gli obiettivi professionali, ma anche in altri ambiti che dovrebbero resistere a queste imposizioni, come quello delle relazioni sessuali e affettive.
Questa concezione dell’identità, venduta come la migliore strategia per valorizzarci, in realtà non fa altro che ricondurre anche le nostre qualità più intime, le scelte e le preferenze che ci caratterizzano a un modello univoco, in cui ogni elemento deve diventare un mezzo per arrivare a una qualche forma di successo o necessariamente garantire la sua utilità. Il portare tutti sé stessi in qualcosa non è più un invito a concentrare mente e corpo su un’attività, ma a buttarsi in ciò che si fa annullando interamente il resto, per ottenere un guadagno. In questo orizzonte sociale dove “tutto funziona”, per citare un’intervista rilasciata nel 1966 dal filosofo tedesco Martin Heidegger al settimanale Der Spiegel, non esiste più nulla che vada oltre il “mero” funzionamento. Soprattutto, manca lo spazio per dedicarci a quello che ci piace e basta.
Recentemente ho letto un suggerimento interessante su come provare a ridare peso a ciò che ci definisce a livello identitario proprio perché ci piace: mandare a fanculo il lavoro. Che non significa lavorare meno o non farlo affatto, ma abbandonare l’intero sistema in cui ci ingabbiamo attraverso caselle precostituite. In questa fase di transizione, non si tratta di trovare il nuovo centro di uno schema altrettanto costrittivo a cui attenerci. L’idea di individuare una sola nostra caratteristica o attività – che ruolo ricopriamo in ufficio, quanto amiamo la techno, quanto siamo palestrati – per riportare a essa tutto ciò che siamo, infatti, per quanto limitante e dannosa, non ci dà più nemmeno la certezza di aver trovato un posto nel mondo. Invece di agire sulle nostre caratteristiche, dunque sul contenuto, come se fosse sempre questo l’elemento inadeguato, abbiamo l’occasione di disfarci dei contenitori che non ci stanno più bene addosso, quando anche questi ci chiedono soltanto di funzionare e di farlo sempre, impedendoci di manifestare la nostra personalità per ciò che è: qualcosa che muta continuamente nei suoi equilibri e nella sua forma. Per evitare di piegarci a una prospettiva identica alla precedente, dovremmo accantonare l’abitudine di identificarci in una parola o due, per quanto possa farci sentire sicuri, e magari accettare di non essere solo una che guarda film iraniani di quattro ore in lingua originale. Con la consapevolezza che le molte cose – utili o inutili – che ci determinano non saranno sempre le stesse e possono addirittura farci sentire in contraddizione.