Gaspar Noé e il fascino ipnotico dell’estremo - THE VISION

Una delle scelte educative di cui i miei continuano a sostenere l’utilità e l’efficacia a distanza di anni, è quella di avermi fatto vedere buona parte dei loro film preferiti quando ero piuttosto piccola, senza preoccuparsi della mia età anche quando si trattava di assistere a eventuali contenuti violenti, angoscianti o drammatici. Al di là della fierezza con cui ricordo di aver vissuto quei momenti, non credo che questa nostra abitudine abbia avuto qualche effetto sostanziale sui miei attuali gusti cinematografici, o sul mio modo di rapportarmi a immagini e tematiche forti. Sono convinta, però, che il senso di scoperta che ho percepito nel vedere alcuni film “da adulti” quando ancora non lo ero per niente, mi abbia esortato ad allenare una particolare forma di curiosità nei confronti delle rappresentazioni che oggi giudico estreme – perché trattano argomenti disturbanti, o si esprimono con crudezza a livello visivo –, alimentando la ricerca di quel magnetismo singolare, che le rende interessanti proprio per lo sguardo spietato con cui restituiscono alcuni aspetti della realtà.

Gaspar Noé e  Vincent Gallo, 2003

I film del regista franco-argentino Gaspar Noé, esercitano su di me esattamente lo stesso tipo di fascino, una sensazione di frenesia legata alla scoperta di qualcosa che, probabilmente, non sono ancora del tutto pronta a vedere. Ciascuna delle opere della sua filmografia, infatti, riesce a suo modo a fare sentire lo spettatore impreparato, a tratti quasi violato per la brutalità delle immagini che gli vengono presentate. Pur essendo stati molti gli autori che, nel corso della storia del cinema, hanno messo al centro della loro poetica espressiva degli elementi destabilizzanti, che fanno sentire il pubblico a disagio – penso alle suggestioni conturbanti di Lars Von Trier, o all’estetica della violenza di Takeshi Kitano –, nelle opere di Noé c’è un gusto per l’esibizione delle perversioni umane che supera di gran lunga ciò che generalmente si ritiene lecito mostrare al cinema. Tutto ciò che sconcerta, disgusta, o possiede un insito potere dissacrante, infatti, viene raccontato per iperboli nei suoi film, che seguono una cosciente ricerca dell’esagerazione, rivelando un’ostinazione – o forse una forma di arroganza – che spinge il regista sempre oltre nel sondare i limiti dell’eccesso. Durante la narrazione visiva delle sue opere Noé sembra voler stendere davanti ai nostri occhi ciascuno dei sentimenti e degli istinti umani più lugubri, tirandoli dai lembi opposti fino a deformarli per mostrarne le derive deliranti, così da potervi scorgere ogni volta una sfumatura di corruttibilità ulteriore, che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di esplorare. È questa sfinente spinta all’estremo che rende il suo cinema ripugnante, ma allo stesso tempo ipnotico, estremamente divisivo e altrettanto riconoscibile, abile nel farci sospettare di noi stessi, costringendoci a riflettere su quanto gli orrori messi in scena dai personaggi possano nascondersi, in germi, anche negli angoli della nostra mente che non siamo mai riusciti a indagare.

In questo senso, la rottura dei tabù socialmente condivisi è un’intenzione programmatica del cinema di Noé, che parte dalla costruzione di sceneggiature capaci di affondare nelle certezze a cui teniamo di più, di scavare all’interno di temi densi di implicazioni etiche – la prevaricazione sull’Altro, la narcotizzazione dell’emotività, la relatività delle proprie credenze personali – fino a farci male, instillando dei dubbi che creano il caos anche tra i punti di riferimento che ritenevamo inviolabili. I personaggi che descrive, a loro volta, spesso non riescono a vincere l’attrazione irresistibile che provano nei confronti della violenza; vivono un compiacimento sadico rispetto ai delitti che compiono; e sono legati da sentimenti ambigui, come quelli del macellaio protagonista del film Seul Contre Tous, uscito nel 1998, che è ossessionato dal desiderio di vendicare lo stupro della figlia, per cui prova un amore al limite della morbosità incestuosa.

Seul Contre Tous

La vendetta, così come la dipendenza, la morte, la follia e la sessualità, rappresenta uno dei cardini della riflessione del regista, che si muove in bilico sul limite dei gesti che rendono l’umanità disumana; che trasformano l’amore in possesso; o mutano la forza in violenza; pronto a perdere l’equilibrio per raccontare in modo vivido e pulsante le contraddizioni interne al nostro universo psicologico, di cui i personaggi delle sue opere si fanno simbolo. Irréversible, film del 2002 entrato nella storia del Festival di Cannes per aver costretto gran parte del pubblico ad abbandonare la sala durante la visione, è forse l’esempio più potente di questo modo di procedere nella narrazione, sfumando i confini tra concetti dai significati opposti, per confondere qualsiasi distinzione tra il bene e il male. Raccontando la storia di Marcus (Vincent Cassel) che decide di ridurre la sua esistenza alla ricerca dell’uomo che ha violentato la fidanzata Alex (Monica Bellucci) – la cui aggressione viene mostrata per intero lungo una dolorosa, umiliante, insopportabile scena di quasi dieci minuti –, infatti, il regista assorbe il desiderio di giustizia del protagonista in un vortice di colpe che non hanno nulla di diverso da quelle dello stupratore, dal momento che Marcus, dopo averlo trovato, lo condanna a una morte lenta e straziante.

Irreversible

L’estetica ha un ruolo centrale in questo linguaggio fatto di estremismi e contrasti, perché anch’essa si concentra sulla forte stimolazione dei sensi, in un lavoro di composizione che ricorda la figura retorica della sinestesia. Il regista, infatti, replica visivamente questo escamotage utilizzato in poesia, accompagnando lo spettatore in un vortice immersivo dove la colonna sonora si fonde perfettamente con il ritmo delle immagini, che sono così dense, così materiche da dare la netta sensazione di uscire dalla sala macchiati dal sangue che scorre sullo schermo. Per questo il viaggio psichedelico dell’anima di Oscar, protagonista del film del 2011 Enter the Void, e la danza mortale che i ballerini di Climax, del 2018, compiono in preda alle allucinazioni da LSD, sono così coinvolgenti e permettono a chi guarda di immedesimarsi, nonostante le due scene presentino situazioni tutt’altro che ordinarie – rispettivamente un trip da allucinogeni e un’esperienza extracorporea. In Enter the Void, in particolare, il regista gioca con il punto di vista dell’osservatore, inquadrando il protagonista – che solo nell’ultima scena si scopre essere interpretato, ancora una volta, da Vincent Cassel – sempre di schiena, così che lo spettatore possa illudersi, per tutta la durata del film, di indossare i panni di qualcun altro, scambiando i propri occhi con quelli di Oscar.

Enter the Void

Climax

Il tentativo di rappresentare sentimenti estremi e l’estetica immersiva, permettono a Noé di accedere all’aspetto della natura umana che gli interessa maggiormente, ovvero quello dell’irrazionalità. L’obiettivo del regista, infatti, è quello di costruire storie e immagini capaci di travolgere lo spettatore, esattamente come accade con tutte le declinazioni della nostra emotività che non riusciamo a controllare e che in molti casi la nostra cultura ci ha insegnato a reprimere. Questa componente di critica sociale è veicolata, in particolare, dai rapporti di coppia ritratti nei suoi film, che rispecchiano la molteplicità irriducibile delle espressioni della sessualità, ma soprattutto rendono manifesti i sentimenti che ci fanno sentire vulnerabili e di cui, per questo, tendiamo a vergognarci. Se i due protagonisti del film Love, del 2015, aprono alla visione di un’intimità vissuta visceralmente in tutte le sue sfaccettature, che viene ostentata attraverso delle scene perfettamente compatibili con qualsiasi sito di pornografia mainstream; in Vortex, l’ultima opera del regista uscita nel 2021, l’amore di una coppia di anziani – dove il marito è interpretato da Dario Argento – si configura come un luogo emotivo abitato dalle più grandi paure che si possono provare in un rapporto: quelle legate alla malattia, alla morte, alla sofferenza di una persona a cui ci sentiamo profondamente vicini e al costante timore di non essere capaci di prendercene cura.

Love

Vortex

Sostituendo la dipendenza dalle droghe con quella dai farmaci; il corpo attraversato dall’eccitazione con quello piegato dalla vecchiaia; la follia liberata dal consumo di allucinogeni con quella determinata dalla malattia; in Vortex Noé rappresenta un lato più ordinario della nostra irrazionalità, della perdita di controllo che tanto temiamo, perché essa non è frutto di una deviazione perversa della personalità dei protagonisti, ma il risultato del passare degli anni, della decadenza fisica, dell’avvicinarsi della morte. La fragilità che nei precedenti film era rimasta un sottotesto – pur nascondendosi dietro alcuni gesti spietati, perché senza speranza, o nei tentativi di rifugiarsi nelle allucinazioni per diluire il dolore della realtà – diventa quindi un elemento fondamentale della narrazione, quasi un’atmosfera, di cui il regista sembra voler dichiarare apertamente l’importanza. In questo senso, il cinema di Noé si spinge all’estremo per mostrarci tutto ciò che consideriamo indegno di rappresentazione, dalle espressioni più radicali della crudeltà, alle debolezze che ci ricordano quanto siamo fallibili, mettendoci di fronte all’orrore delle prime, ma anche alla necessità di fare pace con le seconde. Il modo in cui i suoi film ci immergono nella parte irrazionale che abbiamo sempre e solo imparato a soffocare, mostrandoci degli aspetti che da soli, probabilmente, non avremmo avuto il coraggio di guardare, è dunque un invito a conoscerla davvero, non solo per educarla, ma per provare a viverla a pieno in certe sue manifestazioni. Come a ricordarci che ci sono estremità della nostra esperienza della realtà e dell’incontro con l’Altro verso cui vale la pena di spingerci, anche quando temiamo di perdere il controllo, di uscirne sconfitti; e che abbandonarci a ciò che sentiamo, a volte, può rappresentare una conquista.

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