È l'Eros che nobilita l'uomo, non il lavoro, ci disse Marcuse

Dopo l’esperienza devastante della seconda guerra mondiale tutti sentono l’estremo bisogno di reinventarsi. Si fa sempre più urgente la necessità morale di osservare le macerie del passato per costruire un futuro diverso, riconoscendo gli orrori di cui è capace l’essere umano e mirando a una rinascita interiore, attraverso una percezione più profonda della realtà e di se stessi. Tutti i panorami che compongono questo ventennio, dalla politica all’arte, dalla musica e alla cultura in genere, sono dominati da orizzonti visionari: tutto è rivoluzione, ogni convenzione è messa sotto accusa. Una vita autentica è quella che si ricerca, libera dall’odio e dalle maschere false che la società stessa impone all’individuo di indossare. Le esperienze allucinogene psichedeliche, l’energia che alimenta le masse operaie e studentesche, l’eccitazione creativa che domina la ricerca artistica rispondono tutte al bisogno più generale di liberazione dei sensi, che appare necessario per rifondare una società migliore e rinnovata. E in questo stato di agitazione collettiva, anche la filosofia contribuisce a sostenere questa esigenza attraverso l’osservazione e l’analisi della volontà di cambiamento, ricercandone le cause e proponendo soluzioni.

Non è un caso se Eros e civiltà, di Herbert Marcuse, sia uno dei testi più letti dai movimenti studenteschi tra gli Stati Uniti e l’Europa degli anni Sessanta e Settanta. Pubblicato nel 1955, si diffonde pienamente qualche anno più tardi, dando conferme proprio nel periodo delle contestazioni. Il motivo di questo successo in differita sta nella portata rivoluzionaria della teoria filosofica alla base, che ben si accorda al clima di sovvertimento generale di questi anni.

Herbert Marcuse

Eros e civiltà, infatti, si presenta come lo strumento teorico con cui liberarsi di un sistema sociale repressivo e dare vita a un nuovo umanesimo, attraverso la riaffermazione delle pulsioni umane. Tra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte, Marcuse si propone di indagare l’origine del disagio nella società contemporanea, intrappolata negli ingranaggi dello sviluppo industriale avanzato, descrivendo i motivi per cui l’individuo è costretto ad accettare questa sottomissione. Il primo passo per la formulazione della sua teoria è analizzare il presente attraverso una critica al pensiero di Sigmund Freud, esposto soprattutto in Totem e tabù e ne Il disagio della civiltà, concentrandosi, quindi, sugli aspetti psicanalitici. Il risultato di questa analisi sarà la descrizione di una società che si basa su fondamenti sconcertanti.

Freud, in sostanza, afferma che per costruire una comunità produttiva ed efficiente sia assolutamente necessario reprimere gli istinti e le pulsioni erotiche: il cosiddetto “principio di piacere” – l’Eros – che domina l’inconscio e che mira alla soddisfazione immediata dei bisogni, non può sopravvivere di fronte alla dimensione adulta e razionale dell’esistenza, fondata sul “principio di realtà”. Anche se quest’operazione culturale genera irrimediabilmente disagio e nevrosi nell’abisso psichico dell’essere umano, essa è l’unica via possibile per un’esistenza razionale. Tra tutte le pulsioni che devono essere represse, quella erotica è la più forte perché sta alla base del concetto stesso di vita: è impossibile da annientare e la sua potenza deve essere perciò sublimata, cioè trasformata e incanalata in altre sfere dell’esistenza che non appartengono alla sessualità, ma che sono finalizzate allo sviluppo produttivo della civiltà stessa. Il prezzo da pagare, allora, sarà un’esistenza repressa e infelice, ma con tutti gli agi di un mondo in completa sicurezza, progredito, benestante.

Herbert Marcuse tiene una lezione all’Università libera di Berlino, 1967

Per quanto vera, secondo Marcuse questa visione non tiene conto di uno specifico contesto storico e ha bisogno di una riformulazione. Domare gli istinti a vantaggio di un ordine civile è necessario, certo, ma il cortocircuito si genera nel momento in cui lo sviluppo della società industriale e tecnologica impone una repressione ulteriore: tutto deve rispondere al cosiddetto “principio di prestazione”, per il quale la comunità si organizza e si stratifica secondo appunto le prestazioni economiche dei suoi membri. Lo strumento che determina l’andamento del progresso è proprio il lavoro, ma in quest’ottica è conseguenza naturale che esso diventi soltanto una fatica, uno sforzo alienante, privato di qualsiasi essenza umana, ma allo stesso tempo necessario al fabbisogno quotidiano. In questo gioco malato, l’individuo è una pedina senza valore, il piccolo ingranaggio che deve far funzionare l’enorme macchina di produzione.

“Per tutta la durata del lavoro, che praticamente occupa l’intera esistenza dell’individuo maturo, il piacere è ‘sospeso’ e predomina la pena,” scrive Marcuse. Il principio di prestazione deve infatti educare e abituare gli individui all’alienazione anche e soprattutto nelle ore di libertà: persino questo tempo libero, disponibile per dare spazio al piacere, deve essere dedicato o al riposo passivo in vista del lavoro successivo o – peggio – controllato dall’industria dei divertimenti programmati. L’intero arco temporale dell’esistenza umana, quindi, deve essere funzionale per sostenere lo sviluppo del progresso. In una società in cui l’uomo è dominato dalla prestazione, anche la sessualità è messa costantemente in catene a favore dell’idea di civiltà e, di conseguenza, tutto ciò che non è strettamente connesso alla volontà di procreazione è considerato perversione, un inutile economico. Questa abominevole castrazione delle pulsioni vitali soffoca la libertà umana a favore della crescita finanziaria che, come insegna la storia, determina il dominio di un popolo su un altro.

Di fronte al tetro panorama in cui l’essere umano non ha valore e conduce una vita disumanizzata e falsa, Marcuse invoca una rivoluzione generale che deve partire necessariamente da un “grande rifiuto” del presente. A differenza di Freud, per il filosofo, non esiste inconciliabilità tra il progresso di una civiltà razionale e il principio di piacere: uno non esclude l’altro. L’unica soluzione, allora, è liberare l’Eros dalle catene della repressione e distruggere ogni presupposto ideologico alla base del principio di prestazione. È obbligatorio, però, riscrivere tutto il codice di funzionamento della società. Ciò non significa eliminare il lavoro, ma l’organizzazione dell’esistenza stessa che non può più fondarsi su di esso. Il cambiamento che desidera Marcuse non si traduce nel trionfo di una sessualità barbara e maniaca e il conseguente annientamento dell’idea di progresso: l’Eros – sebbene il termine richiami il concetto greco di desiderio amoroso – non si riferisce solo all’atto sessuale, ma a tutto ciò che stimola il piacere umano, cioè la fantasia, la creatività, l’entusiasmo e il desiderio alla vita.

Una rivoluzione del genere non si scontra ma può convivere pacificamente col progresso: attraverso una migliore distribuzione della produzione, un’automatizzazione generale e la riduzione al minimo della giornata lavorativa. Nell’epoca dell’Eros liberato, le pulsioni umane non devono più essere incanalate nel lavoro, esso stesso cambia di significato e assume le fattezze di un gioco: non ha scopi esterni, si realizza in se stesso e risponde al solo principio di piacere. In questa prospettiva l’essere umano non è più inteso come strumento di produzione ma come mezzo per l’autorealizzazione. L’ottimismo generale alla base di questa teoria si nutre dell’idea per cui un cambiamento così epocale può avvenire solo in una civiltà al massimo della sua maturità e con gli strumenti che la società contemporanea già possiede. Il problema sostanziale è il loro erroneo utilizzo. Il presente inoltre non può definirsi realmente “progresso”, spiega il filosofo, perché ogni miglioramento, quando c’è, è riferito soltanto a una parte di mondo, che si rafforza e si mantiene in una posizione privilegiata, alle spese di una miseria che continua a esistere.

L’ossessione per la competitività economica tra Stati, la produzione eccessiva di beni superflui, lo sfruttamento della natura e del più povero per il benessere del più ricco sono i disagi che hanno spinto Marcuse alla necessità della rivoluzione e continuano, tuttavia, a essere rintracciabili ancora oggi. Sebbene le condizioni di vita siano generalmente migliorate, è indubbio che anche la nostra organizzazione sociale risponda a quello stesso principio di prestazione contro cui, seguendo l’esortazione del filosofo, avremmo dovuto ribellarci. Il logoramento, l’infelicità e il disagio generalizzato descritti più di sessanta anni fa sembrano essere ormai una costante infallibile del nostro presente, pur essendo apparentemente ancora in possesso di tutti gli strumenti avanzati e col tempo perfezionati per la realizzazione di un nuovo umanesimo, di una civiltà “matura”. Lo stesso Marcuse, in una rubrica di approfondimento del TG Rai del 1968, precisa che il problema di fondo non è la società tecnologica in quanto tale, ma, “ l’abuso che questa società fa della propria tecnologia”. Pur rappresentando i fondamenti sui quali poggia la contestazione del Sessantotto, la sua, però, è una critica fredda e senza bandiera, rivolta solo all’organizzazione stessa del sistema di produzione, sia esso capitalista o socialista: cambiano i padroni, ma non gli intenti.

Rileggere Eros e Civiltà oggi significa essere consapevoli che quel sistema che il filosofo voleva demolire è sopravvissuto ed è con tutta probabilità più forte di prima. Cresciamo con l’idea per cui il dovere debba essere sempre più importante e più impellente del piacere e costruiamo la nostra vita in questa prospettiva, supportati da un sistema che ci vede ancora come ingranaggi tutti uguali, destinati a un lavoro finalizzato all’incremento di un illusorio progresso sociale. La soluzione di Marcuse è certamente utopica, ma ogni utopia serve a poter almeno immaginare una prospettiva diversa e a prendere coscienza di ciò che è possibile iniziare a trasformare. Tutte le rivoluzioni presuppongono la creazione di un nuovo stato di cose e al cambiamento è sempre connessa la paura dell’ignoto. Forse, allora, avremmo potuto rischiare e dare vita a una civiltà libera, regolata secondo i principi dell’Eros, ma al salto nel vuoto abbiamo preferito “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”.

Segui Martina su The Vision