Per farcela davvero non serve farcela da soli, aver bisogno degli altri non è da perdenti - THE VISION

Purtroppo ormai viviamo immersi in un clima di crisi costante. La vita degli ultimi anni ci ha abituati al fatto che non vi sia più alcuna certezza: economica, psicologica, personale, climatica, e la lista potrebbe continuare per pagine e pagine. Sono le fondamenta dell’esistenza stessa a essere scosse. L’unica cosa che sembra immutabile – e che sopravvive a ogni turbamento – è il clima di isolamento creatosi in particolare in Occidente negli ultimi decenni. Se ciascuna delle crisi che abbiamo attraversato e stiamo attraversando ha una matrice differente, infatti, quello che le accomuna è il nostro modo di affrontarle: ognuno per conto suo. 

A testa bassa, ognuno vede poco oltre le proprie scarpe. Come spiega lo storico israeliano Noah Harari nel suo celebre Sapiens, la costruzione di ogni società si articola attraverso l’atto di narrarla. Fin dall’antichità, abbiamo dato forma a ideali e modelli comportamentali verso cui tendere, non solo per capire chi fossimo, ma anche per costruirlo. Anche in questo caso la narrativa ha un ruolo fondamentale. Se però ci sono narrazioni che aiutano a svilupparsi come individui e come collettività, ne esistono anche di nocive, che bloccano un sano progredire e si rivelano fuorvianti e pericolose. È allora necessario decostruirle. È questo il caso della contemporanea ricerca – quasi compulsiva – dell’autonomia personale, sviluppatasi a partire dal dopoguerra. L’indipendenza è diventata un vero e proprio mito nella società contemporanea. Per generazioni, il motore dell’esistenza è stato il raggiungimento del successo con ogni mezzo. Un successo sempre da identificarsi con la piena autosufficienza dell’individuo. Per farcela veramente, bisogna farcela da soli. Abbiamo ormai accettato di condurre una vita votata al lavoro, mettendo la produttività davanti alle relazioni umane; ma se si vuole spezzare la catena di crisi ed emergenze che continuano a susseguirsi, l’ideale di indipendenza a ogni costo verso cui abbiamo teso per generazioni potrebbe rivelarsi un mito da sfatare. 

Fin da piccoli, i bambini vengono cresciuti nella necessità di diventare indipendenti, prima di tutto emotivamente. “Si può contare solo su sé stessi”; “Meglio farcela da soli”: sono questi gli insegnamenti che ci vengono ripetuti di continuo. Dai compiti a casa alle più semplici azioni quotidiane, l’autonomia viene premiata dagli adulti, mentre la dipendenza (anche nei contesti in cui è inevitabile) viene spesso demonizzata o, nel peggiore dei casi, messa in ridicolo. Un riflesso di questa tendenza e della sua applicazione fin dalla più tenera età si trova nella crescente industria dei cosiddetti giocattoli STEM, oggetti pensati per i più piccoli (dai tre ai cinque anni) il cui obiettivo è sviluppare nel bambino le abilità che la società ritiene essenziali per raggiungere il successo. In questo modo, anche il gioco rischia di diventare un tempo dedicato alla produttività. Lo svago e la possibilità di divertirsi solo per il gusto di farlo vengono così negati già dall’infanzia. La situazione, anche se questa è un’inclinazione abbastanza recente, arriva a peggiorare quando si parla a preadolescenti, adolescenti e giovani donne: nessun uomo ti vorrà se sei troppo bisognosa, arrangiarsi prima di tutto e dare sempre l’impressione di avere la propria vita autonomamente sotto controllo. Sembra che la donna possa scegliere solo se essere completamente dipendente e confinata nello spazio domestico oppure interamente indipendente. Siamo ancora molto lontani dall’idea che la miglior forma di legame possibile sia quella di una sana cooperazione.  Ecco che su TikTok si sviluppa, puntualissimo, il trend delle Needy Girls, in cui si identificano come “needy” (in senso dispregiativo) giovani donne ritenute troppo bisognose di affetto o di attenzioni. 

Queste tendenze sono in realtà sintomi dell’indipendenza e quindi dell’isolamento in cui ci spinge la società del consumo: che ci vuole consumatori prima che cittadini, individui e non comunità. Naturalmente, il raggiungimento dell’indipendenza è anche un passo fondamentale nello sviluppo psico-emotivo dell’individuo, l’autonomia, però, diventa problematica nel momento in cui costituisce l’unico modello di vita possibile, portandoci al rifiuto dell’idea che necessariamente abbiamo bisogno gli uni degli altri. Se ognuno vive gli altri come potenziali antagonisti anziché come nodi su cui costruire una rete sociale, lo status quo resta intoccabile, non c’è alcun rischio che si creino movimenti per contrastare attivamente il sistema. 

La funzione che l’individuo assume nel mercato e la sua identità coincidono perfettamente. Una volta completato questo processo, una volta che tutti i legami sono stati spezzati e ogni uomo è solo, non c’è più modo di organizzare ed esprimere alcun cambiamento. Secondo Hegel, il progresso si articolava attraverso il rapporto tra servo e padrone e attraverso la rivolta che l’essere umano metteva in atto nel momento in cui si rendeva conto di essere oppresso. Quando però l’oppressione non viene dall’organizzazione dell’intero sistema, la rivoluzione diventa impossibile: si è compiuto, per concludere il ragionamento con le parole del filosofo Umberto Galimberti, “il dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini”.

Queste dinamiche sono alla base di ogni aspetto dell’esistenza. La glorificazione dell’indipendenza si accompagna alla negazione del naturale bisogno di appartenenza reciproca, e la tendenza a vederlo anzi come una debolezza. Se hai avuto bisogno degli altri per raggiungere i tuoi traguardi sembra che questi valgano di meno, che debba esserci, insieme alla soddisfazione, una parte di vergogna. In questo contesto si sviluppa anche una nuova visione di libertà, che nelle società occidentali contemporanee viene concepita solo come “libertà da”, intesa come assenza di interrelazione. Il legame perde di significato.

A partire da quello amoroso: in una società in cui la virtù si trova nella solitudine, scegliere di condividere il significato della propria esistenza, di affidarsi a qualcun altro, non può che essere un limite. Questo è altrettanto vero se si considera il legame nel suo senso più esteso, quello che finisce per creare una coesione sociale in grado di produrre cambiamento. Dal piano personale si può quindi passare a quello politico seguendo lo stesso filo logico: si crea un circolo vizioso per cui un cambiamento sufficientemente radicale da eliminare ingiustizie e disuguaglianze diventa impossibile. Si finisce quindi per passare da una crisi alla successiva, mantenendo integro l’apparato che le ha generate; la frustrazione per questa impossibilità genera a sua volta un ulteriore allontanamento dagli altri, che vengono visti unicamente come avversari da togliere di mezzo per raggiungere i propri obiettivi. 

Di qui la glorificazione dell’individualismo (“Vivi per te stesso, non per gli altri”, “metti la tua felicità prima di tutto”) che caratterizza l’uomo contemporaneo. Imperativo che raggiunge il suo culmine nella reificazione e nel costante desiderio di possedere altro. L’imperativo del nostro tempo è desiderare sempre il nuovo, che si parli di merci o di persone. Le connessioni e i legami reali tra individui e con il mondo sono osteggiati a ogni costo e non importa quanto feriamo gli altri – o il pianeta – perché viviamo in un sistema che esclude la cura. Trovare una forma duratura e non meramente effimera di benessere in queste logiche è un’illusione: bisogna accettare la semplice realtà che tutto quello che facciamo ha un impatto e, specularmente, quello che succede attorno a noi modifica chi siamo e le nostre scelte.

La buona notizia è che esiste un’alternativa: l’implementazione di un sistema che si basi sui principi di interdipendenza. L’accettazione che gli esseri umani non possono che dipendere gli uni dagli altri – secondo relazioni qualitative e non transazionali – porta necessariamente a sviluppare nei confronti dell’altro un senso di empatia. A sua volta, l’empatia spinge a prendersi cura degli altri e alla formazione di una maggiore coesione sociale. Nel 2020, il collettivo femminista inglese The Care Collective ha pubblicato il Manifesto della cura, per dare un’idea concreta di come potrebbe essere una società concepita in questo modo. “Il cittadino ideale del neoliberismo,” scrivono, “è autonomo, intraprendente e resiliente, una figura autosufficiente la cui promozione ha contribuito a giustificare lo smantellamento del welfare” rifiutando di “riconoscere le nostre vulnerabilità comuni e interconnesse”. Secondo questa visione, proprio l’insieme delle vulnerabilità e la volontà di appoggiarsi gli uni agli altri potrebbe costituire la principale risorsa da cui partire per immaginare un futuro diverso. Questo però è possibile soltanto se si accetta di “ammettere la nostra reciproca indipendenza”. 

È un passo che può spaventare, perché comporta il rendersi conto che non si ha tutto sotto controllo e che il proprio futuro, la propria vita e il proprio successo dipendono dagli altri oltre che da sé stessi. Dipendono in realtà dal modo in cui si sceglie di mettersi in relazione con gli altri, aiutandoli e sostenendoli e dalla disponibilità a lasciar trasparire le proprie fragilità e bisogni perché loro possano fare lo stesso con noi. Quello proposto nel Manifesto della cura è un sistema di pensiero molto distante da quello a cui ci siamo abituati. Potrebbe però portare al cambiamento radicale di cui abbiamo bisogno. Attraverso la cura dell’altro e, per estensione, del contesto sociale in cui viviamo, forse una rivoluzione è ancora possibile.

Per rendere il tutto più chiaro, la professoressa e politologa Joan Tronto ha distinto il concetto di cura in tre sottocategorie: care for, ossia il prendersi cura di qualcosa o di qualcuno, care about, interessarsi a qualcosa, sviluppando un attaccamento emotivo che diventa la base di un’azione; e care with, l’interessarsi insieme a una causa comune, che coincide infine con la mobilitazione politica della collettività. È un progresso logico: la cura e l’attenzione rivolta all’altro (nell’immediata vicinanza) porterà a un interessamento più ampio per le dinamiche che si sono osservate. È probabile, a questo punto, che prendersi a cuore una causa porti al desiderio di passare all’azione. Nel momento in cui si agisce insieme, germogliano le grandi trasformazioni sociali.

Il principio di interdipendenza come base per una maggiore cura, poi, non vale solo tra esseri umani, ma anche nei confronti dell’ambiente. Se si accetta che dipendiamo dall’ecosistema che abitiamo almeno nella stessa misura in cui esso dipende da noi, sarà più facile attivarsi per salvaguardarne l’integrità. Potremmo anche scoprire di essere più fondamentalmente uniti al mondo naturale di quanto siamo disposti ad ammettere.

Certo, raggiungere un tale obiettivo dato il punto di partenza in cui ci troviamo oggi sembra un’utopia. Dobbiamo recuperare uno spazio per la condivisione, accettare di cedere almeno una parte del controllo che normalmente ci illudiamo di avere, solo così daremo agli altri la possibilità di imparare a sorreggerci e a nostra volta scopriremo di essere in grado di farlo. Ecco allora che potremmo sentirci finalmente liberi di credere anche nella più folle delle rivoluzioni e magari arrivare perfino ad attuarla. La verità è che abbiamo bisogno gli uni degli altri e questa non è una debolezza, ma la nostra più grande forza.

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