The Vision

Siamo schiavi dell’idea che più siamo impegnati e meno ci rilassiamo, più valiamo come persone

Il busy bragging – la tendenza a vantarsi di essere sempre occupati che ci fa sentire soddisfatti di noi stessi solo se non abbiamo neanche una mezz’ora di tempo libero – è un fenomeno in forte aumento: se la società ci spinge a fare tanto e di farlo in fretta, noi finiamo per convincerci di valere solo se rispondiamo a queste pressioni e fondiamo così la nostra identità sulla capacità di produrre senza sosta e sulla quantità di impegni che riusciamo ad accumulare, fino a restarne sommersi. Questo fenomeno, infatti, in genere si ripercuote pesantemente sull’efficenza del lavoro stesso e sulla nostra salute psicofisica.

Le lauree umanistiche risolvono problemi complessi quanto le scientifiche ma nessuno lo capisce

L’esperienza di Adriano Olivetti, che assunse nella sua azienda umanisti e intellettuali considerandoli una risorsa fondamentale, è stata la prima e unica in cui si è cercato di superare in ambito aziendale il dualismo fra cultura scientifica e umanistica, valorizzandole come due realtà complementari. Al contrario, la società contemporanea ha sostituito alla visione d’insieme dei saperi una netta differenziazione, tutta a svantaggio dell’apparente improduttività delle discipline umanistiche. Davanti a un contesto tanto impoverito, però, il ruolo del sapere umanistico deve essere centrale quanto quello scientifico.

I giovani si dimettono in massa perché hanno capito che il lavoro non può essere tutta la loro vita

La malsana convinzione che esista un solo modo di concepire, organizzare e praticare il lavoro sta inasprendo il rapporto fra le due generazioni che a oggi costituiscono domanda e offerta sul mercato. Da un report dell’Associazione Italiana Direzione Personale risulta che le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia stanno toccando il 60% delle aziende. Ciò che emerge in modo lampante è lo scarto profondo fra generazioni sempre più distanti, i figli degli anni Sessanta e i millennial o la Gen Z, che chiedono di essere altro al di fuori del lavoro. Questa è la sfida cruciale: ripensare un sistema occupazionale innegabilmente in crisi.

Atlas

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“Hanami” ci ricorda che partire non sempre significa non avere a cuore ciò che si lascia dietro

Nonostante le narrazioni politiche attuali che demonizzano il fenomeno migratorio, ma solo quando non siamo noi a partire, spostarsi, trasferirsi, cambiare luogo non è mai sbagliato, è un movimento innato. Anzi, la migrazione ha costituito – e costituisce tuttora – un aspetto fondamentale, strutturale e costitutivo della specie umana e della sua evoluzione perché modificando l’ambiente e le abitudini finiamo per cambiare le pressioni selettive presenti e future e, quindi, per garantirci condizioni di vita migliori. Le forme del migrare mutano, ma sono sempre esistite: immigrati ed emigranti, schiavi e salariati, stranieri e barbari, profughi e deportati, commercianti e viaggiatori....

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La felicità è un paradosso: più soldi facciamo per averla più in realtà perdiamo tutto il resto

“Dicono che il denaro non faccia la felicità, ma se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quelli di un vagone del metrò”, disse una volta Marilyn Monroe. Nonostante la fama, gli agi e la ricchezza, sappiamo però quant’è stata tormentata la vita della diva statunitense e qual è stata la sua tragica fine, a soli trentasei anni. I soldi, dunque, non sembrerebbero fare la felicità. Questa idea era già stata messa in discussione negli anni Settanta dall’economista Richard Easterlin che, nel 1974, elaborò una teoria, nota come il paradosso della felicità. Secondo...

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