Affrontare la crisi climatica è anche una questione di salute mentale. Soffriamo tutti di eco-ansia. - THE VISION

Nell’ultimo anno mi è sembrato di percepire delle ondate di ansia collettiva intervallate a periodi in cui ci si tranquillizzava relativamente, come se ci concedessimo di non pensare al presente e men che meno al futuro. Tra i bollettini di guerra, le notizie sempre più incalzanti sulla siccità e gli eventi climatici estremi (di cui uno vissuto in prima persona insieme alla mia bambina di cinque anni e durante il quale ci sono state diverse vittime) e molte deadline lavorative che a causa del Covid erano state posticipate, l’estate del 2022 è stato un periodo a dir poco asfissiante, letteralmente e figurativamente, e non solo per me. Era come se da qualsiasi lato uno si voltasse, la realtà, sempre più opprimente, non lasciasse tregua, zone franche, e questo anche perché ormai la nostra società è quasi del tutto globalizzata, a livello di equilibri politici, economici e ovviamente climatici, l’infosfera poi contribuisce a dare il colpo di grazia. Di fronte a scenari tanto spaventosi e complessi, infatti, il battage mediatico, se è vero che da un lato contribuisce ad aumentare la sensibilità pubblica in materia, dall’altro rischia di non lasciarci scampo emotivo e finisce per far sì che in preda all’ansia sempre maggiore, invece che attuare comportamenti virtuosi per cercare di risolvere ciò che ci fa paura, optiamo per un meccanismo di evitamento.

Sempre più persone subiscono il peso dell’eco-ansia, affrontata già nel 2009 dalla psicoterapeuta Linda Buzzell e dal professore di psicologia Craig Chalquist nel loro testo Ecotherapy: Healing with Nature in Mind, e poi definita nel 2017 dall’American Psychological Association (APA) come la paura cronica della rovina ambientale, una forma di disagio psicologico legato al vissuto dei cambiamenti climatici e caratterizzato da preoccupazione, insonnia e pessimismo rispetto al futuro, ma anche, nei casi peggiori, da attacchi di panico o pensieri ossessivi. Come riportano diversi studi, l’eco-ansia, poi, colpirebbe prevalentemente bambini, bambine e persone giovani, per le quali l’incertezza rispetto al futuro si traduce, spesso, in forti preoccupazioni legate al lavoro, alla propria salute o alla decisione di costruire o meno una famiglia. Uno studio del 2018 aveva già riscontrato come il cambiamento climatico aumentasse nei bambini il rischio di sviluppare sindrome da stress post traumatico, depressione, fobie, ansia, disturbi del sonno e dell’attaccamento, con evidenti ricadute a cascata a livello sociale.

Come ha sottolineato l’ingegnere ambientale Stefano Caserini nel suo Sex And The Climate, i cambiamenti climatici influenzerebbero anche a livello chimico la nostra vitalità e quindi il grado di soddisfazione per la nostra vita, il nostro benessere e la nostra felicità. L’aumento di anidride carbonica presente nell’atmosfera e il conseguente innalzamento delle temperature, infatti, sarebbe causa di una riduzione delle nostre capacità cognitive, con conseguente lentezza di ragionamento e di risposta agli stimoli esterni. La ridotta lucidità e quindi capacità logico-razionale, inoltre, influirebbe sull’aggressività e quindi, secondo lo studioso (ma ormai direi che ne abbiamo prova quotidiana in qualsiasi contesto), all’aumento di concentrazione di CO2 corrisponderebbe una maggiore propensione verso sentimenti ostili e una riduzione della nostra disponibilità emotiva all’amore e al tessere relazioni positive con gli altri. Un’altra conseguenza dell’inalazione di CO2 – peraltro ulteriormente aumentata a causa della pandemia, per l’uso prolungato di mascherine FFP2 per far fronte al contagio – potrebbe infine segnare l’aumento della percezione della paura e dell’ansia, così come quello degli attacchi di panico – anche nelle persone sane, che non hanno mai sofferto di questi disturbi.

Tra i principali effetti indiretti di insonnia, preoccupazione, nervosismo e disturbi psicologici cronici (e magari necessario uso di psicofarmaci) c’è il calo della libido, peraltro già strettamente condizionato da fattori climatici come la quantità di luce solare e la temperatura, che influiscono sulla produzione di ormoni. Il caldo eccessivo, dunque, potrebbe condizionare la frequenza dei rapporti sessuali (e di conseguenza i loro effetti benefici su corpo e psiche), che si ridurrebbero per difficoltà psicologiche legate anche allo stress termico. Tra i motivi principali per cui le coppie decidono di non fare figli, o di farne solo uno, c’è anche la paura per il cambiamento climatico e il timore di farli crescere su un pianeta sempre più disastrato, anche a causa della nostra stessa proliferazione e delle nostre abitudini insostenibili. A volte, la scelta di non fare figli è quindi una scelta ecologica, che si mescola ai dubbi e alle incertezze che riguardano il nostro futuro, e se da un lato è vero che vengono amplificate attraverso la narrazione mediatica, dall’altro ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratti di realtà. Realtà che però sono state e vengono tuttora in molti casi minimizzate o sistematicamente ignorate dalle istituzioni. Così sembra che d’inverno la siccità con cui dovremmo fare i conti d’estate non esista, e che sia più importante sostenere la produzione intensiva di carne piuttosto che impegnarsi in un percorso di transizione industriale massivo e di sensibilizzazione rispetto alle abitudini di nutrizione.

Uno dei fattori che peggiora questo tipo di ansia è la sensazione di non poter fare nulla per migliorare la situazione, e quindi per affrontare le emozioni negative che ne derivano. La crisi climatica, infatti, ci mette di fronte a un’immagine molto precisa del futuro che rischia di attenderci, anzi, che ormai in gran parte ci attenderà, una minaccia tangibile con cui dobbiamo prepararci a fare i conti. Secondo Margaret Klein Salamon – psicologa clinica, attivista e autrice del saggio Facing the Climate Emergency: How to Transform Yourself With Climate Truth – l’emergenza climatica, infatti, non è solo ambientale, ma anche intima ed emotiva. Comprendere quanto sia grave e vicina la situazione ci obbliga a fare i conti con le implicazioni esistenziali del problema, a cui si può far fronte attraverso un percorso di analisi psicologica, pratiche di meditazione e respirazione e anche un consistente approfondimento filosofico che ci accompagni – come sottolinea il filosofo e operatore glaciologico Matteo Oreggioni in Filosofia tra i ghiacci – nel “divenire inferno”.

Non è un caso che la riflessione di Oreggioni si sviluppi proprio intorno al ritirarsi dei ghiacci, fenomeno gravissimo sia a livello ambientale, sociale ed economico, ma anche a livello soggettivo; meccanismo di indagine già percorso dal poeta Andrea Zanzotto negli anni Settanta, tra i primi a dedicare un’attenzione tutt’altro che scontata alla deturpazione dell’ambiente da parte dell’umano. Il paesaggio infatti è lo scenario della nostra proiezione emotiva, la natura rappresenta il nostro habitat anche a livello simbolico-cognitivo, è specchio della nostra identità, e primaria matrice di appartenenza, quando cambia anche il nostro sé è costretto a fare i conti con una sorta di lutto, di vuoto, di amputazione, così all’eco-ansia si affianca la “solastalgia”, un senso di alienazione e malinconia simile al lutto, legato alla trasformazione fisica dei territori in cui le persone sono cresciute e che, sempre a causa dei cambiamenti del clima, ci appaiono ormai irriconoscibili. 

Per affrontare questa condizione, il tradimento della promessa che ci era stata fatta, è fondamentale fare i conti con la verità, riconoscendola in tutta la sua portata, anche se devastante per il nostro senso di identità. Stiamo andando incontro a qualcosa di spaventoso, che con buone probabilità accadrà: è normale provare paura, ma questa proiezione non può snervare il nostro presente, facendoci vivere come se fossimo già immersi nel peggior scenario possibile. Dovremmo invece reagire cercando di fare tutto ciò che è in nostro possesso per ridurre il più possibile i danni, sterzare bruscamente di fronte alla catastrofe, per salvare tutto ciò che di bello riconosciamo nella vita. Ripensare la nostra esistenza e i suoi confini in quest’ottica è tutt’altro che semplice, serve uno sforzo di immaginazione collettivo: solo facendoci forza e coraggio a vicenda riusciremo a portare alla luce i rimossi che avvelenano i nostri giorni, ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni e il peso delle nostre colpe; solo nel sostegno e nella comprensione reciproca riusciremo a coltivare quel sentimento di accettazione e sicurezza necessario ad affrontare con coraggio qualsiasi grande sfida, contribuendo a rendere il mondo un posto migliore.


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