Da quando, ormai decenni fa, l’ideologia capitalista ha insegnato a ciascuno di noi a considerarsi prima di tutto un homo oeconomicus, capace di muoversi nel mondo armato della capacità di calcolo e della dose di spregiudicatezza che spesso sono necessarie per massimizzare i propri guadagni, ci siamo abituati a descrivere tutti gli ambiti della nostra esistenza in termini di profitto e di debito, di bilanci positivi o negativi. Mossi dalla volontà di calcolare l’utile – e quindi l’utilità, da cui forse vorremmo scaturisse anche il senso – di ciascuna delle attività che svolgiamo, siamo infatti arrivati a disporre di un’enorme quantità di “economie”. Dall’economia del lavoro, dei diritti, dei dati, questa disciplina è arrivata a occuparsi anche di qualità astratte, ben più difficili da far rientrare in un diagramma o in qualsiasi tentativo di parametrizzazione: basta pensare all’economia dell’attenzione, le cui risorse stanno diventando sempre più scarse nell’era del fast content, o addirittura a quella della felicità, che promette di stimare una sorta di PIL interiore, legato al benessere delle persone, sulla base di diversi fattori – tra cui il lavoro, il reddito, lo stile di vita – ritenuti in grado di contribuirvi in modo oggettivo, sia a livello individuale che sociale.
Anche quando si tratta di crisi climatica – e dell’azione condivisa che abbiamo urgente bisogno di promuovere e implementare se vogliamo provare ad arginare le sue conseguenze devastanti – l’onnipresenza della prospettiva economica ha un ruolo fondamentale nel determinare il nostro modo di elaborare i rivolgimenti che ci stanno coinvolgendo, influendo quindi sull’atteggiamento con cui decidiamo di affrontarli. Non servirebbe in realtà alcun calcolo o bilancio per prendere coscienza di quanto, di fronte allo scenario che già si sta profilando davanti ai nostri occhi, tra eventi metereologici incontrollabili, temperature che continuano a crescere superando il caldo record di mese in mese e livelli di inquinamento che hanno ripercussioni sempre più preoccupanti sulla nostra salute – sia fisica che psicologica –, la scelta di abbracciare un comportamento ecologico rappresenti un’innegabile fonte di guadagno, volta a tutelare il nostro ambiente, così come le nostre stesse possibilità di sopravvivenza. Nei fatti, però, quando parliamo di sostenibilità continuiamo a farlo concentrandoci sulle rinunce, sulle abitudini da abbandonare o su ciò che dovremo imparare a negarci, con una narrazione che paradossalmente finisce spesso per dissuaderci dall’adottare comportamenti virtuosi, come se questi interferissero con la nostra “economia della felicità”, andando a minare il nostro benessere – anche se sul lungo periodo sono necessari per farci sopravvivere.
A confermare questa convinzione – che in molti casi non fa che allontanarci da un intervento incisivo nei confronti della crisi climatica – è l’ultimo sondaggio YouGov condotto su sette Paesi europei tra cui l’Italia, insieme a Regno Unito, Francia, Germania, Danimarca, Svezia e Spagna. I dati raccolti, infatti, sottolineano che nonostante la gran parte degli intervistati si dica allarmata per gli effetti del cambiamento del clima – dal 60% in Svezia, 63% in Germania e 65% nel Regno Unito, al 77% in Spagna, 79% in Francia e 81% in Italia –, affermando inoltre di voler fare in prima persona delle scelte che sostengano le politiche del proprio rispettivo governo orientate a combatterlo, la maggioranza di loro si è rivelata altrettanto scettica rispetto ad alcune di queste misure, quando esse impongono al singolo di modificare concretamente, talvolta in modo radicale, il suo stile di vita.
L’idea di premettere una scelta ecologica a un’abitudine consolidata, o a un atteggiamento che riteniamo irrinunciabile nel determinare il nostro “stare bene”, però può darci la netta impressione di aver chiuso il nostro bilancio personale in negativo, e far ritenere impopolari i provvedimenti che sembrano poter compromettere il modo in cui viviamo, spostando l’asse della nostra quotidianità. Per questo, se il campione esaminato durante il sondaggio ha risposto in maniera largamente positiva su eventuali programmi governativi di piantagione di alberi – con percentuali che vanno dal 45% della Germania al 72% della Spagna –, così come per un possibile divieto da parte dello Stato sull’acquisto di prodotti in plastica monouso – dal 63% della Svezia al 75% della Spagna –; le proposte riguardanti l’alimentazione, con una volontaria riduzione del consumo di carne e latticini, o l’abbandono dell’automobile, un mezzo che per molti è ancora indispensabile, ma che rappresenta anche uno dei maggiori responsabili delle emissioni di carbonio in atmosfera, hanno invece riscontrato un generale rifiuto, con percentuali di gradimento inferiori al 20% in tutti i Paesi.
La valutazione di questo benessere tarato sui “guadagni” individuali, a cui siamo ancora così attaccati da far naufragare molte delle iniziative che potrebbero innescare un miglioramento tangibile a livello ambientale, non è però sufficiente a mappare la sensazione di appagamento e felicità che potremmo ricevere se coltivassimo attivamente la nostra relazione con l’ambiente, proprio attraverso le scelte che ci destabilizzano di più, perché sembrano imporci una rinuncia troppo gravosa. Un numero crescente di ricerche suggerisce infatti che il modello economico, se applicato al rapporto tra l’essere umano e il suo ambiente, non tiene conto di variabili che sono invece fondamentali nel condurci a un pieno benessere. Esso, per esempio, esclude dalla sua analisi degli elementi che invece sono essenziali per condurci a un benessere pieno, come l’idea di contribuire a una missione di salvezza quanto mai urgente, di rafforzare il senso di appartenenza all’ecosistema, o di diventare parte integrante di una finalità che interessa l’intera comunità attraverso le proprie scelte. Tutti questi aspetti permettono di vedere i cambiamenti fatti per convertire la propria esistenza in direzione ecologica come un arricchimento in senso assoluto, sia globale che individuale, e non soltanto un guadagno personale; come parte di una vita diversa, e non per forza di cose più misera o faticosa.
A riprova del fatto che proteggere l’ambiente non significa affatto rinunciare al proprio benessere, diversi studi testimoniano che le persone che acquistano prodotti sostenibili – anche se questi sono decisamente più costosi degli altri –, che riciclano in modo corretto o che aderiscono a movimenti impegnati in cause ecologiche, affermano di essere più soddisfatte della propria vita rispetto alle loro controparti meno rispettose dell’ambiente. Lo psicologo sociale Michael Schmitt, della Simon Fraser University in Canada, attraverso una ricerca sistematica su questi temi, ha addirittura scoperto che su 39 comportamenti pro-ambientali esaminati insieme al suo gruppo di ricerca – tra cui l’attenzione allo spreco alimentare, allo smaltimento dei rifiuti e al contenimento dei consumi –, 37 di essi erano strettamente connessi a livelli più alti di appagamento.
Come afferma Kate Laffan, ricercatrice in Scienze psicologiche e comportamentali della London School of Economics, la nostra narrazione sulla questione climatica deve iniziare a prendere in considerazione “tutte le potenziali sfumature che mettiamo in gioco quando parliamo di felicità”. Il nostro “sentirci felici” è infatti correlato a diversi tipi di benessere, che spesso trascendono quelli che sono i fattori oggettivi o misurabili della realtà. Dovremmo quindi affiancare all’homo oeconomicus un homo sentimentalis, con desideri diversi e più complessi del semplice profitto. Nella sua ricerca sull’approccio alla crisi climatica, per esempio, Laffan parla di benessere edonico, che si riferisce alle emozioni positive che le persone provano quando un’attività migliora il loro umore – come accade spesso quando si decide di andare al lavoro in bicicletta, evitando l’auto e quindi lo stress del traffico, anche se questo non è sempre possibile in quei grandi centri urbani dov’è ancora molto necessario lavorare sulla ciclabilità, così come sui trasporti pubblici verso la periferia –, e di benessere eudemonico – termine derivato da “eudaimonia”, la felicità aristotelica, che il filosofo greco intendeva come una pratica che mira al raggiungimento del “bene” – ovvero quello che percepiamo quando diamo alle nostre azioni uno scopo preciso, che per noi rappresenta anche uno scopo giusto.
Da questo punto di vista, prendere attivamente posizione per quello in cui crediamo, sostenendo la salvaguardia del pianeta con azioni pratiche, è ciò che ci avvicina maggiormente alla felicità, dando alle nostre azioni un senso che va ben oltre l’utilità, il guadagno individuale ed esclusivo che possiamo trarne. Per incentivare un’azione di contrasto alla crisi climatica dovremmo dunque partire da questa consapevolezza, imparando a vedere le scelte ecologiche non soltanto come un sacrificio, o un passo falso che ci porterà inevitabilmente a perdere qualcosa, ma come una chiave d’accesso a un benessere autentico, che coinvolge il singolo nel momento in cui i suoi comportamenti riverberano nel mondo, contribuendo a migliorarlo.
L’effetto positivo che possiamo generare nella realtà, a partire dai cambiamenti che interessano la nostra vita, ha dunque estrema rilevanza sia dal punto di vista ambientale che personale, perché influisce direttamente sulla nostra felicità nella sua accezione più intima, permettendoci di soddisfare la nostra tensione verso questo potente sentimento. Agire per proteggere il nostro pianeta, infatti, è lo scopo giusto che oggi ci riguarda tutti in prima persona, il “bene” che dobbiamo impegnarci a perseguire in tutti i campi della nostra esistenza in modo da garantirla. Per questo abbandonare le abitudini dannose per il pianeta e in generale provare a rendere la relazione che abbiamo con l’ambiente più equa e bilanciata, significa salvaguardare allo stesso tempo il nostro benessere – sia economico, che edonico ed eudemonico – e quello delle generazioni a venire.
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