Secondo studi recenti, un terzo di tutte le emissioni di gas serra del Pianeta derivano dalla produzione alimentare, di cui la gran parte è ascrivibile all’industria della carne, seguita dal settore lattiero-caseario, tanto che secondo gli scienziati evitare carne e latticini a tavola è il modo migliore per ridurre l’impatto ambientale nella propria quotidianità. La sostanza peggiore da questo punto di vista è il metano, un gas con un potere climalterante 80 volte maggiore di quello della tanto – giustamente – temuta anidride carbonica, nei primi 20 anni dall’emissione in atmosfera, con effetti tanto gravi nel breve termine che almeno il 25% del riscaldamento globale odierno è legato alle sue emissioni da parte delle attività antropiche. Come se non bastasse, il metano è anche il principale responsabile della formazione di ozono – a sua volta un inquinante atmosferico che contribuisce a un milione di morti premature ogni anno – a livello del suolo.
Nel mirino della ricerca ci sono i gas prodotti durante la digestione specialmente dei ruminanti, per effetto della fermentazione enterica generata dai batteri intestinali, problematico soprattutto nel caso dei bovini da allevamento, che assieme ai suini costituiscono il 60% della massa di tutti i mammiferi presenti sul Pianeta. A questo si uniscono le emissioni derivanti dalla produzione di mangime, a causa ad esempio dei troppi fertilizzanti, ricchi di azoto e pericolosi per aria e acqua, e – non ultimi – gli effetti della deforestazione portata avanti per destinare terreni agli allevamenti e ai pascoli.
Come spesso succede quando si parla di inquinamento, la responsabilità è ascrivibile a una manciata di nomi. Secondo l’ultimo rapporto dell’Institute for agriculture and trade policy (Iatp), pubblicato a metà novembre, i 15 maggiori produttori mondiali di carne e latticini emettono più metano di interi Paesi come Russia, Canada e Australia, e più dell’80% dell’Unione Europea; e le loro emissioni di gas serra complessive superano quelle totali di compagnie petrolifere come ExxonMobil, BP e Shell. In Europa i maggiori produttori di carne e latticini si concentrano in 10 Paesi dell’area centro-occidentale, Italia compresa. La questione non è facile da dirimere: se da un lato il consumo pro-capite di cibi di origine animale in Europa risulta in calo, in compenso le esportazioni di pollame, prodotti lattiero-caseari e suini tra il 2005 e il 2018 sono aumentate rispettivamente di oltre il 90%, del 45% e di poco meno del 60%; motivo per cui ridurre il consumo interno di questi prodotti resta fondamentale, ma è poco incisivo se le esportazioni proseguono a tali ritmi. D’altronde, secondo Greenpeace anche le emissioni annuali degli allevamenti sono aumentate del 6% tra il 2007 e il 2018, per circa 39 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Per iniziare a lavorare concretamente sulla riduzione delle emissioni della produzione alimentare, riconoscendo le responsabilità ambientali a chi, in effetti, le ha, bisogna innanzitutto partire dai dati e dalla loro diffusione; peccato che questi grandi emettitori si guardino bene dal fare chiarezza: i report aziendali sulla sostenibilità in rarissimi casi sono trasparenti, la maggior parte, invece, non riporta i dati relativi al metano o lo fa in modo parziale. Tutti, in compenso, ci tengono a mostrarsi impegnati nei confronti dell’ambiente, utilizzando sempre più spesso, ad esempio, dei sistemi di compensazione per raggiungere le “zero emissioni nette”, magari in partnership con il comparto dei combustibili fossili – come nel caso del gigante Chevron, che sta investendo in impianti di biometano assieme a Brightmark, in collaborazione con alcuni caseifici industriali, per ottenere combustibile per i trasporti a lungo raggio. Il metano prodotto dagli allevamenti – che rimane, per esempio, nel letame – viene così convertito in biogas, che è “bio” solo perché non è “minerale”, ma non è affatto sostenibile – nonostante l’Unione Europea lo consideri uno dei combustibili su cui puntare per la transizione ecologica. Anzi, proprio l’UE ha da poco sancito una partnership per spingere il biometano e sganciarsi così dalla dipendenza dalla Russia. Questa soluzione di facciata rischia di incentivare ulteriormente la produzione di metano, mentre questa continua a inquinare terreni, aria e fiumi con protossido di azoto, nitrati e ammoniaca. Un’altra strategia ideata per il taglio alle emissioni sembrerebbe essere quella basata su particolari additivi per i mangimi che dovrebbero ridurre il metano prodotto dalla digestione dei bovini, anche se non ci sono ancora dati certi sulla sua efficacia.
Le raccomandazioni delle autorità competenti, in effetti, più che puntare sulle soluzioni tecnologiche, spingono in direzione di cambiamenti radicali del sistema agroalimentare mondiale. Il rapporto speciale dell’IPCC sui cambiamenti climatici e il territorio del 2019, ad esempio, ha calcolato che una riduzione globale dell’allevamento, parallelamente a un cambiamento delle abitudini alimentari, potrebbe eliminare fino a 8mila Mt CO2 equivalenti all’anno entro il 2050, rispetto a una proiezione business-as-usual, con un potenziale di riduzione fino al 66% delle attuali emissioni connesse all’agricoltura e allo sfruttamento dei suoli. Il messaggio che anche l’IPCC si sforza strenuamente di veicolare è, ancora una volta, che l’Unione Europea tutta – compresa l’Italia che tanto si vanta della dieta mediterranea, mentre continua a mettere in tavola quotidianamente prodotti che sarebbero destinati a occasioni di festa, con effetti dannosi anche sulla salute – deve ridurre la produzione e il consumo di prodotti di origine animale per combattere in modo efficace la crisi climatica.
Per provare a farlo, recependo gli allarmi degli scienziati, i Paesi Bassi stanno progettando delle strategie per tutelare le aree sensibili del territorio e ridurre le emissioni, facendo chiudere le aziende agricole e gli allevamenti più inquinanti dietro compenso economico e imponendo, a chi preferirà continuare a lavorare, di soddisfare requisiti ambientali più restrittivi, pena il pagamento di multe, anch’esse rese più severe. Gli stessi Paesi Bassi si sono fatti notare qualche mese fa quando Haarlem è diventata la prima città al mondo ad annunciare il bando – che diventerà operativo dal 2024 – della pubblicità sulla carne, proprio perché inquinante. Qualcosa di non troppo distante, quindi, da quanto già fatto con le severe restrizioni alle pubblicità e sponsorizzazioni di tabacco e sigarette.
Il Piano strategico per l’applicazione della Politica agricola comune (PAC) italiano, consegnato a Bruxelles un anno fa, è stato bocciato ad aprile scorso per il suo insufficiente impegno ambientale e incoerenza. Secondo la Commissione, infatti, la distribuzione dei sussidi proposta era decisamente sbilanciata a favore dei giganti dell’agroindustria, soprattutto i grandi appezzamenti agricoli spesso caratterizzati da monocolture, e le aziende zootecniche della Pianura padana: sostanzialmente degli allevamenti intensivi su scala industriale. Il piano, poi, oltre a mancare di indicatori precisi per valutare i progressi ambientali, era scarsamente ambizioso quanto a tutela di acqua, aria, biodiversità, foreste e riduzione delle emissioni, mentre si mostrava troppo indulgente con l’uso di pesticidi, fitofarmaci e fertilizzanti. Nonostante le criticità, Ministero e Regioni hanno rimandato a Bruxelles la revisione del documento senza modifiche sostanziali rispetto alla prima versione; rischiando, come denunciato dal WWF, di mettere in pericolo non solo l’ambiente, ma anche il futuro dell’agricoltura italiana, sempre più esposta agli shock climatici.
La stessa Unione Europea, a dire il vero, non ha molto di cui vantarsi: negli scorsi anni il 75% dei fondi della PAC (Politica Agricola Comune) è stato destinato al sostegno degli allevamenti intensivi, ma ancora le ultime revisioni approvate non hanno introdotto modifiche sotto questo punto di vista; aumentando, di fatto, solo il senso di confusione, con la PAC europea 2023-2027 che da una parte riduce i pagamenti alle aziende zootecniche da latte, ma dall’altra glieli fa recuperare con sostegni aggiuntivi e selettivi.
Invano, quindi, l’ONU chiede di convertire il più possibile l’alimentazione mondiale – a partire, ovviamente, dall’Occidente, che ha la possibilità di scegliere la propria dieta – in direzione vegetale, sostituendo le proteine animali con i legumi e aumentando proporzionalmente la quota di ortaggi. Per farlo, informare correttamente i cittadini è fondamentale, anche perché l’ignoranza sul tema è grande, basti pensare all’enfasi sui prodotti a km0, quando in realtà il trasporto non ha che una minima parte nell’impatto totale della filiera di carne e latticini, con oltre il 90% delle emissioni rappresentate dal segmento zootecnico. Sarebbe importante, ad esempio, diffondere un’efficace educazione ambientale e alimentare, gravemente carente anche nel nostro Paese, da affiancare a iniziative che permettano una scelta informata al supermercato, quali ad esempio le etichette di impatto ambientale sui prodotti. Finché il consumatore avrà un potere limitato, le iniziative più incisive dovranno arrivare dall’alto, ad esempio con sussidi alla produzione di alimenti sostenibili e sani e tasse su quelli che lo sono meno, per renderli meno invitanti agli occhi di chi li acquista. Sono iniziative necessarie, sostenute dagli esperti che le ritengono “inevitabili”, dato che il calo nel consumo di questi cibi non sta avvenendo in modo abbastanza veloce da avere un reale impatto. È la stessa produzione alimentare a dover essere radicalmente rivista, a fronte della crisi climatica in atto, e tanto più della crescita della popolazione mondiale.