C’è stato un tempo – i primi decenni della seconda metà del Novecento – in cui la letteratura negli Stati Uniti ha visto uno sviluppo unico nel suo genere, così riuscito e peculiare da veder puntati su di sé i riflettori di gran parte del mondo e influenzare il modo di scrivere e raccontare storie di tutta Europa e non solo. In contemporanea, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, Hollywood viveva uno dei suoi periodi d’oro, innescato in reazione alla profonda crisi provocata dal drastico crollo degli spettatori, a causa dell’affermarsi della tv come nuovo mezzo d’intrattenimento di massa e dalla sempre maggior rilevanza del cinema europeo, in particolare francese e italiano, con la nouvelle vague e gli spaghetti western. Così, come succede in alcuni periodi significativi della storia, tra le due arti si instaurò uno stretto dialogo, ma non solo, ebbe inizio una vera e propria collaborazione crossmediale diffusa, dalla letteratura al cinema, passando per la musica e la moda. Molti grandi scrittori erano anche ottimi sceneggiatori e il loro stile si arricchiva di entrambe queste modalità narrative, ottenendo prodotti culturali incredibili, e soprattutto capaci di parlare ed emozionare i giovani, unendo classi sociali, cultura alta e bassa, immaginari ed etnie. Fu anche questa enorme capacità narrativa – nata in parte dall’atmosfera multiculturale che si venne a creare – a rendere poi gli Stati Uniti una potenza egemone, non solo da un punto di vista economico, politico e militare, ma anche culturale e immaginifico.
Quest’epoca è passata alla storia come New Hollywood, il cui inizio è riconosciuto da alcuni in concomitanza all’uscita de Il laureato e Gangster Story, nel 1967, da altri invece con quella di Easy Rider, nel 1969. Al di là delle convenzioni, quel che è certo è che le forze che nutrirono il ‘68 esplosero anche nella narrazione cinematografica. Fino a quel momento, infatti, le maggiori case produttrici avevano continuato, nonostante tutto, a puntare sulle grandi produzioni, pensate per un pubblico tradizionalista e generalista, ma la crisi innescò una profonda rivoluzione, spinta dalla controcultura e dai sentimenti dei più giovani. La società dell’epoca era profondamente scossa dalla guerra del Vietnam, narrata fino a quel momento solo in termini propagandistici, dalla contestazione giovanile, dai movimenti di emancipazione femminile e delle minoranze. A questo si aggiungeva una generazione di grandi registi, dalla cui collaborazione con una classe attoriale di altissima qualità, sono nate alcune delle opere più rappresentative della breve storia del cinema. Un uomo da marciapiede – del 1969, il cui titolo originale è Midnight Cowboy – è una di queste.
Diretto da John Schlesinger, Un uomo da marciapiede si basa sull’omonimo romanzo di James Leo Herlihy, pubblicato nel 1965, e il tema portante fu composto da John Barry, autore della colonna sonora de La mia Africa e Balla coi lupi, per dirne due. Il film – mostrando in maniera per certi aspetti neorealista la New York di quegli anni, con le sue enormi disparità economiche, i ghetti etnici (in particolare quello italiano), il mondo dell’arte e la controcultura queer e omosessuale, la prostituzione e l’uso di droghe – ha contirbuito a veicolare i sentimenti confluiti nei movimenti per la liberazione sessuale – esplosi negli anni Sessanta e culminati nel 1968 – e rappresenta il primo passo deciso di un’ondata di prodotti cinematrografici impegnati a trattare tematiche “per adulti” e a scardinare i tabù della cultura perbenista americana. Inoltre lanciò definitivamente Dustin Hoffman – che solo due anni prima aveva sfondato il muro dell’anonimato con Il laureato – nell’Olimpo dei grandi interpreti, affermandolo come uno dei principali antieroi del cinema statunitense, grazie alla sua interpretazione di Enrico Rizzo, italo-americano zoppo e malato di tubercolosi che campa alla giornata.
Il film inizia con un’inquadratura del corpo statuario di Joe, interpretato dopo una serie di peripezie da Jon Voight, che peraltro era decisamente più muscoloso degli standard estetici dell’epoca. Proprio il corpo sarà il protagonista assoluto di questa storia: il corpo come oggetto ma anche come strumento, che ci permette di sentire il mondo, di conoscerlo, di comunicare con l’Altro; il corpo sano e il corpo malato; il corpo forte e debole; bianco e nero; il corpo maschile all’interno di una società profondamente machista e iniqua; il corpo fatto di muscoli e pensieri, anche di sogni. Insieme all’acqua, mentre Joe si lava scorrono le note di una canzone che segnò i sentimenti della seconda metà degli anni Sessanta, ma non solo: “Everybody’s Talking”, di Harry Nilsson – compagno di John Lennon durante il suo “lost weekend”, durato diciotto mesi. Il motivetto, ripetitivo ma al tempo stesso incalzante, è già un sogno in sé, una forza che ci spinge a partire, a trovare la nostra libertà, come si appresta a fare Joe lasciando il Texas per New York, senza dar retta a nessuno, ma seguendo ciò che porta la vita, fiduciosamente, ascoltando solo la propria musica interiore, senza paura del giudizio degli altri. “Everybody’s talkin’ at me / I don’t hear a word they’re sayin’ / Only the echoes of my mind / People stoppin’, starin’ / I can’t see their faces / Only the shadows of their eyes”. E infatti una delle cose più care a Joe è proprio la sua radiolina, che si porta perennemente dietro, ascoltandola di continuo, come una sorta di coperta di Linus, che forse gli ricorda le figure femminili che lo hanno abbandonato e che alla fine baratterà per aiutare Enrico.
Joe, inseguito dai flash dei ricordi tremendi sul sesso e sul suo primo amore – una ragazza considerata pazza, probabilmente solo perché sessualmente libera e quindi vittima di uno stupro di gruppo e ricoverata in manicomio, come succedeva spesso all’epoca – e stanco della sua vita monotona e del lavoro di lavapiatti parte vestito di tutto punto per la grande metropoli, dove spera di guadagnarsi da vivere facendo il gigolò. Nei finestrini della corriera che lo porta via – pratica cara a Schlesinger – viene incorniciato un grande cartellone pubblicitario della Eddie Chiles’ Western Company of North America – dilagante negli stati del Sud tra gli anni Sessanta e Settanta – che recita “If you don’t have an oil well… get one!” (“Se non hai un pozzo di petrolio… prenditene uno!”), come se tutti potessero farlo. Ma ovviamente non è così. Da buon texano, Joe è convinto che la grande città sia piena di donne ricche e attraenti e soprattutto sessualmente insoddisfatte, a causa dell’impotenza o dell’omosessualità degli uomini newyorkesi. Fare lo spaccone vestito da cowboy, però, a differenza delle sue aspettative, incredibilmente lo mette solo in ridicolo. A New York, Joe appare irrimediabilmente per il provinciale che è.
Un giorno Joe in un bar incontra Enrico, che tutti per sfottere chiamano “Ratso” – e in effetti si muove proprio come un ratto – e che vuole soltanto truffarlo. Schlesinger gioca volutamente sulle differenze lampanti della fisicità dei due fin dall’inizio. Se Ratso è un tappo, che scompare tra la folla, ignorato e calpestato da tutti, Joe, volente o nolente, svetta di una buona testa dallo stolido flusso di persone che si muovono in blocco lungo le grandi strade di New York, osservando la realtà da un punto di vista del tutto diverso dagli altri. Uno dal basso, l’altro dall’alto, entrambi si discostano dalla normalità. Mentre camminano insieme, appena conosciuti, Rico spiega la vita a Joe. La voce gracchiante e sguaiata e quello zoppicare ritmato, ipnotico e grottesco a un tempo, simile a un passo di danza, a un pas de bourrée obbligato, con il suo corpo esile che sale e scende mentre Joe avanza saldo, statuario, svettando tra la folla, e il cui flusso si interrompe solo quando un taxi rischia di investirlo in mezzo alla strada e lui gli urla una delle frasi più famose della storia del cinema – “I’m walking here! I’m walking here!” – a rivendicare il suo spazio nel mondo.
Da quel momento le cose incominciano ad andargli sempre peggio: non ha più soldi, non riesce a lavorare ed è costretto a liberare la sua camera, lasciando tutto ciò che ha in pegno, per poi finire ad essere ospitato da Rico nello scalcinato buco in cui vive, all’interno di un palazzo pericolante, senza riscaldamento. Joe ha paura che Rico voglia approfittarsene di nuovo, ma è talmente stanco che crolla addormentato. Rico allora gli toglie gli stivali per farlo riposare meglio e quando Joe improvvisamente si risveglia teme glieli abbia rubati, ma basta uno sguardo – quello sguardo di Hoffman, forse la parte più erotica del film – per far capire a Joe che non gli succederà mai niente di male lì, che quello è un rifugio all’insostenibile durezza del mondo, l’unico spazio per sé che Rico è riuscito a sottrarre alla città. In quel momento, il personaggio di Rico, assume una dignità così elevata da reggere ai tutti i successivi colpi che gli verranno inflitti dalla vita nel corso della storia. In quel singolo fotogramma Rico è un essere vivente, e in quanto tale degno di rispetto, è libero dallo sguardo impietoso del mondo, che lo giudica come un rifiuto, non è più un povero, pidocchioso, truffatore, immigrato malato: è un uomo, che pur non avendo niente per sé, si prende cura come può di un’altra persona in difficoltà.
Più aumentano le avversità, più si instaura una profonda amicizia tra i due. Joe e Rico sognano di svernare in Florida, là dove tutto andrà bene, tra palme, donne e camicie hawaiane. Un giorno, finalmente, a una festa psichedelica a cui sono stati invitati per caso da un’artista colpita dall’aspetto di Joe, quest’ultimo trova una cliente – Shirley, liberamente ispirata alla figura di Edie Sedgwick. La distanza tra il corpo di Joe e quello di Rico è sempre più ampia, incolmabile, eppure non sono mai stati così vicini. Rico, sempre più malato, ormai agonizzante, sprona Joe a lasciarlo dov’è e ad andarsene con la donna, oramai ha un solo desiderio: partire per la Florida, deciso a seguire fino in fondo il suo sogno. Joe decide di lasciar perdere la prima possibilità di iniziare la sua carriera per accompagnare l’amico. Dopo aver recuperato i soldi per i biglietti lasciano insieme New York e la loro vita. Quando Rico si piscia addosso, Joe, durante una sosta, scende a comprare dei vestiti nuovi per entrambi. Abbandona così in un cestino lungo la strada la sua vecchia inautentica identità da cowboy. Una volta risalito in corriera, riveste Rico e ricomincia a parlargli del futuro, ma Rico è ormai morto.
La storia vuole anche essere una critica ustionante al sistema statunitense. Non a caso, nel corso del film Joe scrive “mony” al posto di “money”, riprendendo il nome della grande compagnia di assicurazioni statunitense che vedeva campeggiare sui tetti nel panorama inquadrato dalla sua finestra. L’American Dream emerge in tutta la sua falsità, cosa già lampante sul finire degli anni Sessanta, e che invece abbindola ancora noi europei. Non è vero che in America – così come nel sistema liberista – chiunque possa farcela, non è vero che – come diceva Walt Disney – se puoi sognarlo puoi farlo, e non è vero che il successo dipende esclusivamente dalle nostre forze e dalla nostra volontà. Come cantava Gianni Morandi – e come è tornato a cantare anche all’ultimo Festival di Sanremo, suscitando un effetto piuttosto amaro – solo “uno su mille ce la fa” (anzi, probabilmente ormai anche qualcuno in meno), e soprattutto ce la fa per caso.
Rico, dal canto suo, fa la voce grossa dei fragili che diventano feroci, ma nel profondo sembra sempre vergognarsi di essere visto, riconosciuto, di esistere. Così, si rintana nella sua lurida topaia. Eppure, è proprio lui a smantellare il sogno americano per incarnare a pieno titolo il sogno in assoluto, simile a un personaggio dostoevskiano. Ma a differenza del narratore senza nome de Le notti bianche, Rico lotta fino alla fine per il suo nome, l’unica cosa che gli viene concessa di possedere poco prima di morire, grazie a Joe e al suo affetto. Morendo, con la sua bella camicia a fiori, si fa involontario traghettatore dell’anima del suo amico, regalandogli una nuova possibilità di immaginare se stesso e la vita. “I’m goin’ where the sun / keeps shinin’ / Through the pouri’ rain / Goin’ where the weather suits my clothes”.