Qualche anno fa il quotidiano francese Libération ha sottoposto a quasi duecento registi di fama internazionale un questionario che chiedeva loro, fra le altre domande, che cosa li spingesse a fare film. Leggendo le risposte, ricordo che mi aveva particolarmente colpita quella data da David Lynch, che ha detto di fare cinema “per dare vita a nuovi universi e vedere se funzionano”.
Le parole di Lynch mi hanno riportata al mio esame di filosofia antica, che mi sono trovata a dover preparare durante un sofferto mese di agosto – in sessione estiva, a Padova, si toccano picchi di temperatura degni del deserto di Mad Max – leggendo diversi dialoghi di Platone fra cui il Timeo, l’opera in cui viene esposta la cosiddetta “fisica” platonica, dalla questione dell’origine dell’universo, fino alle leggi che lo governano e alla sua struttura. Nel Timeo compare il demiurgo, una creatura mitologica a cui il filosofo greco attribuisce la responsabilità di aver plasmato il mondo sensibile e tutti gli elementi che lo compongono, oltre che di averli ordinati e assemblati in modo tale da farli funzionare in un meccanismo perfetto.
Il demiurgo di Platone non crea dal nulla, ma ha la facoltà di modellare, organizzare e vivificare la materia; di inventare un mondo a partire da componenti esistenti e di metterlo in movimento, come un regista che costruisce l’universo in cui avrà luogo la narrazione del suo film. Questa immagine del regista-demiurgo che aleggia nella risposta di Lynch, cattura con estrema precisione la natura del cinema come arte che si fonda sulla composizione di parti eterogenee – visiva, musicale e attoriale – e ne mette in luce un aspetto ulteriore, ovvero quello dell’invenzione. Ci sono registi, infatti, che sono stati inventori di mondi a tutti gli effetti e che hanno reso i loro film imprese geografiche, oltre che cinematografiche. Tra di essi, il demiurgo per eccellenza è stato Sergio Leone, “l’italiano che inventò l’America”.
L’epiteto attribuito al grande regista fa anche da titolo all’ultimo documentario di Francesco Zippel, regista romano che si era già cimentato in un biopic nel 2018 con Friedkin Uncut – Un diavolo di regista. Il film, prodotto da Sky Italia e Sky Studios in collaborazione con Leone Film Group, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e ripercorre l’universo a cui il cinema di Leone ha dato vita, attraverso le testimonianze di coloro che hanno potuto abitarlo, contribuendo a tracciare i confini del western all’italiana. Come mi ha spiegato l’autore, il documentario – da oggi disponibile nelle sale cinematografiche – nasce per raccontare la vena “outsider e sempre contemporanea della sensibilità cinematografica di Leone”, le cui opere sono il motivo per cui ha deciso di fare il regista. Tra gli intervistati, nel film compaiono grandi personaggi che insieme a Leone hanno fatto la storia del cinema: Clint Eastwood, Jennifer Connelly, Robert De Niro, Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Steven Spielberg, Darren Aronofsky, Giuseppe Tornatore, Frank Miller e, immancabilmente, Ennio Morricone. Con un “furto” del primissimo piano sugli occhi dei personaggi, tipico dei film di Leone, Zippel introduce le interviste che si susseguono nel documentario, andando a ricostruire l’aspetto più straordinario dell’operazione artistica del regista, ovvero l’aver portato a compimento il progetto di una carta geografica che dà le coordinate di un certo tipo di cinema, inedito fino ad allora, a partire dai punti di riferimento che Leone aveva raccolto quando era un bambino appassionato di film western anni Trenta e Quaranta e del loro immaginario, in netto contrasto con la Roma fascista della sua infanzia.
Sono proprio queste suggestioni che lo hanno portato a voler fare più sua l’America del cinema, orientando fin dall’origine il percorso che ha permesso a Leone di giungere agli archetipi del genere western classico – come dichiara lo stesso Quentin Tarantino in una scena del documentario – per poi cambiarne la composizione delle parti, trasformandolo in qualcosa di significativamente diverso: un cinema meraviglioso, che unisce la profondità di quello italiano all’estetica statunitense.
Il documentario si fa strada fra i ricordi dei colleghi, degli amici e della famiglia di Leone, che sottolineano quanto intensamente il regista volesse portare più vicino a sé quel mondo distante che aveva riempito le sue fantasie da bambino, traslando le storie di saloon, “indiani” e cowboy nei brulli scenari dell’Almeria spagnola o addirittura nei dintorni di Roma, alla ricerca dell’americanità che desiderava per i suoi film in luoghi più vicini, ma soprattutto in ambientazioni che gli appartenessero. Lo spaghetti western è, in questo senso, il punto di condensazione della visione del mondo leoniana, perché rappresenta una rilettura intima e personale di formule, modi di rappresentazione e schemi narrativi altamente codificati: gli spazi sconfinati e polverosi, la lotta fra buoni e cattivi, i cappelli in cuoio con la falda ricurva, il whisky e il tabacco sono elementi carichi di significato simbolico nel western tradizionale, perché fanno parte di una narrazione epica, di un mito di fondazione che racconta la nascita dell’homo americanus. Leone ha decostruito questo epos eroico in un modo che Zippel definisce “rivoluzionario”, perché ha “fuso una molteplicità di influenze in un linguaggio proprio, aggiungendo alla grammatica del cinema degli elementi che non c’erano stati prima e che, così, non ci sarebbero stati più”.
Il nuovo mito del western all’italiana è retto in primis dai suoi protagonisti, personaggi che, nel documentario, il fumettista Frank Miller – maestro del noir, che ha preso ispirazione da Il buono, il brutto e il cattivo per scrivere il suo Sin City – accosta a vignette o a cartoni animati per via della loro capacità di farsi “iconizzazioni del bene e del male” pur rivelando delle sfumature, in modo tale che nella bontà si intraveda della malvagità e viceversa. Zippel approfondisce queste sovrapposizioni e intersezioni psicologiche – attraverso estratti dei film, tratti delle interviste e materiale di repertorio – mostrando come Leone le usi per giocare con lo spettatore, mettendogli davanti dei personaggi ambigui, simboli di un’ironia tipica della commedia all’italiana.
Ed è così che Clint Eastwood, il più celebre dei volti di Leone, deve acquisire quell’indolenza “sorniona e un po’ paracula”, a detta di Carlo Verdone, che lo rende credibile nel ruolo di eroe atipico, mercenario, privo di morale, interpretato nella Trilogia del dollaro. O ancora che Henry Fonda, il buono per antonomasia del cinema americano, si rivela essere il più sanguinario degli assassini in C’era una volta il West, con una scena in cui la macchina da presa compie un giro attorno all’attore inquadrato di schiena, svelandone a poco a poco i tratti del viso, in modo che lo spettatore possa iniziare a sospettare quale sia la sua identità, che viene confermata soltanto alla fine. Da ultimo Noodles, il protagonista di C’era una volta in America interpretato da Robert De Niro, incarna la mancanza di ciò che non c’è più, la malinconia che cresce assieme alla presa di consapevolezza del passare del tempo, un sentimento astratto, molto simile al sentore apocalittico che invade il primo giorno dell’anno, quando i festeggiamenti sono finiti e la sonnolenza statica della mattina sembra presagire la fine del mondo, e che Leone riesce a rendere palpabile.
Protagonista, assieme ai volti di questi eroi a metà, è la musica di Ennio Morricone. Sergio Leone, nel documentario, viene definito come “l’ultimo grande regista del cinema muto” – quasi avesse voluto seguire le orme del padre Roberto de Roberti – per la sua capacità di far comunicare, più delle battute dei dialoghi, le sole immagini, che sembrano dotarsi di un’estensione infinita anche grazie alle colonne sonore di Morricone, sempre perfettamente combacianti alla diegesi dei film. Il regista statunitense Darren Aronofsky, in un tratto della sua intervista, definisce le alterazioni dei temi del compositore romano come “frasi piene di parole che veicolano informazioni, non solo emozioni”. Quella fra Leone e Morricone è dunque una fusione assoluta, che fa sì che la musica vibri assieme all’immagine, articolando una vera e propria conversazione con lo spettatore, fatta di momenti incalzanti, ritmi frammentati, rumori realistici – come i fischi che accompagnano la scena iniziale di Per un pugno di dollari – e lunghi silenzi, che regista e compositore hanno saputo “rendere vivi”, per usare le parole di Zippel, innescando una splendida “dialettica di pieni e di vuoti”.
È questa la “lotta per il suono e per il silenzio” che Morricone ha ricordato anche durante i funerali di Leone, nel 1989; un antagonismo che trova l’equilibrio perfetto nei suoi film, lasciando alla narrazione lo spazio per respirare e per raccontare le attese e i tempi dilatati. Per utilizzare le parole del regista Giuseppe Tornatore, Leone “non ha l’ansia del regista-montatore, che deve concludere una situazione per poi passare alla successiva”. I suoi film vivono anche dell’indefinito, del non concluso, recuperando un approccio al tempo che appartiene da sempre alla letteratura, ma che non era mai stato del cinema. La sensazione trasmessa da questa temporalità indefinitamente vasta è quella di star leggendo una pagina della Recherche di Marcel Proust, magari la descrizione barocca di un salone parigino durante un evento mondano, in cui l’autore francese si sofferma con zelo su ogni dettaglio dell’arredamento o del vestiario degli invitati. Allo stesso modo, le scene di Leone spesso durano oltre il tempo di consunzione dell’immagine, lasciando allo spettatore tutto il tempo di esplorare per intero il riquadro dello schermo, fino a fargli sentire addosso la polvere.
I personaggi, la musica di Morricone e la dilatazione del tempo sono tre degli elementi dello spettacolo che rendono Leone un “intrattenitore generoso”, come lo chiama Spielberg e che collocano i suoi film vicino al mito, ma anche alla favola. Nella ricerca di realismo del regista – un lavoro a tutto tondo che interessa la sua intera produzione, coinvolgendo ciascun aspetto della messa in scena – si insinua infatti una particolare forma di grazia, propria della sua poetica cinematografica e della sua indole, che il documentario fa emergere con il giusto tocco. Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America, infatti, è un omaggio alla creatività del regista, ma soprattutto alla sua capacità di veicolare visioni attraverso i film – “non per imporle, ma per esprimerle” – andando sempre fino in fondo per materializzare ciò che aveva in testa – e i quattordici anni di produzione di C’era una volta in America, entrati a pieno titolo fra le leggende di Hollywood, lo testimoniano.
Quello di Francesco Zippel è un documentario che celebra il Sergio Leone demiurgo, con la sua propensione a essere “istintivamente produttore di nuove realtà”, come sottolineato dallo stesso autore. Ma è ancor di più un film sull’eredità che Leone ha lasciato alle successive generazioni di cineasti. Tra le parti escluse c’era infatti un aneddoto sul rifiuto da parte di Clint Eastwood di partecipare a C’era una volta il West. La rinuncia di Eastwood, mi racconta il regista, è stata dettata “da un’esigenza creativa assorbita dall’attore mentre lavorava con Leone alla Trilogia del dollaro, una spinta a tornare negli Stati Uniti ‘to speak his own language’, per produrre un linguaggio proprio, un universo cinematografico tutto suo”. Quello di Clint Eastwood è probabilmente uno dei rifiuti più belli della storia del cinema, perché si è risolto a tutti gli effetti nel passaggio di consegne che ha reso Sergio Leone immortale, un trasferimento di suggestioni, intuizioni e sperimentazioni che ancora oggi vivono nel cinema contemporaneo, grazie a tutti i registi che hanno deciso di fare cinema dopo aver visto Per un pugno di dollari.