L’ondata di caldo mortale che ha recentemente investito il Canada occidentale ha fatto notizia soprattutto per la latitudine dei luoghi colpiti. In realtà, il fenomeno non è completamente inaspettato, perché a nord le temperature aumentano più velocemente rispetto alla media mondiale: nell’Artico, per esempio, fino a tre volte più velocemente, con la conseguenza di un accelerato scioglimento dei ghiacci che contribuisce all’innalzamento del livello dei mari. Anche il territorio canadese è vittima di questo trend, con l’aumento di temperatura più netto proprio nel nord del Paese, come rilevato da un rapporto del 2019. Non si tratta “solo” di un generale caldo, ma di estremi climatici che mettono in pericolo migliaia di persone, non solo in luoghi isolati che ci possono apparire remoti, ma anche nelle grandi città occidentali, comprese quelle europee. Lo dimostra l’ondata di caldo che nel 2019 fece 2.500 morti in Europa.
Ecco perché non possiamo trattare come una stagione semplicemente un po’ più calda del normale quello che è un effetto devastante del surriscaldamento globale. Quando si verifica una bolla di calore il caldo torrido resta intrappolato in una “cupola” di aria calda per effetto di una corrente a getto che lo preme verso la superficie terrestre, non permettendogli di disperdersi: si tratta di uno di quegli eventi meteorologici estremi che l’emergenza climatica rende sempre più frequenti e violenti. Il villaggio di Lytton in British Columbia, per esempio, prima di essere devastato dalle fiamme per tre giorni consecutivi ha registrato temperature fino a 49,6°C; a Seattle, nello Stato di Washington, sono stati toccati i 42,2°C, in una zona in cui le medie stagionali non superano i 25.
Il fatto che temperature così estreme si verifichino nelle regioni più settentrionali della Terra deve preoccupare, non soltanto per lo scioglimento dei ghiacci, ma anche perché più a sud la situazione è ancora più invivibile. In Pakistan il mese scorso 20 bambini sono svenuti in classe per il caldo, mentre in alcune località del Golfo Persico già l’anno scorso calore e umidità hanno raggiunto livelli che gli scienziati considerano al limite per la sopravvivenza umana. A simili condizioni, infatti, la salute stessa è in pericolo, tanto che uno studio pubblicato recentemente su The Lancet ha rilevato che i morti correlati all’aumento di temperatura sono 5 milioni l’anno, più di quelli legati alla pandemia da Covid-19.
La risposta delle autorità locali americane all’emergenza caldo di inizio luglio è stata chiudere scuole, centri vaccinali, ristoranti e aziende per proteggere i lavoratori e aprire, invece, centri refrigerati d’emergenza e piscine all’aperto. Nonostante queste precauzioni, il numero di accessi ospedalieri, dovuti però ai colpi di calore, ha raggiunto a Seattle i livelli dell’inizio della pandemia, mentre in British Columbia durante la settimana (finora) più calda si è contato un aumento del 195% dei decessi improvvisi. Alla conta dei morti si aggiungono i costi economici e sociali, dovuti in parte alla necessaria chiusura di uffici e negozi e in parte ai danni alle infrastrutture, come lo scioglimento dei cavi ferroviari e la curvatura dell’asfalto, che tra l’altro rende meno sicure le strade. Le conseguenze non mancano anche per l’agricoltura e per la pesca, date le acque troppo calde, anche se forse uno degli effetti più evidenti è l’aumento del rischio di incendi: in British Columbia, il 30 giugno, ne sono stati segnalati 62 in 24 ore. Anche l’Europa – Italia compresa – è particolarmente vulnerabile a questo rischio, come dimostrano gli incendi che devastano periodicamente ampie aree del continente, non più solo nelle regioni meridionali, e con un indice di pericolosità in crescita, come rilevato dalle statistiche dell’Unione europea.
Dati come questi ci dicono chiaramente che le estati torride non possono più essere affrontate con una logica emergenziale, ma con una strategia pianificata e di ampio respiro. In Canada in questi giorni i negozi hanno esaurito i condizionatori d’aria portatili e i ventilatori, in regioni in cui fino a oggi avere un impianto di condizionamento era raro, mentre centinaia di persone erano costrette a usufruire dei “rifugi frigoriferi” o a pernottare in hotel per beneficiare dell’aria condizionata, come successo a Vancouver. Ma queste non sono soluzioni definitive: non possiamo pensare di rinunciare a vivere per interi mesi per rinchiuderci in bolle refrigerate che a loro volta consumano quantità enormi di energia, contribuendo al problema a cui danno temporaneo sollievo.
Proprio la riduzione del consumo elettrico è uno dei modi più efficaci per tagliare le emissioni – dato che una buona parte delle attività umane funziona ancora grazie ai combustibili fossili – insieme a una totale revisione del sistema dei trasporti da un lato e di quello alimentare dall’altro. Di sicuro non si può pretendere che i cittadini rinuncino all’aria condizionata quando le temperature raggiungono livelli proibitivi per la stessa salute umana. Intanto, se le emissioni non vengono drasticamente tagliate – e se non si procede anche ad assorbirne dall’atmosfera attraverso la tecnologia – dobbiamo imparare a rivalutare quello che consideriamo normale e a inventare nuove strategie per adattare la nostra società, la nostra economia e la struttura stessa delle nostre città a eventi atmosferici estremi sempre più frequenti, che siano trombe d’aria, precipitazioni record, gelate fuori stagione o estati con temperature ai limiti della sopravvivenza.
Ormai è chiaro che non basta fissare ambiziosi obiettivi per la metà del secolo, se poi si continua a parlare delle bolle di calore come di eventi eccezionali e non legati all’emergenza climatica; l’ha sottolineato, scandalizzato, il giornalista ambientale Chase Woodruff rilevando come, su 150 articoli di giornali locali dedicati al caldo canadese, solo sei facevano riferimento al cambiamento climatico, la cui correlazione con eventi atmosferici estremi viene divulgata dagli scienziati fin dagli anni Settanta. E, ancora, i media continuano a presentare i nuovi record di temperatura accompagnando le notizie con immagini piacevoli o divertenti di cagnolini nelle fontane e bambini che si spruzzano allegramente a vicenda, invece di mostrare i pericoli delle temperature estreme, per la nostra salute, per l’agricoltura, per il sistema economico e per gli stessi cagnolini. Come ha ricordato sul Guardian il climatologo Eric Holthaus, le immagini che dovremmo ricordare di questa ondata di caldo non sono piscine e fontane, ma vicini di casa che condividono l’aria condizionata in mezzo a una pandemia in una città che è 20 gradi più calda del normale. Se continuiamo così, dobbiamo capire che presto le bolle di calore non saranno più eventi eccezionali, ma la nuova routine. Per questo i governi devono inserire nei loro programmi una nuova priorità: la pianificazione della gestione di temperature sempre più alte, rivedendo l’organizzazione delle attività e dei trasporti, oltre a mettere a disposizione luoghi climatizzati per le persone più fragili. Senza dimenticare che sono i meno abbienti a pagare il prezzo più alto, per esempio perché i quartieri più poveri hanno spesso meno spazi verdi, mentre i mestieri che si svolgono all’aperto – come quelli nell’edilizia, nella manutenzione stradale, in agricoltura e nelle consegne a domicilio – sono più esposti e quindi più vulnerabili.
Le temperature record di questi giorni in Scandinavia dimostrano che bolle di calore come quella appena registrata in Canada e in parte degli Stati Uniti possono manifestarsi dappertutto. Se la risposta dei governi alla crisi climatica non cambia radicalmente, questo sarà solo l’inizio. Il climatologo Simon Donner a questo proposito ha sottolineato: “Ci aspettiamo di vedere ondate di calore più estreme in futuro perché stiamo continuando a immettere gas serra nell’atmosfera. Ma questo va anche oltre le mie previsioni: un’ondata di caldo così lunga e temperature così elevate in Canada sono eventi senza precedenti nella storia”. A ogni estate le previsioni precedenti si mostrano troppo ottimiste: se le politiche per contenere la crisi climatica sono quanto mai urgenti, è ormai è chiaro che bisogna affiancarle a una seria strategia di adattamento per proteggere le parti più fragili della popolazione e per garantire la produzione alimentare. È ora di pianificare seriamente un approccio che non si limiti alle raccomandazioni in tv sull’evitare di uscire di casa a mezzogiorno. Non si tratta più di qualche evento sporadico, ma di una nuova normalità sempre più aggressiva e letale.