Ogni giorno il mondo impiega circa 320 miliardi di chilowattora (kWh) di energia. Il 2020, con il blocco forzato di molte attività produttive e degli spostamenti internazionali, ha determinato una riduzione record del fabbisogno. Si è sottolineata con entusiasmo la riduzione di emissioni inquinanti, ma questa è destinata a rimanere una conquista temporanea e non un cambiamento strutturale. Nonostante l’aumento nell’impiego delle fonti di energia rinnovabile degli ultimi anni, grazie agli investimenti sempre più decisi, la fonte più sfruttata sul Pianeta rimane ancora il carbone.
Questo combustibile fossile ha visto la domanda ridursi nell’Unione europea di oltre il 20% nel primo trimestre del 2020 e nel nostro Paese – dove a maggio l’Enel ha annunciato l’addio al carbone nella centrale elettrica di Brindisi – non ha molto spazio nella quota di energia ricavata da fonti non rinnovabili. Nonostante la piccola percentuale di impiego, il carbone è ancora responsabile di un terzo delle emissioni di anidride carbonica del sistema elettrico italiano. Mentre le autorità europee hanno fissato una nuova strategia energetica green, nel mondo il carbone è ancora lontano dall’essere abbandonato. La fortuna dei combustibili fossili è legata al fatto che garantiscono una buona quantità di energia a prezzi relativamente contenuti. La capacità produttiva mondiale di carbone, in particolare, è raddoppiata dal 2000 a oggi soprattutto per la domanda dell’Asia, che concentra i tre quarti del consumo globale di carbone e ospita più di tre quarti delle centrali in costruzione e in progettazione. In particolare, la Cina – che è anche leader mondiale per solare ed eolico – impiega oltre 4,3 milioni di persone nelle miniere di carbone e, nonostante la promessa “rivoluzione energetica” per ridurre la dipendenza da questo combustibile, ha approvato l’apertura di almeno 40 nuove miniere nel corso del 2019 e oggi assorbe più della metà della produzione mondiale.
Anche l’India – il cui fabbisogno tra il 2004 e il 2016 è cresciuto di oltre il 100% – negli ultimi anni ha inaugurato nuove miniere, finanziate per lo più da banche pubbliche, fattore che renderà più ostica la transizione energetica, perché sarà probabilmente necessario ricapitalizzare le banche, come fa notare l’Economist. Al contrario, le flessioni maggiori si sono registrate in Germania e Stati Uniti, nonostante durante la sua presidenza Donald Trump abbia tentato di rilanciare il settore carbonifero statunitense e di opporsi alle regolamentazioni delle emissioni. Nonostante il calo, i quasi due miliardi di tonnellate di anidride carbonica prodotti annualmente dalle centrali statunitensi a carbone potrebbero aumentare di un terzo nei prossimi vent’anni in assenza di un cambio di rotta radicale. Nel complesso, grandi compagnie spesso sostenute dai governi nazionali tramite sussidi continuano a cercare di espandere i loro mercati, con conseguenze gravi per l’ambiente e per la salute delle persone. Il carbone, infatti, oltre a essere la fonte di energia fossile più antica, è anche la più inquinante: tra tutti i combustibili fossili, è quello peggiore per rapporto tra energia prodotta e anidride carbonica emessa, e circa il 45% delle emissioni di anidride carbonica mondiali provocate da combustibili fossili è attribuito proprio al carbone. Secondo alcuni studi il picco del carbone, che oggi copre il 36% della produzione mondiale di energia, potrebbe essere raggiunto nel 2025, contando solo quello effettivamente sfruttabile. Solo una parte del carbone presente sul Pianeta – concentrato in una manciata di Paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Indonesia e Kazakistan – è estraibile a un prezzo conveniente, mentre i nuovi giacimenti sono sempre più complessi da raggiungere e, di conseguenza, più difficili da sfruttare.
Questa dovrebbe essere una spinta ulteriore verso l’abbandono. Inoltre, bisogna ricordare gli effetti collaterali del 10% circa della materia che ne costituisce la parte non combustibile e che resta in forma di cenere – una miscela di argille, quarzo e altri minerali – che si raccoglie nei filtri delle ciminiere e che viene espulsa dai forni degli impianti. Questa cenere è stata responsabile della morte (per cancro al cervello e ai polmoni, leucemia e altre patologie) di 36 persone impiegate nei lavori di pulizia e sanificazione in seguito all’incidente avvenuto nel dicembre 2008 in Tennessee presso la Kingston Fossil Plant – a lungo la più grande centrale elettrica a carbone al mondo che brucia ancora oggi 14mila tonnellate di carbone al giorno –, quando la rottura di una diga della centrale elettrica disperse 1,3 milioni di metri cubi di cenere tossica, di cui una parte finirono nel fiume Emory. Mentre ci concentriamo sulle emissioni di anidride carbonica, l’episodio evidenzia il problema altrettanto urgente delle milioni di tonnellate di cenere accumulati come scorie nelle miniere e negli impianti a carbone, molte delle quali si trovano vicino a laghi e fiumi o sopra falde acquifere che forniscono acqua potabile alle comunità locali. Quello di Kingston è un caso limite, ma anche senza incidenti catastrofici le ceneri possono infiltrarsi nel terreno arrivando a contaminare le falde sotterranee, oltre a essere inalate respirando.
Oltre che altamente inquinante, sul lungo periodo il carbone non è conveniente nemmeno sul piano economico, perché i danni che provoca colpiscono anche l’economia, danneggiando la nostra salute da un lato e le temperature del Pianeta dall’altro, con conseguenze sull’agricoltura e altri fenomeni come gli incendi che ogni anno devastano centinaia di ettari. Motivazioni che hanno favorito la decisione europea di tagliare le emissioni di almeno il 55% entro il 2030. Un segnale importante che si dovrà scontrare con alcuni nodi, tra cui quello della Polonia, che genera l’80% della sua elettricità dal carbone. Dopo lunghe trattative, il Paese ha aggiornato il suo piano energetico, decretando la fine della dipendenza da carbone: per farlo il governo polacco, i sindacati dei minatori e la compagnia di carbone di proprietà statale Pgg hanno concordato un piano per eliminare gradualmente le miniere entro il 2049, fissando per la prima volta le tappe della decarbonizzazione per raggiungere gli obiettivi climatici europei precedentemente respinti da Varsavia. Alcuni esperti – scettici anche di fronte al piano per la costruzione di nuovi impianti nucleari, giudicati insufficienti a coprire il fabbisogno energetico del Paese – dubitano che il piano permetterà di superare le difficoltà della transizione. Varsavia ha intanto promesso 13 miliardi di euro in ammortizzatori per le regioni minerarie, provenienti dai fondi dell’Ue del Just Transition Fund, il fondo per la transizione energetica stanziato a sostegno dei Paesi la cui produzione di energia dipende maggiormente dalle fonti fossili. “Il ritmo dell’eliminazione del carbone è troppo lento; l’accordo non include tutte le società minerarie ed è subordinato al consenso della Commissione sui nuovi aiuti di Stato”, denuncia però Ilona Jedrasik dell’organizzazione ambientalista ClientEarth Poland.
Se in Europa nel 2019 la quota di energia ottenuta da fonti rinnovabili ha superato quella del carbone e tanti Paesi si sono attivati per ridurla ancora – a partire dalla Germania, che ha approvato un disegno di legge che prevede l’abbandono graduale del carbone entro il 2038 – non bisogna dimenticare il largo impiego che ne viene ancora fatto in in Europa orientale e nel resto del mondo, soprattutto nelle economie emergenti. Come evidenzia l’Economist, per ridurre le emissioni globali in modo rapido ed efficace bisogna raddoppiare l’impegno dell’Occidente e replicarlo in Asia, continente dove sono urgenti nuove politiche per cambiare le abitudini legate al carbone. L’urgenza del problema impone un maggiore impegno: l’Europa punta sulle rinnovabili – compresi gli impianti offshore –, ma questo progresso deve affiancarsi alla chiusura delle miniere di carbone e all’abbandono del suo impiego nelle centrali. Il 2020 è stato un’eccezione dal punto di vista dell’inquinamento e dell’ambiente, ma con l’impegno dell’intera comunità internazionale può diventare una realtà da cui partire per migliorarla ancora. Una sfida che possiamo vincere mettendo da parte interessi e particolarismi nazionali e ricordandoci di essere parte di una sola umanità.