THE VISION https://thevision.com YOU DON'T EVEN KNOW Mon, 07 Oct 2024 16:21:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Sembra che per molti la questione israelo-palestinese sia iniziata il 7 ottobre 2023. Non è così. https://thevision.com/attualita/hamas-israele-7-ottobre/ Mon, 07 Oct 2024 16:19:31 +0000 https://thevision.com/?p=187708 Sembra che per molti media italiani, il conflitto israelo-palestinese sia iniziato il 7 ottobre del 2023, cancellando decenni di storia. In realtà, Gaza era una prigione a cielo aperto anche prima. Certamente, poi, da quella data il governo di Netanyahu ha eliminato qualsiasi freno, esasperando ancor di più la violenza e il controllo su una popolazione pressoché inerme. I morti e le repressioni, però, non sono purtroppo una novità dell’ultimo anno.

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Sembra che per molti media italiani, il conflitto tra Israele e Palestina sia iniziato il 7 ottobre del 2023, giorno in cui Hamas ha attaccato città e villaggi israeliani uccidendo circa 1200 persone e prendendone in ostaggio 251. Un massacro indicibile, ingiustificabile, a cui è seguita la risposta di Israele: più di 40mila vittime palestinesi, tra cui molte donne e bambini, e un conflitto che mese dopo mese si è allargato coinvolgendo altri stati e organizzazioni terroristiche. Io, però, provo a immaginare la reazione di uno storico quando oggi è costretto a leggere le notizie “sull’anniversario della guerra tra Israele e Palestina”. Probabilmente, stupito, cercherà tra le sue carte un altro 7 ottobre: tra le aliyah iniziate alla fine dell’Ottocento, ovvero per gli ebrei “il ritorno a casa dalla diaspora”, con l’Impero ottomano a tentare di arginare l’immigrazione; oppure ai tempi della dichiarazione Balfour del 1917, quando il governo britannico firmò per tentare di trovare una casa per il popolo ebraico in Palestina; dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando una risoluzione delle Nazioni Unite creò la divisione tra uno stato ebraico e uno arabo; dopo gli scontri in seguito alla dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele nel 1948, con centinaia di migliaia di palestinesi cacciati dalle proprie case. Qualcuno potrebbe spingersi persino alla Guerra dei sei giorni del 1967, che vide coinvolte anche Siria, Egitto, Giordania e Iraq. Eppure, lo storico in questione non troverà nulla, perché i media italiani si riferiscono unicamente al 7 ottobre dell’anno scorso. Prima sembra non sia successo niente. Dopo: la “reazione spropositata” di Israele – ovvero un modo più che annacquato per definire un genocidio.

Gaza, 2023

In realtà, Gaza era una prigione a cielo aperto anche prima delle reazioni seguite ai fatti del 7 ottobre. Certamente, poi, da quella data il governo di Netanyahu ha eliminato qualsiasi freno, esasperando ancor di più la violenza e il controllo su una popolazione pressoché inerme. I morti e le repressioni, però, non sono purtroppo una novità dell’ultimo anno. Io credo che il comportamento dei media sia stato condizionato dal ruolo dell’Italia in questo conflitto: da un lato una parte considerevole della società civile esplicitamente a sostegno del popolo palestinese, dall’altro un fatto incontrovertibile, ovvero l’alleanza con Israele. Su quest’ultima questione non c’è stata coesione nemmeno in Unione Europea, considerando che alcuni stati hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina, altri, come l’Italia, no. D’altronde la nostra destra ha sempre teso la mano a quella di Netanyahu, e adesso c’è una stretta anche contro le manifestazioni in piazza, con un DDL Sicurezza che reprime il dissenso – pure pacifico – e limita la libertà di protesta. Inoltre, il nostro principale alleato, gli Stati Uniti, nonostante flebili critiche di circostanza sostiene Israele. E così sui giornali le azioni contro i palestinesi vengono minimizzate o camuffate attraverso mezzi giornalistici di dubbio valore etico. Per esempio, in occasione della recente invasione in Libano, mi è capitato di leggere titoli del genere: “L’Idf colpisce in Libano, la rabbia dei cristiani: colpa di Hezbollah”. In questo titolo ci sono due elementi da analizzare: intanto l’uso del termine Idf, ovvero le forze di difesa israeliane, invece di un più semplice e deciso Israele, è quasi un omissis, perché non tutti i lettori collegano Idf a Israele; e poi l’assoluzione, incolpando altri.

Gaza, 1997
Gaza, 1993

Gli altri, appunto. Il problema del mondo palestinese è determinato anche dalla guida di organizzazioni terroristiche interne – Hamas – e il sostegno di quelle esterne – Hezbollah, ma anche l’intero stato iraniano che è conosciuto per non rispettare i più elementari diritti umani. Si crea dunque un retropensiero che porta a dire: “Israele sta comunque combattendo contro dei mostri”. È però un pensiero strumentalizzato. Intanto perché la formula Palestina=Hamas non è corretta, e poi perché la “mostruosità” degli avversari di Israele, che non sto di certo a sindacare, non cancella i crimini di Netanyahu. Per certi versi mi ricorda la guerra in Afghanistan, quando gli Stati Uniti si scagliarono contro i talebani. Furono i primi tempi per molte persone della mia generazione in cui si formò una coscienza politica, civile, e quella guerra fu convintamente contestata. Questo nonostante fossimo a conoscenza dei metodi bruti dei talebani e della loro concezione del mondo. Non a caso, una volta ritirate le truppe statunitensi, quando i talebani hanno ripreso il controllo è tornato il terrore. Eppure, quella guerra degli Stati Uniti, e di gran parte dell’Occidente, restava e resta tuttora sbagliata. E così sono inaudite le mosse di Israele, nonostante il fanatismo inaccettabile e pericoloso di Hamas o Hezbollah. Non a caso la Corte Penale dell’Aia ha chiesto un mandato d’arresto per Netanyahu. Gesto totalmente inutile – e mi sono vergognato quando, qualche giorno fa, mi sono trovato il leader israeliano a parlare tranquillamente all’Assemblea generale dell’ONU.

Membri di Hamas a Gaza, 1993

Durante il discorso Netanyahu ha minacciato l’Iran, parlato degli obiettivi in Libano e sbraitato contro una “palude antisemita” da cui Israele deve difendersi. E qui entra in gioco l’altro grande protagonista dell’ultimo anno: dopo il 7 ottobre scorso, qualunque critica allo Stato israeliano è infatti stata accostata all’antisemitismo. Sia chiaro, non parliamo degli attacchi e degli slogan dei provocatori che si scagliano contro Liliana Segre o delle spaventose scritte criminali e antisemite apparse in alcuni quartieri ebraici italiani. Qui si tratta di subumani che hanno approfittato del disappunto diffuso per le azioni di Israele per tirare fuori la loro anima nazifascista. Nell’ultimo anno, le critiche più lucide a Israele non sono mai state accompagnate da un supporto ad Hamas o ad alleati esterni della Palestina. È stato solo chiesto a Israele di smetterla di massacrare i palestinesi, di garantire loro una vita degna di essere vissuta, di lasciarli nelle loro case e far avere loro acqua, elettricità e i beni primari. Non c’è traccia di antisemitismo in questo, e non c’era nemmeno quando si manifestava a favore del popolo palestinese prima del 7 ottobre, quando i giornalisti documentavano le condizioni di Gaza già diversi anni fa, quando Netanyahu veniva criticato anche ai tempi di Trump presidente degli Stati Uniti, con la firma degli Accordi di Abramo. Invece si vuol far passare i sostenitori del popolo palestinese – che poi in molti casi spingono per la soluzione “due popoli e due Stati”, mica per la cancellazione di Israele – per dei protonazisti solo perché qualche cialtrone isolato con il simbolo delle SS tatuato sul braccio scrive una boiata sui social contro gli ebrei. Che poi: come la mettiamo con il paradosso delle comunità ebraiche di tutto il mondo che hanno manifestato contro i massacri a Gaza? O siamo di fronte alla creazione frankensteniana dell’ebreo antisemita o forse si tratta semplicemente di umanità.

Benjamin Netanyahu

Inoltre, il senso di ridurre la questione Israele-Palestina a una fascia temporale così breve annulla di fatto settant’anni di risoluzioni dell’ONU contro Israele. Tutte disattese. Ce ne sono di tutti i tipi, da quelle in cui si chiedeva di riaccogliere i profughi palestinesi a quella di lasciare i territori occupati impropriamente; dalla richiesta di ritiro dal Libano (e stiamo parlando del 1978, non del presente, quindi tutto si ripete) a quella di evitare la repressione e l’insediamento di coloni. Se il sangue scorre in quelle terre da tempo ormai immemore, il 7 ottobre del 2023 non è altro che uno dei momenti cruenti di un doloroso processo geopolitico ben più lungo; tappa vergognosa, censurabile e tutti gli aggettivi che vogliamo attribuire alle azioni delle milizie di Hamas, ma che si inserisce in un contesto cronicizzato di azioni, risposte prepotenze e rappresaglie da considerare nel suo complesso.

Soldati dell’IDF a Gerusalemme, 1989

Oggi, a un anno di distanza da quelle stragi, possiamo solo constatare l’immobilismo dell’Occidente, una complicità silenziosa, e l’allargamento del conflitto. Perché se entra a muso duro l’Iran, l’Occidente inevitabilmente si schiera con Israele. Sembra che la geopolitica si sia ridotta al motto “Il nemico del mio nemico è il mio amico”. Come in Ucraina, in Siria o in tanti altri Paesi che hanno quasi patito mediaticamente l’exploit del 7 ottobre, perché gli occhi del mondo si sono spostati altrove, in un luogo dove già il conflitto era incandescente nonostante molti facciano finta che sia una guerra inedita e che oggi sia il primo anniversario di una delle diatribe in realtà più antiche della modernità. Io fino all’ultimo ho sperato di leggere altro sui quotidiani. Invece, oggi, 7 ottobre, sulla home di Repubblica trovo uno accanto all’altro due titoli. “Il conflitto il giorno dell’anniversario. Israele triste e in ansia ricorda il 7 ottobre” è il primo. Qui la parola Israele viene scritta senza remore, martirizzandola e parlando ancora dell’anniversario del conflitto come se fosse l’origine di tutto. Il secondo: “L’Idf torna ad attaccare. Raid a Gaza: decine i morti tra i civili”. Qui non appare più la parola Israele, i civili palestinesi sono stati ammazzati da un acronimo sconosciuto ai più. Per giunta nel giorno di un anniversario che non esiste.

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Nonostante l’illusione di essere unici e diversi dagli altri, oggi siamo sempre più tutti uguali https://thevision.com/attualita/capitalismo-omologazione-social/ Fri, 04 Oct 2024 09:09:54 +0000 https://thevision.com/?p=187392 Se per omologazione intendiamo un’aderenza agli usi e ai pensieri di una maggioranza o di un gruppo dominante, è evidente come a livello storico sia aumentata con l’arrivo di mezzi di diffusione sempre più capillari. Tutte le azioni dell’essere umano sembrano determinate dal desiderio di imitare qualcuno che gli appaia felice per poter possedere quella stessa felicità. Con i social questo fenomeno è stato spinto al limite.

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L’altro giorno mi è capitato di guardare una foto dei primi del Novecento. In una non precisata città degli Stati Uniti – una bandiera è l’unico indizio che mi ha permesso di individuare almeno la nazione – ci sono centinaia di uomini in piazza. Tutti hanno il cappello. L’ho trovata buffa come immagine; non solo per il fatto che adesso nessuno indossi più il cappello, se non al limite quello moderno con la visiera, ma perché nessuno si distingueva dalla massa. Ogni uomo era la fotocopia dell’altro. Riflettendoci più a fondo, mi sono accorto di come quella fosse soltanto una moda passeggera, e di come la vera omologazione sia molto più accentuata nel 2024, nonostante le capocce libere e l’illusione di essere “diversi dagli altri”.

Se per omologazione intendiamo un’aderenza agli usi e ai pensieri di una maggioranza o di un gruppo dominante, è evidente come a livello storico sia aumentata con l’arrivo di mezzi di diffusione sempre più capillari. Il senso di appartenenza e di emulazione come collante sociale non è mai mancato sin dalla nascita dell’essere umano, ma per uniformarsi in modo radicale era necessaria un’evoluzione tecnologica. Un tempo la diffusione di idee avveniva oralmente. Poi è arrivata l’invenzione della stampa, e anche solo avere materialmente dei testi sacri ha rafforzato una delle principali leve di omologazione di sempre, ovvero le religioni. Nella prima metà del Novecento erano la radio e il cinema a diffondere messaggi e immagini, ma solo con l’avvento della televisione si è entrati letteralmente nelle case di tutti. La televisione è diventata un mezzo di propaganda politica, un contenitore pubblicitario, il salotto di imbonitori, il catalizzatore di mode, movimenti e costumi che mai avevano avuto una spinta persuasiva di tale portata. Eppure non era ancora il mezzo definitivo, lo strumento di appiattimento sociale in grado di condizionare un intero pianeta. È così arrivato Internet, e con lui i social e i dispositivi che ci portiamo dietro ovunque. Adesso un ragazzino di Buenos Aires e uno di Pomezia possono commentare la stessa foto dei primi del Novecento con i cappelli sulle teste degli uomini, e l’emoticon della risata che inseriranno sarà il segno identitario, e inconsapevole, del conformismo.

Non per martellare sempre sullo stesso argomento, ma il ruolo del capitalismo in questo processo è realmente centrale. Avere una massa di individui simili tra loro, se non addirittura identici, è un vantaggio politico, commerciale, sociale e facilita il compito di qualsiasi fenomeno dominante – che sia il capitalismo stesso, un governo in carica, una religione o una multinazionale. Non a caso l’omologazione oggi non è collegata a un desiderio di uniformarsi a valori comuni, ma al timore di un’esclusione sociale. E ci si adegua alla massa anche attraverso il consumismo, per esempio acquistando prodotti che non possiamo permetterci solo per non restare indietro rispetto al gruppo e al concetto distorto di progresso tecnologico. È un meccanismo che ha spiegato bene il sociologo Zygmunt Bauman in diversi suoi saggi: l’esclusione sociale non si basa più sull’impossibilità di poter soddisfare un bisogno primario, ma sul non poter comprare qualcosa che renda l’individuo aderente alla modernità e ai canoni comuni. La frustrazione delle persone meno abbienti è per Bauman causata dal timore di non essere accettati come consumatori, non potendosi permettere un prodotto di massa. Il consumo è quindi il fattore predominante dell’omologazione, che dunque è foraggiata direttamente dal capitalismo.

I social hanno però allargato le reti del conformismo fino a creare anche un’estetica dell’omologazione. La mia esperienza è particolare: fino all’anno scorso non mi ero mai iscritto su Instagram. Ero un animale da Facebook. Inizialmente percepivo anche lì il tentativo di seguire dei trend per restare aggrappati a una sorta di “treno dell’hype”. Tutti commentavano le stesse cose, e chi non lo faceva aveva la sensazione di aver perso qualcosa di importante, generando una fomo dei social. Poi Facebook è diventato sostanzialmente il social degli anziani. L’esodo su Instagram non mi ha riguardato per anni; sono rimasto tra le immagini profilo della maschera di V per Vendetta e della ragazzina col binocolo di Moonrise Kingdom, poi diventate bandiere italiane, foto di cani o di fiori con il salire dell’età. Quando poi, nel 2023, sono approdato su Instagram, mi sono sentito sperduto, fuori dal tempo. Non riuscivo a capacitarmi di un fatto: i profili erano tutti uguali.

Le foto delle vacanze, le storie con Lana Del Rey in sottofondo, i filtri, i reel di vite vissute allo specchio. E poi i sottogruppi: bookstagrammer con le foto dei libri tra le foglie autunnali e le tisane, i cineasti con i frame di un film di Truffaut, i palestrati no-pain-no-gain. Qualunque fosse la filter bubble, tutto riconduceva a una comunione d’intenti anche a livello visivo. Persino i pensieri più nobili mi sono sembrati la scia dell’omologazione. Le bandiere palestinesi, All eyes on Rafah, i perenni coccodrilli virtuali – muore Alain Delon, un giorno intero di “Quanto era bello” e l’indomani l’oblio. Entrare in quel mondo è stato come assistere al festival dell’emulazione. L’antropologo francese René Girard ha studiato per tutta la vita le dinamiche legate al conformismo, spiegando come l’imitazione sia la caratteristica fondamentale dell’essere umano. Nella sua teoria mimetica afferma che tutte le azioni dell’essere umano sono determinate dal desiderio di imitare qualcuno che gli appaia felice per poter possedere quella stessa felicità. E così Instagram è la più grande prova della teoria mimetica. Gli utenti seguono gli influencer di turno, bramano il loro stile di vita, vogliono ardentemente appropriarsi non solo dei loro averi, ma anche del loro pensiero, e di conseguenza l’emulazione viene spontanea. A tal punto da non riuscire più a distinguere un influencer da un suo follower, con quest’ultimo che tende a diventare un misto tra un clone e un seguace fanatico.

La soluzione in teoria dovrebbe essere l’anticonformismo. Lo stesso Girard però ci mette in guardia spiegandoci come l’ossessione dell’anticonformista sia spesso l’incapacità di ammettere la somiglianza con gli altri, e quindi per elevarsi sopra la massa segue ugualmente una teoria mimetica imitando anticonformisti arrivati prima di lui o utilizzando gli stessi luoghi e gli stessi mezzi della massa da cui vuole emanciparsi. Viene da chiedersi allora quale sia l’antidoto all’omologazione. I più radicali potrebbero rispondere l’assenza. Intesa come disconnessione, fuga dalla società o rifiuto di essa. C’è una scena nella serie TV The Young Pope di Paolo Sorrentino dove viene elogiata l’invisibilità di Salinger, di Mina, di Banksy, dei Daft Punk. Nascondersi come rimedio all’iper-esposizione, e allo stesso tempo un boost di iconicità e “fantomatico mistero”. Eppure noi non abbiamo scritto Il giovane Holden, dunque fuggire non ci conferirebbe chissà quale dose in più di prestigio. Forse il metodo è accettare certi fenomeni come inevitabili. Accettarli senza venirne invischiati eccessivamente e studiarli a fondo. D’altronde ci sono tanti studi di psicologia a riguardo. L’effetto bandwagon – banalmente “salire sul carro del vincitore” – è una delle punte massime dell’omologazione, così come l’effetto spettatore quando ci troviamo di fronte a una situazione spinosa e siamo in mezzo al gruppo. Gruppo che ci protegge anche quando vogliamo affrancarcene, perché ci deresponsabilizza e ci permette di seguire una strada già tracciata. Forse la verità che non vogliamo ammettere è proprio questa: l’omologazione è comoda.

La comodità consiste nel cercare il modo più sicuro per essere accettati dagli altri. E torniamo quindi al timore dell’esclusione. E forse il conformismo non può che essere un ossimoro, qualcosa che temiamo e al contempo aneliamo. In Sessanta racconti, Dino Buzzati parlava del conformismo proprio usando una doppia valenza: “La pace di colui che si sente in armonia con la massa” ma anche “una forza tremenda, più potente dell’atomica”. Quindi da un lato dobbiamo accettare di essere “come gli altri” senza elevarci a livelli di mitomania preoccupanti, anche perché siamo solo esemplari di passaggio di una specie che rappresenta lo 0,01% di quelle presenti sulla Terra. Dall’altro è necessario trovare una nostra unicità e non cadere nel tranello dell’omologazione. “Siamo diversi, ma uguali agli altri” urlava Nanni Moretti nella scena finale di Palombella rossa. La soluzione credo sia quella di evitare l’imitazione, l’appiattimento come individui – e in senso moralmente più ampio come consumatori – per non alimentare quel processo che tende ad annullarci come singoli per rimaterializzarci come massa indefinita. Senza indossare i caschi dei Daft Punk o i cappelli di inizio Novecento. Basta la nostra testa, e per quanto non sia nulla di speciale è comunque nostra.

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“Bestiari, Erbari, Lapidari” è un film imponente, un omaggio ai mondi di animali, piante e minerali https://thevision.com/atlas/bestiari-erbari-lapidari-recensione/ Thu, 03 Oct 2024 12:27:16 +0000 https://thevision.com/?p=187635 Con “Bestiari, Erbari, Lapidari”, D’Anolfi e Parenti aprono uno spazio di significati possibili davanti allo spettatore, punti di una mappa che possono essere trasformati nei vertici di una figura, un animale, una foglia, o un cristallo. La visione di queste immagini è qualcosa in più delle loro parti, un dialogo tra attitudini e prospettive diverse, per cui a volte è necessario uscire dalla propria coscienza, che spesso si trasforma in trappola.

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Alzi la mano chi da bambino non è mai stato affascinato, anche solo per un breve ma intenso periodo della sua vita, dagli elenchi, che poi altro non sono che la base della catalogazione e per esteso della collezione. La raccolta della varietà da sempre ci affascina e agisce una forte attrazione sul nostro desiderio di appropriazione e di comprensione del mondo che ci circonda. È in questo solco che si innesta l’ultima opera di 206 minuti divisa in tre atti di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Bestiari, Erbari, Lapidari, che verrà proiettato al Cinema Godard di Fondazione Prada sabato 5 ottobre alle 16:30 con una pausa di 15 minuti tra il secondo atto, Erbari, e il terzo, Lapidari, e a cui seguirà una conversazione tra i registi e Paolo Moretti, curatore della programmazione del cinema.

Bestiari, Erbari, Lapidari vuole essere un viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte europee, un omaggio a quei mondi sconosciuti e per certi versi davvero “alieni”, fatti di animali, vegetali e minerali, che costituiscono una parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta Terra e con cui dovremmo trovare il coraggio di aprire un reale e intimo dialogo, invece che limitarci per abitudine a oggettificarli e sfruttarli. Presentato all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, questo è un film imponente, come imponente è ogni archivio, ogni collezione appunto, che riflette in maniera perfettamente lucida sul presente, attraverso la lente di un cinema che non smette di approfondire e di ricercare le proprie coordinate nelle pieghe della storia. Alternando immagini d’archivio e documentario d’osservazione, anche stavolta D’Anolfi e Parenti realizzano un’opera evocativa, intrisa di misticismo – loro cifra distintiva – capace di parlare dei rapporti tra l’essere umano e il mondo con il rigore scientifico di un compendio enciclopedico e tutto il lirismo di una favola ancestrale allo stesso tempo.

Strettamente collegati tra loro, i tre atti del film disegnano uno sviluppo drammaturgico attraverso diversi dispositivi di messa in scena. Ogni atto è infatti un omaggio a uno specifico genere del cinema documentario: “Bestiari” è un found-footage su come e perché il cinema ha ossessivamente rappresentato gli animali; “Erbari” è un documentario d’osservazione all’interno del magnifico Orto Botanico di Padova; infine, “Lapidari” è una sorta di film industriale sulla trasformazione della pietra in “memoria collettiva”.

Il sottotitolo di “Bestiari” è: “il cinema inventa nuove gabbie”. E come ghost della sezione (e di tutto il film) c’è il filmato di una Rx in cui un neonato succhia il latte: in contrasto – per via dello stesso metodo di acquisizione dell’immagine – il liquido bianco diventa nero, e scende nella gabbia toracica del bambino, che ricorda un uccello. Seguono riprese nell’archivio della Humboldt Universität di Berlino: filmati scientifici, raccolti per studiare il funzionamento del nostro sistema muscolo-scheletrico. Una donna si toglie e si mette un anello. Un gesto vezzoso che pure assume contorni stranianti (perché sempre in Rx). Una tigre in incubatrice piange come un bambino. Con lo stesso grido straziante che suscita reazioni di sgomento negli altri animali adulti ricoverati nella stessa clinica, generando quell’angoscia ancestrale che qualsiasi mammifero conosce. “Un tempo il mondo era di chi dormiva più a lungo, / perché chi più dormiva più sognava. / E i sogni erano la sola materia di cui era fatto il cosmo. […] / Tutti gli animali si muovevano e si incontravano nei sogni altrui”. I signori del creato erano gli animali più pigri, difendevano la dimensione del sogno. Poi qualcosa si è inceppato, almeno per un momento, con il nostro evolverci.

Attraverso il collage di materiali scientifici d’archivio D’Anolfi e Parenti creano una poesia. Fatta di ossa e di organi, di corpi abbandonati, di cose che non dovremmo vedere, radiografie che sembrano sogni. E che ci impongono di pensare alla prima volta in cui si è fatta della radiografia poesia. Ovvero ne La montagna incantata di Thomas Mann. In cui il protagonista, Hans Castorp, conserva come una preziosa lettera d’amore la piccola foto della radiografia che è stata fatta ai polmoni malati di Claudia Chauchat, come una sorta di icona erotica. Il famosissimo video del cavallo al trotto che poi è diventato copertina dei due volumi del saggio di Gils Deleuze L’immagine-movimento e che informa fin dalle fondamenta anche la visione di questo documentario. E dopo il cavallo il gatto. Il cane. Il coniglio. Ipnotici. Non sono video ma serie di foto. La tassonomia cinematica di Deleuze, che si appoggia ai ragionamenti sviluppati da Henri Bergson in Materia e memoria, identifica tre tipi di immagine-movimento cinematografica: immagine-percezione, ciò che vedo; immagine-affezione, i sentimenti che suscita; e immagine azione, che si focalizza invece sulla durata dell’azione che mostra. Deleuze prosegue poi ad associare queste immagini a determinate scelte tecniche e stilistiche ma a noi penso interessi la parte prima, ovvero quella che si innesta su Bergson e che a sua volta affonda in filoni di pensiero ben più antichi, almeno di un paio di migliaia di anni, e al buddhismo. Il malanno dell’umano, il punto da cui origina il suo dolore, e lo dice anche Patañjali, è la visione, e il linguaggio, perché nell’essere umano queste due competenze si sono mescolate fino a confondersi, diventando uno strumento potentissimo ma anche estremamente dannoso quando usato male. Si parte dalla concezione di un corpo umano avviluppato nel mondo della materia (da qui il lungo discorso sul sogno affrontato in maniera lirica ed evocativa dai registi in tutta la prima parte del film), le percezioni generano affezioni (e afflizioni) che a loro volta causano le nostre azioni.

Si apre quindi una riflessione sul valore degli archivi. Gli animali sono il prototipo di una moltitudine. Non sono mai considerati nella loro individualità, a cui segue quella sull’obbedienza. Sulle tecniche per educare gli animali per usarli in guerra, usate poi anche sugli stessi esseri umani per addestrarli. Milioni di cavalli e cani uccisi, o usati come cavie per gli addestramenti. I cani non possono raccontare la loro storia, non possono scrivere dei memoir. E noi ce ne siamo dimenticati di tutti quegli animali. Li abbiamo usati, e continuiamo a farlo, per i nostri scopi, per le nostre ricerche, perché continuiamo a confondere la forma e l’entità di quel famoso velo di Maya di cui parlava Schopenhauer che abbiamo davanti agli occhi. Così più che discernere e disvelare, vogliamo scarnificare e vivisezionare. Sfatare ogni mistero. In primis quello del movimento, così complesso ed effimero. Abbiamo sempre voluto carpirne il segreto, e il cinema ci ha aiutato a farlo ci dicono i due registi. Questi video, infatti, sono fatti per essere fermati, bloccati. Analizzati, così come viene analizzato il corpo.

Vediamo l’operazione di un cane. Il corpo come macchina. Revisionabile. Aggiustabile, finanche. Mentre la vita per un attimo si ferma, il sonno è dato dall’anestesia. I medici avvitano zampe. Controllano che si pieghino. Che funzionino a dovere. Alla carne si mescolano le viti, i bulloni, il fil di ferro. Scoprirete che non vi farà particolare impressione vedere il corpo di un cane aperto in sala operatoria, anche se vi fa senso il sangue. Perché lo percepiamo come “altro”, come carne. Come si sente dire nella seconda sezione del film, “Erbari”, noi ci chiamiamo animali perché ci “animiamo”, non perché siamo dotati di “anima”, ma di “movimento”. Ecco la qualità della vita che sentiamo più vicina. Ecco perché i corpi anestetizzati ci fanno immediatamente pensare alla morte. Ed ecco perché pensiamo di poter usare questi animali a nostro piacimento, solo perché ci siamo convinti che il nostro movimento, invece che dalle immagini (e quindi dai fantasmi del nostro cervello), venga da un’anima.

La sezione sulla cattura, in cui viene mostrata la violenza primaria che possiamo esercitare su qualsiasi altro corpo, quella di catturarlo, immobilizzarlo e magari rinchiuderlo in gabbia ricorda un altro documentario di D’Anolfi e Parenti che lascia, anche se in maniera diversa, ampio spazio all’esperienza animale, Materia oscura, film del 2013 girato in Sardegna a Salto di Quirra, sede di un tristemente famoso poligono sperimentale di addestramento forze, in cui pecore e pastori continuano ad ammalarsi di cancro. Anche riprendere immagini è una sorta di caccia. L’obiettivo è simile a un fucile. Ci appropriamo di questi animali, dei loro corpi, delle loro immagini, così come ci appropriamo delle storie. Il modo in cui l’animale una volta preso si arrende ha qualcosa di incredibile. Nel video viene etichettato come “Ausbrecher”, fuggitivo, riportato all’ordine, ed è impossibile non empatizzare con quella visone. Anche in questo caso è interessante cogliere l’etimo di questa parola, “aus” è il fuori, il movimento dall’interno all’esterno, ma “brecher” soprattutto ci mostra la semantica del frangente, dell’onda, dell’uscire grazie al proprio peso, infrangendosi contro qualcosa. Ausbrecher è colui che non si adatta e che tenta lo scampo. Anche i pitoni catturano, certo, non siamo gli unici. “Le leggi di natura non sono altro che un rapporto di potere che non è discutibile, o evitabile”, si sente dire. Il coniglio è vivo, e subito dopo non lo è più. Il coniglio è destinato a essere mangiato dal pitone. Il film ci mostra questo. Il cinema è una visione spassionata. Se intervieni non potrai far altro che rispondere alle leggi della morale. Eppure al tempo stesso il cinema è complice di linguaggio e visione, dobbiamo esserne consapevoli. D’Anolfi e Parenti hanno liberato questi archivi, sono andati a ficcare il naso in queste antiche scatole di Pandora, ricchissime e quiete, dimenticate, in attesa di essere risvegliate da qualcuno e interrogate, quasi come semi, o ancora meglio, spore. Si passa così a “Erbari”, sottotitolo, “la cura”.

L’orto botanico di Padova, costruito nel 1545 è stato il primo orto botanico del mondo, e rappresenta la perfetta simbiosi tra natura e cultura. In questa sezione in gran parte silenziosa, l’essere umano è colui che pota, che taglia, pulisce: che regola, dando un ordine a ciò che almeno in apparenza non lo ha. Questa sezione mostra quanto lavoro sia necessario alla manutenzione di un archivio, ancor più se vivente, come può essere appunto un orto botanico. Qui veniamo riportati alla ragione. La quiete del giardino è inframezzata dalla voce fuori campo di quello che potrebbe essere uno studioso, un professore universitario particolarmente illuminato, incorporeo quasi, che ricorda la voce che abita L’Iris selvatico, della poetessa Premio Nobel per la letteratura Louise Glück, in cui un demiurgo si rivolge alle piante di un giardino: noi pensiamo di esserci, ma non ci siamo, il 99,7% della biomassa del pianeta è fatto di piante. Noi siamo parte del resto. La nostra realtà non è assolutamente oggettiva. Noi siamo ininfluenti. Non elimineremo la vita dal pianeta, al massimo elimineremo noi stessi, e qualche altra specie. La vita sul pianeta è molto più forte di noi. Si cambia rapidamente prospettiva, come durante un salto carpiato. Le cose stanno diversamente da quanto pensiamo. Noi immaginiamo la fine del nostro mondo. Non del mondo tout-court, solo che la nostra identità è talmente affamata da sovrapporsi a tutto il nostro habitat. Il tempo, poi, è relativo. Quello delle piante è molto diverso dal nostro. Seguono tutto un altro ritmo, che a noi non è dato scorgere. Possono forse comprendere un po’ meglio la vita delle piante gli insetti, ben più anziani di noi, e non a caso in stretta simbiosi con queste ultime.

Quando viene annaffiata la palma, nella sua enorme casa di vetro, il giardiniere, piccolissimo, sembra proprio il Piccolo Principe con la sua rosa. Non è una palma qualsiasi, in effetti, è la palma di Goethe, che la studiò a lungo per le sue ricerche. Ci sono invece palme che vengono spostate, al pari di grandi statue, monumentali. In genere, però, questa sezione, con le sue inquadrature, sembra mostrarci che la terra sta. Quanto potremmo sopravvivere noi fermi in una foresta? Pochissimo. La pianta non è mai un individuo (in-diviso perché se no morto), la pianta è divisibile. Possono essere spezzettate in migliaia di pezzi. Hanno diffuso sul loro corpo ciò che noi abbiamo concentrato negli organi. Gli animali hanno una struttura gerarchica, le piante ce l’hanno distribuita. Le piante sono modelli fatti per risolvere problemi, ma anche ricordi, amuleti lasciati tra le pagine dei libri e dei giornali. Così con delicatezza si passa dal loro regno a quello delle pietre, dei minerali, e lo si fa attraverso il concetto di morte intesa come “ritorno alla natura”, dislegamento, e di lapide, etimologicamente la pietra ridotta a qualche forma regolare e destinata a qualche uso, su cui spesso noi esseri umani scriviamo sopra – si arriva alla sezione “Lapidari”, il cui sottotitolo è “I fossili del futuro” – e ancora una volta torna questa malattia del linguaggio che non ci lascia sognare, della parola, della nostra capacità fisiologica di articolarla con lingua, corde vocali e laringe, che ci ha fatti credere meglio di tutti gli altri, quando siamo piccolissimi, pochissimi e miopi.

“Crediamo che il nostro compito sia quello di ‘re-inventare’ una visione e una rappresentazione del reale e cercare di instaurare relazioni vitali fra gli elementi che compongono le inquadrature dell’opera. Così facendo, non cerchiamo il ‘reale’, ma la rappresentatività del reale e l’occasione per raccogliere i racconti, le storie, le riflessioni su noi umani. A ogni spettatore il compito di arricchire il film con il proprio bagaglio di esperienze, interessi, letture o visioni cinematografiche,” hanno dichiarato D’Anolfi e Parenti. Una poetica dunque che lavora come un tensore tra il reincantare il mondo del filosofo Bernard Stiegler e le segrete corrispondenze del poeta Charles Baudelaire. D’Anolfi e Parenti aprono uno spazio di significati possibili davanti allo spettatore, punti di una mappa che possono essere trasformati nei vertici di una figura, un animale, una foglia, o un cristallo. Non so perché, anzi lo so, per quel meccanismo innescato dal fare cinema di questi due grandi registi, mi viene in mente il capolavoro di Theodore Sturgeon Cristalli sognanti, definito da Jo Walton “So much more than the sum of its tropes”. Tropo, dal greco trópos, derivato da trépo, “trasferisco”. Un tropo è una traslazione o deviazione di significato, essenzialmente una figura retorica. Un tropo infatti è una metafora, ma è anche una sineddoche, una litote, un’iperbole (e molte altre figure retoriche); nella teoria musicale antica “tropo” è anche la trasposizione di una scala dal modo originario a un altro, e nella musica medievale l’inserzione di una melodia con un testo originale in un brano liturgico ufficiale, l’inserzione di un testo su una melodia preesistente. Ecco cosa innesca la visione di queste immagini, qualcosa in più delle loro parti, un dialogo tra attitudini e prospettive diverse, per cui a volte è necessario il sogno, l’uscita dal proprio corpo, dalla propria visione, dalla propria coscienza, che spesso si trasforma in trappola, e da cui bisogna trovare il coraggio di saltare fuori, come facevano un tempo gli sciamani.

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“Quell’estate con Irène” racconta al meglio l’illusione di immortalità in cui viviamo da giovani https://thevision.com/atlas/estate-con-irene-recensione/ Wed, 02 Oct 2024 14:59:37 +0000 https://thevision.com/?p=187577 Al centro di “Quell’estate con Irène”, di Carlo Sironi, c’è il desiderio di affidare al racconto cinematografico le memorie personalissime di un Io, di un corpo, e del suo contatto unico con il mondo. Ma la scelta di farlo attraverso la fragilità dei corpi delle sue protagoniste non è un modo per avvicinarsi all’esperienza privata della malattia e della morte, tutt’altro. Il film racconta in modo universale la tensione tipica di un'età in cui si vive immersi in un’impressione fittizia d'immortalità.

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In un passo famoso delle Confessioni, Agostino sostiene che non ci sono, propriamente, tre tempi: passato, presente e futuro. Il tempo è essenzialmente un flusso interiore, in cui le cose che ci accadono rimangono impresse in modo più o meno delebile. Quello che chiamiamo presente è l’impronta immediata delle cose, il futuro è la presenza anticipata delle cose che verranno, il passato è il segno ancora tangibile lasciato da quelle che sono state: la memoria, perciò, è “il presente del passato”. Se dovessi dire in che tempo si svolge il racconto di Quell’estate con Irène, l’ultimo film del regista Carlo Sironi disponibile su MUBI dal primo ottobre, credo che sceglierei proprio questo: un tempo del ricordo, ma anche della presenza, in cui custodiamo gli eventi che ci hanno in qualche modo cambiati, plasmati, rendendoci quelli che siamo oggi. Non tutto, infatti, può essere ricordato: c’è un’ecologia della mente che provvede a eliminare il superfluo e a dispensarci una quota di necessario oblio. In certi casi, dimenticare può essere addirittura una condizione necessaria alla vita. Altre volte, invece, accade l’esatto contrario, e tenersi stretto il ricordo di qualcosa o di qualcuno – può diventare un modo per sopravvivere, per mantenerci intatti, a prescindere dalle cose che ci accadono intorno, proprio come accade alle due ragazze protagoniste del film.

Sin dal titolo, Quell’estate con Irène è un film che si pone nella prospettiva di un tempo trascorso, ma ancora vivido nei ricordi dei personaggi. L’ambientazione nel 1997 mette una distanza dal presente, facendo intuire che le due ragazze, conosciutesi da adolescenti, ora non lo siano più, in modo da far vivere il loro incontro nella dimensione della permanenza: quella che attribuiamo alle cose del passato in cui riusciamo ancora a riconoscerci, perché continuiamo a percepirle come parte integrante di ciò che siamo. Clara (Maria Camilla Brandenburg) e Irène (Noée Abita), infatti, si incontrano per la prima volta a diciassette anni, durante una gita organizzata dall’ospedale che le ha in cura. Che siano state malate è chiaro da subito, anche se il nome della loro malattia – il cancro – non viene mai esplicitamente rivelato, ma soltanto suggerito allo spettatore attraverso i tagli corti di capelli delle pazienti, le vertebre che solcano le schiene magre delle ragazze, o dalle risposte che ognuna di loro dà alla domanda posta da una psicologa durante una seduta di gruppo: “Come vi sentite?” – come “un bicchiere che cade”, “una libellula”, un “posto pieno di vento”, immagini in cui si legge la fragilità di una guarigione che non sembra mai definitiva. La malattia, pur essendo onnipresente, rimane però un elemento di sfondo, senza diventare mai la vera protagonista della narrazione, e anzi viene utilizzata come una sorta di espediente che serve per raccontare la personalissima terapia che le due protagoniste scelgono per affrontare il loro opprimente stato di convalescenza: fuggire insieme verso il mare, su un’isola lontana da tutti dove poter finalmente vivere la loro prima “vera” estate.

L’intenzione che muove il film sembra infatti quella di voler raccontare il momento in cui le prime impressioni della vita ci colpiscono e vanno a creare la nostra identità e la nostra memoria, creando un collage di quei piccoli istanti significativi di cui si costruisce un’amicizia – quelli in cui Clara e Irène si leggono ad alta voce pezzi di libri, in cui una cede all’altra il fondo del suo cono gelato, o in cui si spalmano a vicenda la crema solare per proteggersi dalla luce accecante che riempie la gran parte delle scene. Il tempo in cui si dispiega il loro rapporto rimane quindi volutamente indefinito, sospeso. Come se le due ragazze sapessero vivere sempre e solo nel presente, vedendo nell’età adulta e nella crescita il presagio di un divenire futuro a cui non credono di poter avere accesso – una sensazione che accomuna gran parte degli adolescenti, ma che viene acuita dalla recente esperienza di una malattia potenzialmente mortale. L’idea di cristallizzare il film in un coming of age da sogno a occhi aperti serve quindi anche a riflettere quel particolare momento del post oncologico definito “periodo specchio, in cui la sorveglianza di medici e genitori diventa opprimente per i pazienti, in particolare se giovani. Il senso di spontaneità e ribellione adolescenziale che le ragazze vivono nel microcosmo del loro legame è infatti in contrasto con il mondo reale, dove spesso si sentono ridotte a corpi deboli da tenere sotto una campana di vetro. In questo modo, il proteggersi costante impartito alle due amiche rappresenta un ostacolo alla ricerca di sé, e la loro fuga crea l’occasione per aprirsi a un altrove sconosciuto, che non corrisponde alla semplice destinazione scelta per le vacanze estive, ma a un autentico spazio di autodeterminazione che prima non avevano mai sperimentato.

Da qui deriva la centralità dello scenario naturale che ospita Clara e Irène: l’isola di Favignana, in Sicilia – che mi ha ricordato, a tratti, il luogo in cui le protagoniste di Persona di Ingmar Bergman sperimentano il loro stato di simbiosi, fusione erotica, e insieme di autodistruzione. Le figure delle due ragazze sono un tutt’uno con la natura incontaminata dell’isola, sembrano completare, riempiendole perfettamente, le insenature degli scogli che sbucano dall’acqua, e assecondare con i loro movimenti la curvatura delle cave di tufo abbandonate. Il mare, la sabbia e le rocce diventano elementi duttili designati ad accogliere i corpi femminili. Clara e Irène si muovono curiose come esploratrici tra le scogliere, accompagnate dalle musiche folk americane, dal pianoforte di Maurice Ravel, o dai brani dei The Cure – in particolare To Wish Impossible Things, il cui testo ha fatto da prima suggestione al regista nello scrivere la sceneggiatura – scivolando tra giorni che sono indistinguibili l’uno dall’altro, nel tentativo di dimenticare ciò che hanno lasciato fuggendo. 

La centralità della loro presenza in scena mette in evidenza la volontà di Sironi di misurarsi con il racconto della scomparsa progressiva di un corpo, pur tenendo quelli delle protagoniste sempre visibili nei confini dell’immagine. A far presagire questa lenta consunzione, però, ci sono i sintomi della malattia che riemergono per Irène nel corso della vacanza, facendola come sbiadire di scena in scena, nonostante la ragazza faccia di tutto per negare il suo malessere in favore della libertà estiva e della sua nuova vita ostentatamente spensierata – incarnando un sentimento di rifiuto per il negativo che e sempre più diffuso nella nostra società. È il suo corpo, infatti, ad arrendersi prima che lei si renda conto dell’aggravarsi della sua situazione di salute, in una scena in cui si addormenta per il mal di testa durante un temporale estivo, annullando le sue preoccupazioni, almeno per un momento, nel sonno.

Già nel primo lungometraggio di Sironi, Sole, del 2019, il tema del corpo come primo mediatore della coscienza che abbiamo di noi stessi e del mondo era stato indagato dal regista passando per i limiti fisiologici che esso ci impone, con un’attenzione particolare alle attese, le vulnerabilità, le imperfezioni che tracciano i confini del nostro sentire. Se la corporeità, in Sole, imponeva alla protagonista Lena di confrontarsi con il lungo tempo di sospensione della gravidanza affrontata dalla ragazza come madre surrogata, che diventa l’incubatore di una serie di riflessioni sulla maternità, la nascita e la scoperta di un inedito desiderio di genitorialità; nel caso di Quell’estate con Irène gli strascichi della malattia e i segnali di una sua possibile nuova insorgenza scandiscono i pensieri e lo stato d’animo della coppia di amiche, introducendo un ragionamento sul senso della fine. Guardare così da vicino i corpi di Clara e Irène, infatti, permette di non utilizzare la malattia in senso ricattatorio, per raccontare le “ultime cose”, come spesso si fa in questi casi. C’è piuttosto la volontà di raccontare ciò che le due ragazze desiderano fare, magari per la prima volta, e soprattutto quello che desiderano fare insieme, per fare fronte a un sentimento d’epilogo anacronistico rispetto alla loro età anagrafica.

L’amicizia tra le due ragazze rappresenta il simbolo più pieno di questo conatus ancestrale, che le stringe in un legame vitale, salvifico. I gesti che si scambiano vicendevolmente appartengono infatti a una dimensione assolutamente romantica, ma mai in senso sessuale, che permette loro di mettere in atto la migliore strategia di sopravvivenza di cui dispongono, anche se limitata ad uno spazio tempo specifico, che non può reggere al di là dei confini della loro vacanza. La comparsa di altri personaggi, tra cui le intrusioni di adulti che si affacciano nel film, ora con una telefonata materna, ora con il proprietario che gestisce l’affitto della casa vacanza, non sono che figure fuori campo, anche quando appaiono sullo schermo, perché non penetrano mai fino in fondo il rapporto che le lega, dando anche allo spettatore la sensazione di essersi perso qualcosa, di non aver colto il segreto di un’intesa che scorre parallelamente a tutto il resto.

Al centro del film di Sironi c’è dunque il desiderio di affidare al racconto cinematografico le memorie personalissime di un Io, di un corpo, e del suo contatto unico con il mondo. Ma la scelta di farlo attraverso i corpi delle sue protagoniste non è un modo per avvicinarsi all’esperienza privata della malattia e della morte, tutt’altro. Quell’estate con Irène racconta in modo universale la tensione tipica di un’età in cui si vive immersi in un’impressione fittizia d’immortalità, a cui anche Clara e Irène riescono a credere durante l’estate trascorsa insieme, a prescindere da ciò che c’è stato prima e da ciò che ci sarà dopo. La ricostruzione dei ricordi condivisi dalle due amiche, uscendo da ogni gusto per la drammatizzazione, diventa così un tentativo di restituire la parte di noi stessi a cui forse siamo più legati, quella che ci permette di tenerci insieme, di conservarci e di riconoscerci quando guardiamo indietro nel passato o tentiamo di proiettarci nel futuro; perché fatta dei momenti e dei legami che non siamo disposti a consegnare all’oblio, anche quando non ci sono più.


“Quell’estate con Irene” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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In “Vermiglio” c’è la dualità della vita e di ciò che siamo, ieri come oggi https://thevision.com/atlas/vermiglio-recensione/ Mon, 30 Sep 2024 14:28:26 +0000 https://thevision.com/?p=187532 “Vermiglio” di Maura Delpero, vincitore del Gran premio della giuria a Venezia e rappresentante dell’Italia ai prossimi Oscar, è come un affresco enorme, che ha una sua organicità e che allo stesso tempo si trasforma a seconda del punto da cui si osserva. Può essere una storia di provincia e di guerra ma anche di crescita e di famiglia, di desiderio e di infanzia. C’è la dualità della vita e di ciò che siamo – ieri come oggi.

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Probabilmente il segreto della bellezza di Vermiglio di Maura Delpero – vincitore del Gran premio della giuria a Venezia, rappresentante dell’Italia ai prossimi Oscar, distribuito al cinema da Lucky Red – sta nella sua normalità. Mi spiego: al di là della storia, è proprio la sensazione che ti lascia dopo la visione, questo misto di consapevolezza e meraviglia, di stupore e rassegnazione, che ti costringe a pensarci ancora. E così, anche se sei a casa, anche se sono passati giorni dalla volta in cui l’hai visto, può capitarti di ritornare con la mente a questo o a quel dettaglio, agli abbracci che i personaggi si scambiano e a quelli che, così frettolosamente, si negano; alle nottate passate nel lettone tra le coperte (ho pensato all’Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright), alla musica ascoltata a tutto volume, alle scarpe tirate a lucido come se ogni giorno fosse domenica, alle chiacchiere in cucina e a quelle scambiate di sfuggita, quasi di corsa, prima di scuola.

Non è un dramma, Vermiglio. Nel senso che non è unicamente sulla drammaticità del racconto che punta. Cerca, invece, di tenere insieme tutto: gli aspetti più assurdi e divertenti e quelli più tragici e sconvolgenti. La storia è ambientata tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra; si svolge in questo piccolissimo paese, Vermiglio appunto, che non assume mai una concretezza precisa: si vede qualche casa, una strada, la locanda piena e festante, ma resistono sempre una dispersione e una fumosità nella divisione effettiva degli spazi. I protagonisti appartengono tutti – quasi tutti, in realtà – alla stessa famiglia. 

C’è il padre, che è anche il maestro del paese e che è interpretato da Tommaso Ragno, che rappresenta una via di mezzo tra tante cose: tra il passato più tradizionalista e il futuro prossimo, per esempio; ma pure tra una certa idea di progresso e un instancabile provincialismo. Mentre tutti fanno colazione, lui, a capotavola, legge. Gli occhiali sul naso, i capelli in ordine e un’espressione presa, concentrata. Ragno è bravissimo. Poi c’è la madre, interpretata da Roberta Rovelli, che sembra rimanere in secondo piano per buona parte della storia e che poi, proprio quando serve, viene avanti, parla e cerca in qualche modo di farsi sentire – la sua casa è piena di libri e di buone intenzioni, eppure gli errori che si commettono non hanno niente di incredibile. Rovelli fa da ago della bilancia e lavora per sottrazione.

I figli, tra maschi e femmine, stanno sempre insieme, si guardano gli uni con gli altri, quelli più piccoli e quelli più grandi, e si vogliono un bene che sa più di amicizia che di affetto dovuto. Il sangue conta, per carità, ma conta soprattutto quel segreto che ci siamo scambiati di notte mentre tutti dormivano, tu eri alla finestra e io ti parlavo dal letto. Il volto di Vermiglio è indubbiamente quello di Martina Scrinzi, che interpreta Lucia, la figlia maggiore, e che a un certo punto – vuoi per il peso della parte di trama che la riguarda, vuoi pure per il modo in cui il suo sguardo sembra riassumere sequenze intere del film – diventa quasi la protagonista. Ma Vermiglio è fondamentalmente un film corale, e così contano anche quegli attori e quelle attrici che hanno un ruolo – per così dire – minore.

I personaggi interpretati da Carlotta Gamba e da Sara Serraiocco, per esempio, compaiono poco, ma riescono comunque a ritagliarsi il loro spazio e a essere determinanti – Serraiocco con una frase e un’occhiata: assoluta; Gamba con il suo sorriso e la sua vivacità: una specie di folletto risputato dalle favole, costantemente in bilico, con la testa che va già al tempo che passerà in città. L’elemento di rottura all’interno del racconto è rappresentato dal Pietro di Giuseppe De Domenico: scappato dalla guerra, arriva a Vermiglio e viene accolto come un salvatore, perché ha portato con sé un altro ragazzo. La sua presenza – così strana e così inattesa – spezza gli equilibri della vita quotidiana, e costringe i vari personaggi a riscriverli facendo i conti con loro stessi.

È importante, però, capire una cosa. Tutti questi passaggi o stravolgimenti succedono naturalmente; Delpero ci arriva piano piano, senza alcuna fretta. E la lentezza di cui alcuni hanno parlato non è altro che il passo di cui questa storia ha bisogno. La critica cinematografica, proprio come i gusti del pubblico, vive di periodi. E per un periodo “lentezza” è stato uno dei termini più abusati: se una cosa è lenta, è ricercata; se è lenta, non parla al grande pubblico; se è lenta, fatica. E invece non è così. Non sempre, almeno. Vermiglio, in questo senso, invita anche a una riflessione profonda di ciò che accade e, soprattutto, del tempo che serve perché accada.

La comicità involontaria della vita, con una delle figlie (la Ada di Rachele Potrich) che si infligge punizioni sempre più assurde per espiare i peccati che pensa di aver commesso (e che, invece, il prete di paese sembra quasi risparmiarle), si inserisce con una puntualità incredibile nel racconto: non è mai forzata o eccessiva. Delpero ha insomma capito come fare per trovare un andamento lineare ma non piatto, intelligente ma non forzatamente alto. La morte è una costante: torna in continuazione, sotto forme diverse, e riesce appena a intaccare la pienezza della vita – e non perché i personaggi non le diano il giusto valore, ma perché devono impegnarsi immediatamente su altro, sulla vacca che va munta, sul pollaio che va tenuto in ordine, sulle faccende quotidiane, sul prossimo figlio che nascerà. E poi Delpero sa inquadrare la complessità, intesa come insieme di punti di vista e di sfaccettature, della giovinezza: la scoperta del corpo, la passione, l’eccitazione; l’amore, le occhiate cariche di desiderio (“Mi piace come mi guardi”, dice la Virginia di Gamba ad Ada); il sesso che sancisce l’unione e la condivisione di intenti, e la curiosità spasmodica per il segreto e per ciò che non ci viene detto; la saggezza dei più piccoli, che parlano come vecchi maestri, e il senso di ribellione continua dei più grandi, che sembrano perdersi nel nulla.

Raccontando uno spicchio – letteralmente – di Italia, Delpero ha la possibilità di sfruttare la lingua, più che il linguaggio, e di intrecciare una musica precisa fatta di consonanti e vocali mangiate, di gesti, mugugni e di una cadenza che solo apparentemente suona perentoria e che in realtà conserva in sé le dinamiche proprie del gioco: ogni frase ha bisogno di essere accompagna da un’espressione, più o meno carica, più o meno aperta, per essere completata. Un po’ come se fosse la punteggiatura. La concezione stessa di maternità cambia nel corso del film, e l’impostazione quasi ciclica del tempo, con le stagioni che passano, che si mostrano con la loro forza e bellezza, tra il bianco della neve d’inverno e le sfumature più colorate della primavera, rende tutto più chiaro e accettabile – ma non banale e nemmeno prevedibile.

Religione, misticismo e ragione convivono in un unico abbraccio e si influenzano a vicenda, mostrando la propria limitatezza. Vermiglio cresce, sedimenta, sale. E c’è indubbiamente un punto narrativo più alto rispetto agli altri, ma è un momento che ha la stessa tensione sospesa di un sospiro – dura l’attimo che dura e subito dopo, semplicemente, non c’è più. Un aiuto fondamentale alla costruzione del racconto, con la sua coerenza visiva e il suo spessore, lo dà la fotografia di Mikhail Krichman: ci sono degli azzurri più azzurri di altri, e poi dei neri che non diventano mai totalmente neri e che sembrano sempre fermarsi un secondo prima, come se qualcuno li strattonasse. Le immagini sono piene. E non perché contengono una moltitudine di corpi o di oggetti. Ma perché sono in grado di offrire allo spettatore una totalità di luci e di ombre, con dei confini che non tagliano le inquadrature ma che, anzi, sanno come sostenerle e ammorbidirle.

Lo sguardo di Delpero, e quindi la sua regia, la sua scrittura e il suo modo di dirigere gli attori, è totale. E questa totalità si riflette nell’insieme di dettagli, spunti, scorci e incisi che non sono mai fini a sé stessi, perché hanno uno scopo e un ruolo precisi. È praticamente impossibile non pensare a questo oceano di cose dopo aver visto Vermiglio. E per carità: ogni ragionamento è diverso, e ogni sensibilità coglierà unicamente ciò che è pronta a cogliere. Ma è innegabile la ricchezza del film di Delpero. È come un affresco enorme, che ha una sua organicità e che allo stesso tempo si trasforma a seconda del punto da cui lo si osserva. Vermiglio può essere una storia di provincia e di guerra (essere un soldato, dice il Pietro di De Domenico, “È come se sei vivo, ma non proprio”). Ma anche di crescita e di famiglia, e di desiderio e di infanzia.

C’è la dualità della vita e di ciò che siamo – ieri come oggi, in questo esatto momento. Circondandosi di esordienti e di non attori, Delpero ha saputo dare una verità ulteriore al suo film: gli ha dato quella concretezza tipica delle parole pronunciate da chi le pensa davvero e non si limita a recitarle, e una forma più credibile, con queste facce segnate, vissute, piene di rughe, di tagli e di colori, e questi sguardi che sono gentili anche se appaiono torvi e cattivi. Probabilmente la grandezza di Vermiglio sta tutta qui: nel suo essere più cose nello stesso istante, e nel non andarsene mai dai pensieri. È un film che fa compagnia, che si affianca allo spettatore e che pone delle domande. Nella sua conclusione c’è solo una delle tantissime possibilità tra cui i personaggi possono scegliere: quello che conta e che non dice, e che proprio per questo sottolinea, è ciò che rimane, è tutto il resto. E in Vermiglio il resto è fondamentale.

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“The Fall” ipnotizza e sconvolge, riflettendo sul potere trasformativo delle storie e del dolore https://thevision.com/atlas/the-fall-recensione/ Fri, 27 Sep 2024 16:11:43 +0000 https://thevision.com/?p=187508 “The Fall”, film girato da Tarsem Singh Dhandwar nel 2006, mostra l’enorme potere che ha sulla nostra coscienza la narrazione e l’immedesimazione, come la nostra vita a ben vedere sia una storia anch’essa, e come tale un’illusione. La pellicola, che è una metafora tra speranza e disillusione, ci fa capire che l’unico modo per vivere bene è farlo come se si stesse iniziando un gioco, credendo fino in fondo al patto di incredulità che ci tiene al mondo.

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Cielo azzurro, pietra panna, luce rosa, vento caldo, stridii di rondini. Mentre cammini sui ballatoi e sulle terrazze del Mehrangarh Fort, a Jodhpur, in India, soprattutto sul versante esposto a nord-est, è impossibile non pensare a una caduta. Le mura, infatti, scendono a precipizio per circa 36 metri, verticali come la più impressionante delle pareti di roccia. Costruito nella seconda metà del 1400 il forte si alza dal deserto e dalle incrostazioni urbane della città blu, in Rajasthan, tra i luoghi più magici del mondo, in maniera folle e maestosa, tutt’ora con un’aura impossibile da dissolvere, anche con le migliori intenzioni illuministe. Il capogiro causato da quella costruzione è un’ontologia. Sotto c’è il mare di casupole dei bramini, che vivono in povertà, ricchi di fede e tradizioni, guardiani dell’acqua strappata all’avanzare del deserto. Di notte quella superficie increspata si incendia di luci e lumini, e soprattutto di musica e di latrati, che pure per qualche strano effetto acustico risalgono le mura, fino alle finestre più alte, là dove solo gli uccelli sanno come arrivare. Le rondini e gli scoiattoli invece se ne infischiano della gravità, fanno da messaggeri dal sopra al sotto, o viceversa. So tutte queste cose perché al Mehrangarh ci ho vissuto un mese, ogni giorno, ogni sera e ogni notte ipnotizzata dalla forza simbolica di questa montagna sulla montagna. Ed è proprio dal versante nord-est del palazzo che ha inizio la storia-nella-storia di The Fall, film girato da Tarsem Singh Dhandwar nel 2006 e disponibile su MUBI dal 27 settembre.

Roy Walker, interpretato da Lee Pace, paralizzato a causa di una caduta sul set del primo film in cui lavorare come stuntman, come una sorta di Sherazade racconta ogni giorno un pezzo di una storia incredibile ad Alexandria, una bambina che si trova nel suo stesso ospedale con un braccio rotto. Il potere dell’immaginazione è incredibile, tra costumi, scenografie e location mozzafiato, Dhandwar crea un’estetica potentissima. Un’atmosfera affascinante, come quella evocata dai libri che non riusciamo a smettere di leggere, impazienti di rituffarci nel loro mondo, di stare vicino ai loro personaggi, ma anche ai loro autori, narratori, in un legame intimo strettissimo, quasi fisico, carnale, per quanto tutto mentale. Non a caso è stato scoperto che mentre leggiamo si attivano i neuroni legati al movimento, come se effettivamente il nostro corpo vivesse in prima persona le esperienze raccontate dalle parole.

Questo film visionario, composto in gran parte da quelli che potremmo definire tableaux vivants, tavole, quadri, quasi come un albo illustrato di grande formato, infatti, mostra l’enorme potere che ha sulla nostra coscienza la narrazione e l’immedesimazione, come la nostra vita a ben vedere sia una storia anch’essa, e come tale un’illusione. Roy, il narratore, è un signor nessuno, un personaggio, potenzialmente senza nome, ma con un’identità in quanto attore agente, per quanto sostituto di altre figure, una specie di fantasma. E ci mostra come sia necessario per vivere assumersi un’identità, accettarne il ruolo, per quanto l’esistenza sia una grande farsa, come non smette di dimostrarsi la realtà, la vita, e soprattutto il mondo della narrazione e dell’arte, con le sue assurde e meschine dinamiche di potere. 

Pur essendo uscito nel 2006, The Fall nel corso del tempo ha mantenuto il suo status di film cult per appassionati, non solo grazie alla sua estetica di enorme impatto ma anche per la sua celebrazione meta-narrativa dell’immaginazione umana, incarnata in un racconto che trascende i confini tra realtà e fantasia. Girato in più di venti Paesi diversi nell’arco di quattro anni, il film fonde la vivida fantasia visiva di Singh con una narrazione che si snoda tra la crudeltà del reale e la bellezza dell’immaginario, ottenendo un racconto che ipnotizza e sconvolge, spingendo lo spettatore a riflettere sul potere trasformativo della storia, della memoria e del dolore. È proprio dalla condivisione della sofferenza fisica – e in maniera indiretta psicologica – che nasce il legame tra i due personaggi, che gradualmente si stringe, alimentato dalla fantasia epica di Roy e dalle intuizioni di Alexandria (che guarda caso si chiama proprio come la città famosa per aver accolto una delle biblioteche più grandi del mondo).

Roy racconta ad Alexandria una storia fantastica che vede protagonisti cinque eroi in cerca di vendetta contro un malvagio governatore. La narrazione prende vita nella mente della bambina, e noi spettatori siamo trasportati in un mondo onirico fatto di paesaggi surreali, costumi preziosi e scenari incredibili (eppure tutti reali). Tuttavia, c’è una sottile linea che separa il mondo immaginario di Alexandria dalla realtà percorsa da Roy, che distrutto da un tradimento e dalla sua condizione di paralisi, manipola la sua stessa narrazione sperando di riuscire a convincere la bambina a procurargli ciò che gli serve per tentare di suicidarsi. Emerge così il potentissimo e inquietante baratro della dualità che attraversa ben o male tutte le nostre esperienze: da un lato, l’immaginazione della bambina dà vita a un mondo di eroi, paesaggi esotici e avventure mozzafiato; dall’altro, sembra che Roy trovi la forza di andare avanti con la sua storia con un unico scopo: trasformare la magia della narrazione in uno strumento per la morte. Tutto il film si sviluppa man mano che procede come una grande metafora della lotta tra speranza e disillusione, tra vita e morte.

Come spesso accade, e come probabilmente abbiamo avuto modo di sperimentare da adolescenti, in quella fase della vita liminale tra l’infanzia e la vita adulta, l’immaginazione diventa al tempo stesso rifugio sicuro e trappola. Per Alexandria, la storia di Roy è un modo per allontanarsi dalle circostanze dolorose della sua vita quotidiana e anche dai ricordi del suo passato. Sembra che la sua immaginazione sia ancora sufficientemente elastica e nutriente per salvarla, per guarirla, spostandone pensieri ed emozioni su un altro piano. Mentre per Roy il racconto è un sottile, disperato tentativo di manipolazione, l’unica possibilità che gli resta per mettere in atto il suo desiderio autolesionista.

Questo meccanismo mette in luce una delle dorsali del film: il potere dell’immaginazione di influenzare la realtà, e per dirla con l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino, che cos’è questa se non la definizione di magia. Roy sfrutta il potenziale evocativo del racconto per trasformare indirettamente la realtà, ma Alexandria con la sua forza interiore, pura nonostante le ferite che il mondo ha già provveduto a infliggerle, finisce per trasformare a sua volta la storia stessa, e non sua, in qualcosa di profondamente diverso, semplicemente in quanto ascoltatrice attiva, persona che interroga. Alexandria prende così le redini del racconto, rifiutando di accettare la fine oscura che Roy vorrebbe imporle, trasformandola in una complice. Alexandria lo costringe, invece, a confrontarsi con il suo dolore, a guardarlo dritto negli occhi, come si guarda un nemico prima di qualsiasi incontro di lotta o combattimento, un nemico che – va da sé – si vuole vincere. Senza quello sguardo sarebbe impossibile anche solo provarci.

La fantasia, l’immaginazione, è il primo modo che abbiamo per operare su noi stessi e sulla realtà, così come per costruire le atmosfere di cui sentiamo il bisogno, quasi come contenitori, di immagini, di emozioni, di qualità energetiche verso cui tendere, con cui vibrare in sintonia. La spontaneità con cui Alexandria si figura eroi e avventure è il riflesso del suo bisogno di sicurezza e di protezione. Questa tecnica utilizzata spesso dai bambini è qualcosa di potentissimo e che noi stessi spettatori dai muscoli visionari sempre più anchilosati potremmo rispolverare, la nostra capacità di costruire mondi, a volte più semplici, più comprensibili, un po’ meno dolorosi, da cui piano piano ripartire, ricostruirci a nostra volta, cambiare le nostre dinamiche di pensiero, la nostra attitudine, il nostro modo di agire e di leggere i reale.

Tutto questo ci ricorda che il mondo, ovvero il nostro modo di percepirlo e di farne esperienza, non è altro che una fittissima illusione, quando ce ne accorgiamo percepiamo un senso di spaesamento, un’angoscia profonda e paralizzante, come se insieme al mondo anche la nostra identità, e tutto ciò che facciamo per dargli senso e tenerlo insieme si disgregasse, con un’immensa forza centrifuga. The Fall, i suoi due protagonisti, e la storia che dipana sotto i nostri occhi, ci fa capire che invece l’unico modo per non soffrire e per cercare di vivere bene, è proprio il riconoscere e l’accettare questa illusione, abituarsi a questa idea assurda, e vivere come se si stesse iniziando un gioco, credendo fino in fondo al patto di incredulità che ci tiene al mondo. C’è una frase di Epicuro che si presta bene come sigillo a questa consapevolezza e a questo salto nel vuoto: “Arriverà un momento in cui crederai che tutto sia finito. Questo sarà l’inizio”, ecco, The Fall ci dimostra esattamente questo.


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Se abbiamo smesso di sperare nel futuro, ripiegandoci nella nostalgia, è perché siamo esausti https://thevision.com/attualita/nostalgia-speranza-futuro/ Thu, 26 Sep 2024 16:14:45 +0000 https://thevision.com/?p=187282 Uno dei pochi punti su cui opinionisti e ricercatori in ambito politico e socioculturale ultimamente sembrano essere tutti d’accordo è che la nostalgia sia diventata la cifra del nostro tempo. Un esempio perfetto di collante generazionale: ricordare i tempi passati crea un senso confortante di comunità basata sul “Io c’ero” e il “Te lo ricordi”. Se ci rifuggiamo così tanto nel passato, però, è perché, esausti, abbiamo perso di vista il valore della speranza.

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Uno dei pochi punti su cui opinionisti e ricercatori in ambito politico e socioculturale ultimamente sembrano essere tutti d’accordo è che la nostalgia sia diventata la cifra del nostro tempo. Negli ultimi anni sono infatti stati pubblicati numerosi articoli, saggi e podcast con lo scopo di descrivere o tentare di spiegare perché siamo tutti così ossessionati dal passato, sia a livello personale che come emozione collettiva. La nostalgia oggi smuove gli animi di spettatori, consumatori ed elettori, fa presa che si tratti di vendere un prodotto o di portare le persone al cinema. Non ci sono mai stati così tanti remake, reunion e reboot di film e serie TV come in questi anni: si va dal Gladiatore a Dirty Dancing, da Sex and the City a Grease, da Jurassic Park ai live action Disney su cui si scatenano polemiche ad ogni accenno di modifica rispetto agli originali. Persino Barbie di Greta Gerwig, nel riproporre la storia della nota bambola sotto una nuova luce, ha attinto di fatto alla nostalgia dei pomeriggi passati a giocarci. Nel mondo della moda spopola il vintage, Pokémon Go è stato acclamato come uno dei migliori esempi di marketing nostalgico e se Ambra Angiolini torna a esibirsi cantando “T’appartengo” come quando aveva 17 anni, il web si riempie di contenuti virali riportando il brano in testa alle classifiche. La nostalgia è un esempio perfetto di collante generazionale, ricordare i tempi passati crea un senso confortante di comunità basata sul “Io c’ero” e il “Te lo ricordi”. Così, persino sui  social, simbolo della rivoluzione digitale, si finisce per archiviare il passato, tra foto dei giocattoli di un tempo e post dove si discute delle migliori merendine anni ‘90.

Sfruttare la nostalgia nella comunicazione si rivela spesso una scelta vincente e questo vale anche in politica. Matteo Salvini, che utilizza di frequente le emozioni per veicolare messaggi politici, negli anni ha raccolto sui social numerosi post a m’arcord: lui che mangia i formaggini Susanna, lui che gioca con i Lego o con un flipper trovato in un bar, lui che ricorda i “fichi raccolti per la merenda con mamma e papà”. Ma in politica la nostalgia agisce anche a livello più profondo. Il riemergere sempre più evidente di movimenti di estrema destra di stampo nazionalista o apertamente neofascisti si nutre di fantasie nostalgiche che romanticizzano un passato più prospero, stabile e “gradioso” a cui si pensa sia possibile fare ritorno, un sogno in grado di unire e costruire una comunità.

Secondo Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate ad Harvard e autrice del libro The Future of Nostalgia, “si tratta di un meccanismo di difesa in un periodo contrassegnato da ritmi di vita accelerati e da sconvolgimenti storici”. “Sembra che la fiducia nel futuro sia venuta meno”, scrive, e ce lo confermano i dati. L’ultima rilevazione dell’Indice di fiducia diffusa dal Consiglio Nazionale dei Giovani vede un calo dello 0,2% e numerose ricerche parlano di un forte disagio psicologico, soprattutto nei giovani, dovuto alla paura del futuro anche a causa del cambiamento climatico, ma anche dell’aver attraversato una pandemia, dell’avvicinarsi di guerre, e ancora crisi umanitarie e stragi in onda sui nostri smartphone, crisi economiche ed energetiche che si susseguono: è difficile credere che le cose andranno meglio. Tra un presente instabile e un futuro incerto, solo il passato sembra garantirci un certo grado di sicurezza, ed è in questa spaccatura che si inserisce la nostalgia. 

Questa parola nasce in riferimento a un luogo più che a un tempo. È di origine greca ed è composta da “nostos”, ovvero “ritorno in patria”, e “algos”, “dolore, sofferenza”, etimologia che ritroviamo in vari termini dell’area semantica medica. Quando lo studente Johannes Hofer utilizzò per primo il termine “nostalgia” nel 1688, infatti, fu proprio per spiegare il profondo malessere dei mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV scatenato dalla prolungata lontananza dal loro Paese. Secondo Hofer la nostalgia andava oltre il ricordo e la memoria, era una “malattia dell’immaginatio”, un’immaginazione che si è inceppata e porta a vivere in un altro luogo, svincolato dalla realtà. La nostalgia è caratterizzata dalla volontà di un ritorno a un luogo amato o a un tempo già vissuto, o di cui si è solo sentito raccontare, a un’età dell’oro idealizzata. “L’epoca d’oro è un artificio narrativo, una finzione che ci aiuta a vivere. Niente di più”, scrive Lucrezia Ercoli, docente di Storia dello spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel suo saggio Yesterday. Filosofia della nostalgia, “Siamo noi che costruiamo i tratti dell’epoca d’oro, siamo noi che cerchiamo in un passato vagheggiato e lontano – che non abbiamo vissuto in prima persona e che possiamo ricostruire a posteriori selezionando i suoi profili migliori – i tratti della vera felicità che non rintracciamo nel presente”. Ercoli cita un episodio de L’insostenibile leggerezza dell’essere, in cui Milan Kundera scrive “Mi commuovo sfogliando un libro su Hitler” e racconta questo fenomeno che “sostituisce alla rabbia e al disprezzo un’autentica commozione” spiegando che “In quelle foto d’epoca non ci sono documenti della Storia dei totalitarismi del Novecento, ci sono ricordi personali degli anni fulgenti della mia giovinezza perduta, un periodo della mia vita che non tornerà mai più”. È questo sentimento irrazionale che ci anima nel costruire quelle che Zygmunt Bauman chiama “retrotopie”, delle utopie al contrario che si avvalgono di una memoria selettiva per idealizzare il passato. 

Il muro di Berlino, 1989

A livello politico sono innumerevoli le derive di questo tipo, che puntano a tornare indietro piuttosto che andare avanti, dalla Brexit al “Make America great again” di Donald Trump. Nel mondo occidentale stiamo assistendo a passi indietro sui diritti civili, a un sistematico attacco alla libertà di abortire, ma anche all’ascesa di gruppi di estrema destra di stampo nazionalista in Francia, Svezia, Germania mentre in Ungheria e Italia hanno già ottenuto la maggioranza per governare. Guardando la video inchiesta di Fanpage di cui si è discusso molto sull’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, Gioventù Nazionale, è evidente il richiamo al fascismo e al nazismo tramite un vero e proprio ritorno a codici e simboli del passato che diventano un mezzo per creare aggregazione e fomentare un senso di appartenenza.

Di pari passo, un altro elemento integrante delle retrotopie è la demonizzazione del presente e del futuro presentati come inquietanti e pericolosi anche tramite scenari esagerati, teorie del complotto e fake news. Nei manifesti elettorali della Lega alle ultime elezioni europee ogni volantino mostrava un’immagine nota e rassicurante (sotto lo slogan “più Italia”) e un’immagine destabilizzante (sotto lo slogan “meno Europa”) a indicare quello che sarebbe successo se si fosse scelto il progresso e abbracciato il futuro: un panino ricolmo di insetti al posto del classico e italianissimo panino al prosciutto, pomodori creati in laboratorio al posto della tradizionale agricoltura nei campi, una persona trans con in braccio un bambino contrapposta a quella di una donna cisgender. 

Nel suo libro Chi ha paura del gender? la filosofa statunitense Judith Butler parla di come i conservatori attribuiscano a quella che loro stessi definiscono “teoria gender” tutta una serie di minacce alla società, dalla pedofilia al deterioramento dei costumi sessuali, dalla promozione dell’omosessualità alla distruzione della famiglia tradizionale. Catalizzare in modo irrazionale le paure verso un unico grande nemico come il “gender” o il “politicamente corretto” distoglie l’attenzione da problemi più concreti come la crisi economica, l’avanzare delle guerre, la mancanza di diritti sul lavoro o la distribuzione delle risorse. Allo stesso tempo chi esalta il passato spesso auspica effettivamente un ritorno a un’epoca in cui il privilegio delle classi dominanti era più solido e indiscusso. “Il passato idealizzato”, scrive Butler, “si è ritrovato nell’appello del movimento ideologico anti-genere a ripristinare un ordine patriarcale per la famiglia, il matrimonio e i legami di sangue e nelle restrizioni sulle libertà riproduttive, sull’autodeterminazione di genere e l’assistenza sanitaria per le persone LGBTQIA+. In ognuno di questi casi, viene data priorità a un passato immaginato a scapito di un potenziale futuro di maggiore uguaglianza e libertà”.

Immaginare e costruire un futuro migliore richiede uno sforzo maggiore rispetto a ripiegarsi nella ricerca del passato ma, se si vuole proporre un’alternativa alla nostalgia, è proprio ai gruppi marginalizzati e ai movimenti per i diritti e la giustizia sociale che i progressisti dovrebbero guardare. Patrisse Cullors, una delle fondatrici di Black Lives Matter, in un post su Facebook del 2013 sulla missione del famoso movimento contro il razzismo sistemico e gli omicidi delle persone nere da parte della polizia, fa riferimento proprio alla speranza. Tra gli obiettivi degli attivisti, a suo dire, dovrebbe esserci l’impegno a “Fornire speranza e ispirazione per un’azione collettiva, per costruire un potere collettivo, per raggiungere una trasformazione collettiva, radicata nel dolore e nella rabbia ma rivolta verso la visione e i sogni”. La speranza diventa l’emozione che, specularmente rispetto alla nostalgia, permette di accettare l’incertezza e credere che un margine di azione sia possibile per creare un futuro migliore del passato e del presente. “Secondo me”, scrive l’autrice femminista Rebecca Solnit nel suo libro Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, “le basi della speranza sono, semplicemente: l’impossibilità di conoscere cosa succederà e sapere che l’improbabile e l’inimmaginabile accadranno con una certa regolarità. E che la storia non ufficiale del mondo mostra come l’impegno degli individui e i movimenti popolari possano influenzarla e ottenere qualcosa, anche se non si può prevedere come e se ce la faremo, né quanto tempo ci vorrà”.

La speranza, in questo senso, va distinta dall’ottimismo e dall’astratta convinzione che tutto andrà bene. Piuttosto, come ha sottolineato in un’intervista recente l’attivista Angela Davis che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per i diritti civili delle persone razzializzate e delle donne, la speranza andrebbe intesa come “una disciplina”, una pratica da coltivare anche quando faticosa, essenziale per il cambiamento e opposta al disfattismo. Generare speranza significa trovare nell’incertezza del futuro – e non nell’illusoria certezza del passato – un margine di azione e immaginazione collettiva. “Sperare è scommettere”, scrive Solnit, “È scommettere sul futuro, sui propri desideri, sulla possibilità che il cuore aperto e l’incertezza siano meglio della tristezza e della sicurezza. Sperare è pericoloso, eppure è il contrario della paura”.

Angela Davis

Se abbiamo smesso di credere che un cambiamento positivo sia possibile è perché spesso siamo esausti, logorati dalle brutte notizie e dai problemi del passato che sembrano ritornare ciclicamente. Non abbiamo più la forza di scommettere e diventa più facile abbandonarsi al disfattismo, richiede meno energia. Eppure, dopo mesi di sconforto di fronte alla campagna presidenziale di Donald Trump e Joe Biden, l’arrivo di Kamala Harris ha scombinato le carte, non solo in termini di probabilità di vittoria per i Democratici ma anche in termini di entusiasmo, persino euforia collettiva di fronte alla nuova possibilità. Il futuro è, per definizione, imprevedibile ed è proprio a questa unica certezza che dovremmo aggrapparci per ricominciare a sperare e ad agire.

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Il love bombing è l’appendice moderna dei più meschini comportamenti umani https://thevision.com/attualita/love-bombing/ Wed, 25 Sep 2024 12:26:12 +0000 https://thevision.com/?p=187262 Il love bombing consiste in un insieme di azioni, parole, gesti plateali attuati durante il corteggiamento e la primissima fase della relazione. Il love bomber tempesta la donna di complimenti, di attenzioni, di regali. Lei, frastornata, inizia a credere davvero di essere speciale per lui. È un approccio esplicito che spesso viene scambiato con la fortuna di aver trovato la persona perfetta, anche perché il love bomber insiste su un tasto: “Io non sono come gli altri e tu non sei come le altre”.

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Quando si entra nel territorio delle relazioni, soprattutto quelle di carattere sentimentale, il più grande pericolo è l’instaurarsi di un meccanismo di controllo e di possesso. Indicativamente, almeno fino al 1968, era molto più frequente, quasi considerato un canone sociale, che l’uomo fosse il predatore e la donna la preda. È stato uno dei pilastri della società patriarcale per secoli: l’uomo il capofamiglia, la donna sotto il suo controllo. Per fortuna con il passare dei decenni l’emancipazione femminile ha smussato gli angoli di quello che era un pensiero monolitico, ma permangono ancora diverse forme di manipolazione. La più comune è inizialmente difficile da riconoscere, e forse per questo rappresenta un disagio su vasta scala. Si tratta del love bombing, ed è l’appendice moderna dei più meschini comportamenti dell’uomo.

Parlerò del love bomber al maschile perché questo fenomeno riguarda principalmente gli uomini, anche se esistono rari casi in cui i ruoli sono invertiti. Essendo però una dinamica di dominio non può che essere la donna la vittima, in quanto certi tratti del patriarcato non sono di certo evaporati nel nulla nel 2024. Il love bombing consiste in un insieme di azioni, parole, gesti plateali attuati durante il corteggiamento e la primissima fase della relazione. Il love bomber tempesta la donna di complimenti, di attenzioni, di regali. Lei, frastornata, inizia a credere davvero di essere speciale per lui. È un approccio esplicito che spesso viene scambiato con la fortuna di aver trovato la persona perfetta, anche perché il love bomber insiste su un tasto: “Io non sono come gli altri e tu non sei come le altre”. Per attuare questa strategia fa spesso uso del mirroring. Dunque lascia intendere alla donna di essere la sua anima gemella, magari fingendo di avere gli stessi gusti musicali, letterari o cinematografici, replicando le sue idee politiche e civili, le sue abitudini. Tutto questo con un unico scopo: intrappolarla nella sua rete e manipolarla.

È curioso che il termine sia nato per la prima volta in ambito religioso. Negli anni Settanta, il reverendo coreano Sun Myung Moon fondò la Chiesa dell’Unificazione, un movimento che metteva insieme cristianesimo e confucianesimo reinterpretando la Bibbia attraverso l’influenza di diverse filosofie orientali. Fu lo stesso Moon a parlare di love bombing riferendosi al proselitismo e all’adescamento degli adepti del suo culto, chiamati “moonies”. Il metodo era molto simile all’accezione che diamo adesso al termine riferito alle relazioni sentimentali: far sentire gli adepti importanti, inondarli di attenzioni in modo esagerato, far credere di proteggerli e di amarli incondizionatamente. E così i moonies crescevano a dismisura in tutto il mondo. Questa dinamica avviene sempre nelle sette, e a volte anche in politica, quando un candidato cerca di “comprarsi” le simpatie degli elettori facendo credere di essere uno di loro a suon di promesse irrealizzabili e discorsi sul senso di appartenenza. A una fazione politica, a un culto, a una coppia: cambia poco, la manipolazione ha tratti molto simili.

Fu la psicologa Margaret Singer la prima a usare questo termine riguardo alle relazioni sentimentali. Lo fece nel 1996 partendo proprio dallo studio delle sette, nel libro Cults in our Midst: the Hidden Menace in Our Everyday Lives, per poi espanderlo come teoria psicologica alle coppie. In questi ventotto anni gli psicologi hanno approfondito gli studi di Singer fino a creare un parallelismo con quelli di un’altra psicologa, Lenore Walker, fondatrice del Domestic Violence Institute e della teoria del ciclo dell’abuso nel 1979. Se quello di Walker si basa su fondamenti di criminologia e sfocia nello studio di casi di cronaca nera, il ciclo dell’abuso che riguarda il love bombing ha sfumature diverse ed è stato teorizzato negli anni esclusivamente sulle relazioni sentimentali, pur basandosi ugualmente su quattro fasi. La prima è l’idealizzazione. La donna si sente gratificata dalle attenzioni del love bomber e, nonostante alcuni sospetti iniziali, comincia a credere sul serio che si tratti di un amore puro, immacolato, e che lei sia fortunata a viverlo. Il love bomber spesso ne approfitta e fa allontanare la vittima da famiglia e amici, reclamando la sua presenza come se fosse un trofeo, e quindi occupando il campo del possesso. Se la donna gli chiede se tutto ciò non sia esagerato, il love bomber si offende comportandosi in modo tale da far sentire in colpa la vittima, che torna sui suoi passi pentendosi di aver messo in dubbio i sentimenti del partner.

La seconda fase è quella della svalutazione e consiste nel cambio radicale degli atteggiamenti da parte del love bomber. Dopo aver raggiunto il suo scopo, ovvero la conquista della fiducia della vittima, inizia a svilirla e a limitare le sue libertà. Le impedisce di uscire la sera con le amiche, la tiene in pugno attraverso il ricatto del presunto sentimento amoroso. Comincia così il deterioramento psicologico della donna, sempre più confusa e disorientata. Quando il love bomber decide di mollare, quasi di sbarazzarsi della donna a suo fianco, avviene la terza fase: lo scarto. Lui sparisce, pratica il ghosting e non dà alcuna spiegazione. La donna inizia a incolpare se stessa per aver creduto alle sue promesse ma resta comunque ingabbiata nell’idealizzazione iniziale, soprattutto perché il ghosting amplifica ancora di più quella frustrazione che confluisce in un’unica domanda: “Forse sono io a essere sbagliata?”. Quando la vittima, dopo numerosi sacrifici, prova ad andare avanti, arriva l’ultima fase: il recupero. Il love bomber non può infatti accettare che la sua “preda” stia ritrovando la libertà, e dunque torna alla carica invertendo i ruoli e fingendo di essere lui la vittima. Le dice di voler cambiare, che lei è la sua salvezza e le implora il perdono. La donna qui si trova davanti a un bivio: c’è chi riesce a uscirne, soprattutto grazie ad aiuti esterni o a un supporto psicoterapico, e chi invece ci ricasca, entrando di nuovo nel vortice dei sensi di colpa.

Sul tema sono stati fatti diversi studi per spiegare la vera natura del love bomber. Il principale è quello dell’università dell’Arkansas del 2016, che ha coinvolto 484 partecipanti tra i 18 e i 30 anni. Lo studio ha confermato la correlazione tra love bombing e narcisismo patologico, nonché l’attaccamento ossessivo e possessivo e il basso livello di autostima del love bomber. La vittima invece non ha caratteristiche precise, può essere chiunque. E inizialmente chi casca nella trappola non è più debole delle altre; l’unica differenza avviene nella quarta fase, quando le vittime più fragili mentalmente tornano dal loro “aguzzino”, mentre quelle seguite da uno psicologo o all’interno di un contesto famigliare e sociale con più protezioni riescono a liberarsene. 

Riflettendoci, credo che l’intuizione di Singer di fare il parallelismo tra sette e relazioni amorose sia più che pertinente. Certo, alcune dinamiche sono diverse, come è normale che sia quando si parla da un lato di una massa e dall’altro di una coppia. Eppure il “reclutamento” e il mantenimento nella gabbia seguono le stesse formule. E lo stesso caso riguarda la politica. Anche lì avviene la quarta fase, quando l’elettore deluso dal politico si ritrova durante un’altra campagna elettorale a capire se credere di nuovo al candidato che l’ha già deluso e che continua imperterrito a dirgli che “stavolta sarà tutto diverso”. È un meccanismo di riconquista che fa leva sulle stesse azioni della prima fase: si torna a essere amorevoli e a far sentire speciale il partner, il fedele o l’elettore, come se nulla fosse successo. Il tentativo di controllo riemerge con prepotenza, e purtroppo è facile fare revisionismo sul passato e dare un’altra possibilità al love bomber. Qui il ciclo dell’abuso si ripete facendo il giro e tornando all’inizio. Senza alcuna speranza di mutamento, poiché il sentimento non è reale ma frutto del disturbo del carnefice che intanto deteriora la psiche della vittima. Venendo meno la lucidità, si torna al controllo e al possesso.

Ciò che preoccupa è il fatto che il fenomeno sia diffuso soprattutto tra i più giovani, come mostra anche il range d’età – under 30 – dello studio dell’università dell’Arkansas. Il love bombing funziona perché sembra sopravvivere adattandosi di volta in volta a ogni epoca. Per esempio, oggi è perfettamente aderente al bisogno di attenzioni e di stimoli attuale. Una necessità frenetica anche nei sentimenti, anch’essi veloci, da trangugiare, senza quella lentezza che spesso è utile per poter definire l’entità di un’emozione o anche semplicemente per conoscere davvero chi si ha davanti. Gli esseri umani si manipolano da sempre. Nonostante il progresso e una maggior emancipazione, questi fenomeni riescono a trovare tuttora il loro spazio per germogliare, e finché continueremo a vedere un partner, un politico o un reverendo come le divinità in grado di salvare la nostra esistenza sarà sempre così. Invece sono esseri umani, che hanno a che fare con altri esseri umani. L’amore, un ideale politico o una fede non prevedono alcun bombardamento di attenzioni, nonostante la deriva sia quella di trasformare anche i sentimenti in un campo di battaglia.

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Lo smart working rivoluziona costi aziendali, mobilità e il nostro benessere. Perché rinunciarci? https://thevision.com/habitat/smart-working-sostenibilita/ Tue, 24 Sep 2024 12:50:20 +0000 https://thevision.com/?p=187419 È ormai risaputo che i vantaggi dello smart working sono innumerevoli. Se da un lato, infatti, oltre il 60% dei lavoratori si dice disposto a cambiare lavoro pur di non rinunciare allo smart working, per quanto riguarda l’ambiente si stima che due giorni a settimana di lavoro da remoto possano evitare l’emissione di circa 480 kg di CO2 all’anno a persona – con una enorme riduzione di costi anche per le aziende, che spenderebbero potenzialmente circa il 65% in meno.

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In questi giorni si è sentito parlare ovunque di “de-consumismo”, un termine apparso nel Rapporto Coop 2024 sulle abitudini e lo stile di vita degli italiani nel corso dell’ultimo anno. Nel report, viene utilizzato per indicare quel nuovo atteggiamento – più lucido e razionale – nei confronti dei consumi, che la maggior parte delle persone ha iniziato ad adottare sia in risposta all’impennata dell’inflazione e alla conseguente riduzione del potere d’acquisto che di recente hanno pesato sulla situazione finanziaria di molti, sia per assecondare un cambiamento di percezione, soprattutto nel nostro modo di guardare al superfluo. Gran parte dei consumatori, come riscontro in prima persona anche tra le persone a me più vicine, sembra infatti aver scoperto una nuova forma di benessere legata a un minimalismo inedito, limitando gli sprechi e acquisendo una maggior coscienza ambientale attraverso abitudini eco-sostenibili che li fanno sentire bene, perché ne intuiscono l’enorme utilità collettiva

Dai dati, infatti, emerge l’instaurarsi di una correlazione sempre più stretta tra uno stile di vita attento all’ambiente e l’aumento della percezione del benessere, a livello sia individuale che sociale. Non a caso, dal report Coop emerge che le spese a cui gli italiani non vorrebbero rinunciare sono proprio quelle legate a doppio filo con la ricerca di questo tipo di appagamento: cresce così la scelta dell’usato o del ricondizionato (con 7 italiani su 10 che hanno dichiarato di preferire tecnologie rigenerate come prima opzione d’acquisto), l’interesse verso un’alimentazione sana, oltre che per una dieta sempre più vegana o vegetariana (tanto che il 39% degli italiani è disposto a ridurre il consumo di carne per limitare l’impatto della filiera), e la volontà di ridurre le emissioni legate alla mobilità (per cui il 70% dei consumatori si dice intenzionato a comprare veicoli elettrici in futuro, mentre i mercati di car e bike sharing continuano a espandersi).

Oltre alle abitudini di consumo, a modellare il nostro stile di vita su questo modo alternativo di intendere il risparmio che non vediamo più soltanto come una rinuncia, bensì come una presa di consapevolezza e responsabilità necessaria – ci sono anche le nuove modalità di lavoro che abbiamo integrato tramite la digitalizzazione, una su tutte lo smart working. È ormai risaputo che i vantaggi del lavoro da casa sono innumerevoli, sia per i bilanci interni delle aziende, sia per il benessere dei dipendenti, sia per il pianeta. Se da un lato, infatti, oltre il 60% dei lavoratori si dice disposto a cambiare lavoro pur di non rinunciare allo smart working, che considera la migliore soluzione per trovare il proprio equilibrio tra vita privata e professionale, per quanto riguarda l’ambiente si stima che due giorni a settimana di lavoro da remoto possano evitare l’emissione di circa 480 kg di CO2 all’anno a persona, grazie alla diminuzione degli spostamenti e al minor uso degli uffici – con una enorme riduzione di costi anche per le aziende, che spenderebbero potenzialmente circa il 65% in meno

Nonostante la possibilità concreta di tenere insieme benessere individuale e riduzione dei consumi, però, lo scorso anno solo il 4,4% dei lavoratori italiani ha svolto, per almeno la metà del monte ore settimanale, la propria attività in smart working. Lo dicono i dati più aggiornati di Eurostat, che ci collocano agli ultimi posti nella classifica europea, tra Cipro e la Slovacchia. L’occasione che ci ha dato la pandemia per ripensare alla nostra vita lavorativa e metterla in relazione con il nostro benessere personale e quello del pianeta, di questo passo, rischia dunque di andare sprecata. In un momento in cui la coscienza collettiva sembra essere più sensibile a questi temi, serve dunque che anche dall’alto si guardi allo smart working come una questione stringente, la cui regolamentazione e implementazione potrebbe contribuire a plasmare alcuni dei compartimenti fondamentali delle attività umane, come il lavoro e la mobilità, rendendoli compatibili con la maggiore urgenza del nostro presente: la salvaguardia del pianeta.

L’arretratezza che permane nel nostro Paese sul lavoro da remoto può essere imputata a due principali cause. Da una parte persiste la miopia della classe dirigente, incapace di vedere nell’innovazione la risorsa competitiva che essa potrebbe effettivamente rappresentare a più livelli, come ha dimostrato la scelta di mettere fine allo smart working “agevolato” lo scorso aprile. Dall’altra, invece, ci sono le storiche ragioni di discontinuità territoriale che caratterizzano l’Italia, dove realtà più competitive, dinamiche e strutturate – concentrate prevalentemente nel Nord del Paese – convivono con altre più piccole e tradizionali. In queste ultime, infatti, in seguito all’emergenza pandemica si è registrato un ritorno in presenza decisamente più massiccio, sia per la minore dotazione tecnologica di cui dispongono, sia per la diffidenza che ancora molti datori di lavoro nutrono nei confronti del lavoro agile, temendo una perdita di controllo sui dipendenti e un calo della loro produttività – anche se le evidenze, a oltre tre anni dalla pandemia, accertano il contrario.

La combinazione di politiche poco lungimiranti e della visione superata del lavoro in cui il dibattito sullo smart working viene ancora inquadrato ha dunque determinato una generale sottovalutazione dei suoi vantaggi e benefici (nonostante ormai possediamo molti studi che li attestano), così come dell’impatto positivo che un inserimento esteso e stabile di questa pratica potrebbe avere sulle nostre vite. L’introduzione del lavoro da remoto, infatti, oltre agli effetti favorevoli sul piano individuale inerenti al work-life balance, potrebbe apportare dei vantaggi sistemici, convertendo alcuni dei settori in cui operiamo quotidianamente a una maggiore sostenibilità. L’idea stessa di optare per una modalità lavorativa che riduce, fino quasi ad azzerarle, le emissioni e i costi legati alle normali attività che qualsiasi dipendente svolge durante una giornata di ufficio nel momento in cui esce, raggiunge il luogo di lavoro, usufruisce di impianti di riscaldamento e illuminazione che vengono accesi per lui, e ripete il tragitto per tornare a casa , eleva la tutela ambientale a punto cardine del discorso sul lavoro, rendendola una delle tematiche imprescindibili da cui partire quando si riflette su di esso.

Questo diventa particolarmente evidente se si pensa ai vari consumi connessi con le attività lavorative, non solo come spesa che grava sulle situazioni economiche dei singoli, ma anche in termini di costi per la salute ambientale. L’esempio più eclatante in questo senso è senz’altro quello legato alla mobilità e ai trasporti, che oltre a costare fino a 3.000 euro l’anno per le persone che decidono di spostarsi con un mezzo privato, producono da soli oltre il 70% delle emissioni di CO2 europee secondo una delle ultime valutazioni dell’Agenzia Europea dell’Ambiente. Muoversi di meno, potendo ricorrere di più a mezzi pubblici, in sharing o poco impattanti, come bici e monopattini, per le commissioni da svolgere nel quartiere tra una call e l’altra, e soprattutto muoversi di meno in macchina, diventa quindi una possibilità offerta dal lavoro agile, che agisce come motore di un’evoluzione interna al mondo del lavoro, andando a beneficio sia dei lavoratori che dell’ambiente. Non si tratta, dunque, di un ragionamento sulla mobilità che coinvolge un mero cambiamento del luogo fisico di lavoro, limitandosi a evitare ai dipendenti il tragitto casa-ufficio o a fornire un buon espediente per far fronte a situazioni emergenziali. Lo smart working, tanto nei trasporti quanto in altri settori, può essere il punto d’avvio di cambiamenti strutturali tangibili a livello sociale – con dati sulla produttività che fanno intuire possibili effetti positivi sui salari, oppure un probabile aumento delle conoscenze informatiche medie della popolazione dovute alla necessità di utilizzare supporti tecnologici per lavorare nel momento in cui fosse adottato in modo omogeneo, e senza preconcetti, dalle aziende pubbliche e private del nostro Paese.

La pandemia ci ha messo davanti a quello che rappresenta a tutti gli effetti un ripensamento globale delle modalità lavorative, tanto sul fronte organizzativo quanto su quello valutativo e di spesa, che può dare avvio a una trasformazione altrettanto profonda del nostro modo di abitare il pianeta, perché mette al primo posto la sua tutela anche nello svolgimento di attività umane ad alto impatto ambientale – più o meno direttamente connesse con il lavoro, dai consumi energetici degli uffici a quelli per la mobilità –, rendendole il più possibile sostenibili. Senza contare che l’introduzione omogenea dello smart working, attenuando anche le spese che gravano sul dipendente singolo, contribuirebbe a mitigare tutta una serie di differenze – economiche, territoriali, tecnologiche – che precludono a una parte della popolazione di accedere a vantaggi che sono in primis individuali, legati alle singole situazioni lavorative, ma che, se estesi e garantiti a tutti, determinerebbero un miglioramento generale dello stile di vita medio.

Se il risparmio, oggi, viene quindi inteso sempre più come un valore positivo, in quanto argine principale della tendenza consumistica che sta bruciando il nostro pianeta, possiamo trovare nello smart working una risorsa preziosa, che ci consentirebbe di risparmiare su più fronti: tagliando le spese dei singoli dipendenti, i costi delle aziende, riducendo la quantità di emissioni e, di conseguenza, anche i danni ambientali. Rivedere il nostro stile di vita in un’ottica realmente de-consumistica, modellando le attività che svolgiamo sulla salvaguardia del pianeta, è infatti l’unico modo che abbiamo per garantirci un posto nel futuro. Per questo, occorre andare oltre a politiche cieche che non ci consentano di proiettarci in un tempo a venire, e abbracciare invece quelle che ci permettono di immaginarlo come migliore del presente.


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“Parthenope”, di Sorrentino, ci invita ad attraversare le cose invece di subirle https://thevision.com/atlas/parthenope-sorrentino-recensione/ Mon, 23 Sep 2024 11:51:06 +0000 https://thevision.com/?p=187375 “Parthenope”, il nuovo film di Paolo Sorrentino, è complesso e complessità, che in questo caso, significa moltitudine. La pellicola, però, è anche una riflessione su Napoli e sui napoletani, e su un certo modo di stare al mondo – di attraversare le cose più che di subirle. Nella sua storia, la giovinezza si mischia alla malinconia e a una saggezza quasi senza tempo, e questa è un’idea profondamente sorrentiniana.

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Non credo che Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino, sia una cosa sola. O almeno, non credo che sia così facile distinguere le intenzioni iniziali dagli obiettivi finali e le premesse dalle promesse. Parthenope è complesso e complessità, in questo caso, significa moltitudine: c’è il punto di vista della protagonista, bellissima e sensibile; c’è il punto di vista di chi le sta intorno, ammaliato e infelice; e c’è il punto di vista del mare, pure di quello, che non è mai una presenza silenziosa, ma che ha una voce, un ruolo e un peso specifico all’interno del racconto. Ovviamente, però, Parthenope è anche un film su Napoli e sui napoletani, e su un certo modo di stare al mondo – di attraversare le cose più che di subirle. La giovinezza si mischia alla malinconia e a una saggezza quasi senza tempo, e questa è un’idea profondamente sorrentiniana. I personaggi non sono solo la loro età; sono ciò che vivono e che riescono a vedere – e “vedere” è una delle parole chiave di Parthenope, al cinema in anteprima dal 19 al 25 settembre e regolarmente in sala dal 24 ottobre.

Celeste Dalla Porta, che interpreta la protagonista, cresce nel corso della storia: prima sembra quasi contenersi e muoversi piano, in punta di piedi; ha degli sprazzi e sono sprazzi stupendi; ma finché non condivide la prima scena con Gary Oldman è a metà: ci offre appena uno spiraglio di Parthenope, di quello che è e che può essere. Quando poi comincia ad avere più dialoghi e non solo battute fulminanti, diventa un’estensione del film, come un braccio o una gamba: è fondamentale che ci sia perché la storia possa andare avanti. Allo stesso tempo, finisce come tutto il resto per essere una dei tanti spettatori di ciò che accade. E ciò che accade è tantissimo.

Sorrentino parte dalla fine della seconda guerra mondiale, offre un contesto ricco e borghese, di gente che lavora e che sta facendo la sua fortuna armando le navi. Si concentra prima sul mare, dove nasce la protagonista e dove tutto, dopo un po’, ritorna, e poi si sposta sulla terra. Parthenope è ancora nella pancia di sua madre mentre intorno a lei si muovono dei personaggi incredibili, come il Comandante (Alfonso Santagata) e suo fratello, Raimondo, che soffia sulle persone e le fa sorridere. Ecco, Raimondo rappresenta uno dei punti di svolta del film. Quando è più grande, è interpretato magnificamente da Daniele Rienzo e ha dentro di sé una dualità straordinaria: è giovane e allo stesso tempo vecchio. Anzi, di più: è antico. Ha vissuto poco e ciò nonostante ha provato tutto. Sa, dicono i suoi genitori; e questo sapere, questa sensibilità, lo condanna. Anche lui, come i tanti che incontrano Parthenope, sembra esserne innamorato. Ma è un amore strano, altro, quasi metafisico. È l’amore di chi non può, di chi non riesce a togliersi dalla testa un’idea e ci ritorna continuamente. Perché, appunto, sa.

In mezzo a Parthenope e a Raimondo, c’è Sandro, interpretato da Dario Aita: innamoratissimo di lei, amico di lui e sospeso, come sono sospese tante altre persone, in questo mare di bellezza e fascinazione. Tutti e tre, Parthenope, Raimondo e Sandro, si compensano. E una delle scene più belle del film è quella in cui ballano insieme, guancia contro guancia, mano nella mano, divisi eppure uniti. Sono a Capri, ma è come se si trovassero dall’altra parte del mondo, perché la realtà non sembra nemmeno toccarli. È qui che Parthenope ha il suo primo, grande incontro: quello con il John Cheever di Gary Oldman, che parla piano, beve tanto e che sa, proprio come Raimondo, perché ha vissuto e provato tutto. Quando lui e Raimondo si scambiano un’occhiata, tra di loro si crea un ponte di complicità: io ti vedo e ti riconosco; so quello che provi, so quello che hai pensato di fare innumerevoli volte e che presto farai; non dobbiamo parlare, non dobbiamo dirci niente; ci siamo e ognuno di noi, a modo suo, ama Parthenope.

La moltitudine di cui parlavo all’inizio non si ferma qui. La vita di Parthenope va avanti: dal dopoguerra arriviamo agli anni Settanta e Ottanta, all’università, all’amore per lo studio. Silvio Orlando, che interpreta il professor Marotta, è capace di tenere la scena e di arricchirla, di prendere uno spunto, uno qualsiasi, e di trasformarlo in un racconto bellissimo. La prima volta che lo vediamo dice agli studenti in attesa di fare l’esame: all’università si viene già cacati e pisciati. E anche se facendo così appare ruvido e respingente, in realtà è l’uomo perfetto – l’uomo ideale – per guidare Parthenope, per darle uno scopo e indicarle una strada. Perché, come le dice, si somigliano. Per un po’, Parthenope pensa di recitare e allora incontra la grande maestra, Flora Malva, interpretata da Isabella Ferrari, che le consiglia di andare dalla grande attrice, la Greta Cool di Luisa Ranieri. Poi però torna ai suoi studi e alla sua passione. In mezzo, semplicemente, c’è la vita: incontra la Napoli più vera e viscerale, quella dei vicoli e delle strade senza luce; si fa accompagnare dal Roberto Criscuolo di Marlon Joubert ed entra in contatto per la prima volta con un altro tipo di bellezza: ugualmente seducente, ma più velenosa e pericolosa, pronta a ucciderti e a stravolgerti.

Il sesso, nel film di Sorrentino, c’è ed è una delle grandi costanti della vita della sua protagonista – in tutte le sue forme. Allo stesso tempo, è come se non ci fosse: perché viene sviscerato e privato della sua natura più sensuale; si trasforma in un rito, un’idea, un lunghissimo corteggiamento. Parthenope sa sempre che cosa dire, e spesso si perde con lo sguardo nel nulla. E allora le chiedono: a che cosa stai pensando? A tutto, forse, oppure a niente. Raccontando Napoli, Sorrentino decide di raccontare ciò che si trova al di sopra e al di sotto della superficie: il mare sta su, i miracoli e la terra, invece, stanno sotto. E così Parthenope incontra il vescovo, interpretato da Peppe Lanzetta, che è più un santone che un uomo di Chiesa: uno che, come lei, è in contatto con qualcosa – con il mondo delle idee o addirittura con una qualche forma di divino – e che però non riesce a tenere separata la carne dall’anima; le vuole insieme, famelicamente, e si fa seduttore.

Il film di Sorrentino è come un viaggio. E non ha nessuna voglia di puntare in un’unica direzione. Va esattamente dove vuole andare, e intanto mostra, indica, dice. Ci sono dei monologhi pazzeschi, in questo film. Come quello che fa Luisa Ranieri nei panni di Greta Cool su Napoli e sui napoletani, su quanto questa città che sembra apertissima sia in realtà snob, pretenziosa e chiusa; sul fatto che le cose, a volte, cambiano semplicemente per non cambiare. Oppure c’è il vescovo di Lanzetta che a un certo punto, a Parthenope, confessa: la schiena è tutto; il resto è pornografia. Ci sono gli occhi di Joubert che raccontano una storia a parte, profondi e tristi come sono. C’è una carrozza che è il letto di Parthenope e che ha il potere di accompagnarla ovunque mentre dorme, e di farla sognare e di farle conoscere ciò che non ha mai visto. Il film di Sorrentino si muove su diversi binari: uno, legato alle immagini e alla luce e ai colori, è figlio della fotografia di Daria D’Antonio; un altro, più sottile e sotterraneo, è intrecciato alla musica di Lele Marchitelli, che in alcuni momenti è una melodia d’accompagnamento e in altri quasi una marcia.

Stefania Sandrelli, che interpreta Parthenope da adulta, dopo una vita passata altrove, apre e chiude il cerchio del racconto. Prima solo con la sua voce, poi con tutta sé stessa. E ritorna lì, al passato. Perché questo è anche un film sulla malinconia e sulla forza dei ricordi, di ciò che siamo stati, di queste estati che erano come capitoli a parte della nostra giovinezza e in cui potevamo essere chiunque. Nel caso di Parthenope, l’estate non finisce mai. Oppure sì, finisce, ma non nello stesso modo in cui finisce per noi: finisce perché arriva la durezza della vita e la schiaccia giù e la priva – anche se per poco – della capacità di meravigliarsi. Vede il mare di Napoli e le sembra solo mare. E invece non lo è, e lei che ci è nata dentro lo sa. 

Parthenope è un invito, e più che una risposta pone una domanda. E siamo noi, dopo averlo visto, a decidere che tipo di domanda sia. Può essere quella che tutti fanno alla protagonista: a che cosa stai pensando? Oppure può essere una delle tante che riempiono la storia, che si rincorrono e si cercano ripetutamente. Amare troppo o troppo poco, credere o giudicare, sperare nel miracolo del Santo o diventare il proprio miracolo. Se in È stata la mano di Dio Sorrentino ci presentava una Napoli accogliente e profondamente radicata nella realtà, in Parthenope c’è una voglia continua di sorprendere e di giocare con il fantastico. Sono personaggi straordinari quelli che popolano questo film. Tutti, nessuno escluso. Fanno parte di un mondo che esiste e non esiste, allo stesso tempo. Parthenope, così affascinante e bella, è un mistero. E lo è pure tutto il resto. Solo che spesso ce ne dimentichiamo. Napoli accoglie, respinge, si incazza, esalta; gioisce e si dispera. Per l’estate che finisce, per esempio, o per lo scudetto che la sua squadra ha vinto. La festa si mischia alla disfatta, il trionfo alla preghiera, e ogni cosa, proprio per questo, ci sembra stupenda. E forse, dico forse, lo è.

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