Lo smart working si è rivelato una grande risorsa. Assurdo demonizzarlo, va solo ben regolamentato. - THE VISION
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Nell’ultimo anno e mezzo, scandito da costanti rinnovi dello stato di emergenza, le nostre vite sono radicalmente cambiate sotto moltissimi aspetti e anche per quanto riguarda il lavoro ci siamo dovuti abituare a pensare in maniera differente. Se all’inizio l’effetto dell’obbligo precauzionale di lavorare da casa – entrato in vigore per la maggior parte dei settori – è stato straniante, lentamente sono emersi diversi lati positivi: niente più interminabili code nel traffico, maggiore autonomia e flessibilità e per molti anche più efficienza. In generale, tra le poche novità positive portate dalla pandemia figurano senza dubbio la normalizzazione del lavoro agile e la conseguente accelerazione nel campo della digitalizzazione, nel settore privato e soprattutto in quello pubblico, che prima del Covid era decisamente arretrato. 

Proprio i lavoratori della Pubblica amministrazione sono stati al centro del dibattito nell’ultima settimana, da quando il ministro Renato Brunetta ha dichiarato che “dal 15 ottobre torneranno tutti in presenza”. Lo smart working sarà allora utilizzabile fino a un massimo del 15% delle ore, “ma solo per le amministrazioni che adottano il piano” che comprende un nuovo contratto che sarà stilato entro un mese. Per ora si sa che il lavoro agile (sempre senza superare il 15%) sarà sottoposto a tre condizioni: la regolarizzazione del contratto, l’organizzazione del lavoro per obiettivi e l’introduzione di un rigoroso monitoraggio dei risultati, e infine il lancio di una piattaforma per la verifica della “customer satisfaction”. Tutto il piano si basa sul principio che “il capitale umano non p[ossa] restare bloccato in casa”, escludendo categoricamente che in alcuni casi è proprio in quell’ambiente che potrebbe essere valorizzato al meglio. Secondo Brunetta però “lo smart working sperimentato finora nella Pa è stato utile all’emergenza, ma non è stato un vero lavoro agile”. Il ministro sembra infatti deciso ad associare il ritorno al lavoro in presenza, a cui eravamo abituati prima della pandemia, all’idea stessa di ripartenza, sostenendo che con il rientro in ufficio “si riapre l’era della normalità”, dando per scontato che la normalità fosse buona per definizione. Ma non è detto che sia così.

Lo dimostrano, ad esempio, i dipendenti INPS: come emerge da un sondaggio effettuato dopo mesi di smart working, infatti, secondo l’80% degli intervistati il lavoro agile sarà “un’opportunità anche in futuro” e solo per meno del 10% “un brutto ricordo”; per il 44% il rendimento è poi aumentato grazie a un miglior bilanciamento lavoro-vita e per più del 40% dei lavoratori l’efficacia è cresciuta. Il report ha mostrato una “generale propensione a continuare a lavorare in smart working” e i punti critici rimangono la qualità degli strumenti tecnologici a disposizione e quella delle interazioni sociali che si riflettono sulla collaborazione tra colleghi – che tuttavia non sembrano arrivare a compromettere gli aspetti positivi sia sulla valutazione che sul rendimento. Il tasto dolente per Brunetta è proprio la produttività o, meglio, l’inabilità a dimostrare che sia calata.

Durante un’intervista al Corriere della Sera, interrogato su questo punto, il ministro ha prontamente sviato parlando di “percezione,” che però ha ben poco a che fare con i dati statistici su cui dovrebbe basarsi una scelta del genere. La tesi di governo è che il lavoro agile sia stato implementato esclusivamente per far fronte all’emergenza sanitaria e che debba restare un mezzo emergenziale. Eppure gli effetti positivi dello smart working, sebbene poco utilizzato in Italia prima delle pandemia (per oltre l’87% dei rispondenti al sondaggio Inps si trattava infatti della prima esperienza), erano già stati studiati. Una ricerca del 2018 nella Città metropolitana di Milano ne metteva in luce innumerevoli vantaggi: su un esperimento durato quattro mesi con 295 giornate di smart working svolte, ogni lavoratore aveva risparmiato in media 95 minuti al giorno; 470 le ore investite in attività diverse dallo spostamento casa-lavoro; e 858 in meno i chili di CO2 emessa, l’equivalente del consumo di una famiglia in due anni, considerando elettrodomestici e illuminazione. 

Renato Brunetta

Durante la pandemia gli effetti positivi sul clima sono stati ancora più evidenti. Una ricerca pubblicata da ENEA (l’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Sostenibile) a maggio di quest’anno ha preso in analisi il lavoro di 5500 dipendenti pubblici in smart working, evidenziando una riduzione degli spostamenti per una media di un’ora e mezza a persona, tradotta in 4 milioni di euro in meno spesi in carburante. Secondo Enea questo dato è ancora più rilevante se si considera che Roma, che conta più di 400mila dipendenti pubblici, è una delle città in testa alla classifica mondiale per la maggior quantità di tempo passata in auto. Nella nostra Capitale si passa in auto il doppio del tempo che a New York, il 12% più che a Londra, il 70% in più di Berlino, il 95% in più di Madrid. Stando all’INRIX 2020 Global Traffic Scorecard, le ore perse in auto nella Capitale rispetto al 2019 sono diminuite del 60%.

Negli Stati Uniti, nonostante qualche dubbio riguardo le interazioni sociali espresso da una ricerca effettuata in Microsoft, il trend della produttività in relazione allo smart working è in crescita sia a livello nazionale che per quanto riguarda l’azienda stessa, il cui utile netto trimestrale a giugno ha registrato un aumento del 47%. I lavoratori sono entusiasti, al punto che, come riportato da un sondaggio di Bloomberg risalente a maggio, il 39% dei mille intervistati considererebbe di licenziarsi se le compagnie per cui lavorano interrompessero il lavoro agile. In Europa un cambiamento verso un sistema di lavoro più flessibile era in atto già dal 2016, quando il Parlamento Europeo aveva approvato una risoluzione in cui si affermavano i vantaggi dello smart working a livello sociale. Nelle statistiche del lavoro in remoto prima della pandemia l’Italia occupava gli ultimi posti. In Regno Unito la Flexible Working Regulation aveva dato una struttura al telelavoro già dal 2014, garantendo che “tutti gli impiegati [avessero] il diritto legale di richiedere il lavoro agile” – questo tipo di cultura preesistente ha reso il passaggio obbligato dal Covid decisamente meno traumatico. Anche la Svezia era già nota per aver reso la flessibilità sul posto di lavoro la norma, guadagnandosi nel 2019 il primo posto nella qualità del rapporto vita-lavoro. Approccio che peraltro ha permesso al Paese scandinavo, tra le altre cose, di avere un eccellente sistema di congedi parentali, contribuendo a ridurre il divario di genere sul posto di lavoro. 

Anche in Italia, dove nel settore privato lo smart working è considerato un mezzo nuovo, al di là della Pubblica amministrazione e delle opinioni del ministro Brunetta, si vuole continuare a esplorare. Secondo un rapporto di Fondirigenti, il 54% delle aziende continuerà infatti a utilizzare questa modalità di lavoro almeno parzialmente – in alcuni casi dividendo la settimana tra 2,6 giorni in presenza e 2,5 in remoto. Il campione studiato è composto per più di metà da piccole e medie imprese tra i 10 e i 250 dipendenti. Secondo le prime stime, i lavoratori che resterebbero in smart working sono tra i 3 e i 5 milioni. Sembra quindi poco logico pensare a un futuro del mondo del lavoro in cui un nuovo, innovativo mezzo viene usato solo dalle imprese private, mentre lo Stato resta operativamente bloccato a un’era precedente – peraltro in un Paese dove il divario tra il settore pubblico e quello privato era già evidente. Ostinandosi a rifiutare sistemi nuovi in un mondo che cambia rapidamente, il pubblico rischia in questo modo di restare ancora più indietro – un fatto che potrebbe avere gravi ripercussioni su un impianto burocratico già complesso. 

Vero è che l’esperienza dello smart working nella Pa non è sempre stata gestita al meglio, specie nei primi mesi: molti utenti, infatti, hanno avuto difficoltà a mettersi in contatto con diversi uffici, gli edifici erano rimasti vuoti e i telefoni scoperti, così come le e-mail generali. I tempi sono lievitati e molti messaggi non hanno mai ricevuto risposta, senza che nessuno se ne preoccupasse. Questo ha alimentato le critiche di coloro che hanno pensato che un fenomeno di “ghosting” tutto sommato tornasse comodo. La situazione, per fortuna, è decisamente migliorata nel 2021 con il consolidamento dei processi. Da un lato grazie alla familiarizzazione con la gestione pandemica e dall’altro grazie all’alternanza di lavoro in presenza e smart working, che ha permesso una più solida organizzazione. Se riconosciamo che i nuovi strumenti di cui siamo entrati in possesso possono avere un impatto positivo sulla qualità del lavoro, perché il tutto possa funzionare sono necessari però progressivi adattamenti, volti a garantire il maggior grado di reperibilità e coordinamento possibile. A questo punto sembrerebbe allora opportuno domandarsi se il ministro abbia voglia di occuparsi della indispensabile implementazione dei processi di digitalizzazione, anche sul fronte degli archivi documentali, o non sia più  semplice ordinare il rientro massivo in presenza basandosi su un presupposto per certi aspetti vero ma ormai superato.

Non tutte le innovazioni sono necessariamente positive, ma nel caso del lavoro agile gli svantaggi sembrano davvero di poco conto rispetto alle opportunità per una qualità della vita migliore e un pianeta più sano. In molti, quando parlano oggi di lavoro dovrebbero provare a cambiare punto di vista, a maggior ragione dopo una pandemia che ha sconvolto la vita e la quotidianità dell’intera popolazione mondiale e ci ha dato l’occasione di ripensare alla nostra struttura socio-economica, prendendo ciò che di positivo avevamo prima, aggiungendo il poco che di buono è venuto dall’emergenza e provando a creare un sistema nuovo che ci permetta di vivere il futuro al meglio delle nostre possibilità.

Una prospettiva interessante in questo senso viene da un articolo dell’Atlantic, che invita a compiere uno sforzo di immaginazione e pensare a un mondo in cui l’ufficio come istituzione non sia mai esistito. In cui ognuno sia abituato a gestire le sue mansioni e interagire in maniera più flessibile con i propri colleghi. C’è la possibilità che, se così fosse, l’obbligo di passare ogni giorno otto ore o più al chiuso, in uno spazio spesso sgradevole o insufficiente e per di più inquinando inutilmente ci sembrerebbe assurdo e anacronistico. Ma sembra che la Pubblica amministrazione italiana, a dispetto di sondaggi e delle ricerche, sia determinata a ignorare questa riflessione.

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