Fallire non è una colpa. La società deve combattere lo stigma del fallimento.

Sebbene i più grandi autori della letteratura europea abbiano raccontato il fallimento nelle sue diverse forme e implicazioni, la nostra società non tollera la possibilità di fallire, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Come avviene spesso, molti dei paradigmi che governano la nostra società – tra cui il rapporto con la sconfitta – sono da rinvenirsi nella cultura cristiana. Papa Francesco ne ha fatto un esempio particolarmente calzante affrontando l’argomento nell’aprile del 2019. Riconoscendo che i cristiani sono soliti “cedere al fallimento” e addirittura “lo preferiscono”, ha citato un passo del quarto libro della Bibbia, che racconta di quando il popolo eletto, sfuggito alla prigionia in Egitto, vide sbiadire l’entusiasmo della fine della schiavitù quando dovette affrontare le fatiche del viaggio nel deserto, arrivando a lamentarsi con Mosè che li aveva liberati.

Il rapporto con il fallimento, si rivela essere uno spartiacque tra la mentalità europea e quella nordamericana. Mentre negli Stati Uniti la cultura è ricca di esempi di uomini e donne che hanno conquistato il successo professionale o la felicità personale dopo aver conseguito dei clamorosi insuccessi, nella cultura europea e in particolare in quella italiana, l’esperienza del fallimento è un argomento di cui vergognarsi.

Negli Stati Uniti le discussioni su come trarre insegnamento e ripartire dopo un insuccesso sono molto popolari: nel 2015, John Donohue, giornalista del New Yorker, ha scritto: “Sebbene gli americani spesso dichiarino,  come  Yoda, che siamo una nazione di realizzatori, visti da un’altra prospettiva siamo una nazione di fallimenti – persone che hanno rinunciato a vivere in qualche altro posto per iniziare una nuova vita qui. Le discussioni sull’argomento sono tutt’altro che proibite; anzi, [il fallimento] viene spesso celebrato come mezzo per raggiungere un fine più grande, in particolare nella Silicon Valley, dove ‘fallire velocemente, fallire spesso‘ è diventato un mantra”.

In tema di impresa, l’ambito nel quale è immediato attestare il grado di ottimismo di una popolazione e quanto questa sia propensa a rischiare, l’Italia consegna numeri poco rassicuranti. L’ultimo resoconto del Global Entrepreneurship Monitor del 2018 riporta che l’indice di attivazione imprenditoriale italiano è tra i più bassi d’Europa e, se paragonati al resto del mondo, i dati sono ancora più sconfortanti: risultiamo occupare il cinquantunesimo posto su cinquantaquattro Paesi analizzati. Le cause sono due: la burocrazia e la paura di fallire, come osservato dallo studio del 2017 della Randstad Workmonitor.

Un altro fattore importante che contribuisce alla paura di intraprendere nuove attività imprenditoriali è dato dalla legislazione prevista dall’ordinamento italiano in tema di diritto fallimentare. Le nostre leggi sono il frutto di secoli di esperienze normative che partono dal diritto romano – l’etimologia della parola fallito viene dal latino “fallere”, ingannare – attraversano le epoche del diritto medievale, poi quello moderno – con il Codice di commercio napoleonico – e giungono infine ai nostri giorni. Come emblema di questi passaggi culturali è utile citare il brocardo attribuito al giurista perugino del Quattordicesimo secolo Baldo Degli Ubaldi: “si fallitus, ergo fraudator”, fallito quindi un truffatore, che in estrema sintesi evidenzia l’atteggiamento di quella prassi normativa che nei secoli ha comminato pesanti pene a coloro che venivano dichiarati falliti.

Le nostre leggi, con le dovute differenze, hanno sostanzialmente accolto l’impianto culturale passato, prediligendo la cancellazione dell’impresa fallita dal mercato e abbinando a questo fine una volontà sanzionatoria e punitiva nei confronti dell’imprenditore, che ha effetti anche nel suo ambito sociale. Negli ultimi anni si è generato un dibattito interno alla dottrina e alla giurisprudenza volto a modificarne i paradigmi, come si evince da un’ordinanza del tribunale di Vicenza nel 2014: “Colui la cui impresa non abbia funzionato, e che viene dichiarato fallito, può sentirsi per questo, ed essere considerato dagli altri, un fallito? Così possono pensare le persone con cui viene a contatto il fallito nella vita di relazione, dalla famiglia (figli, coniuge, parenti) in poi (amici, colleghi). Non si può dichiarare il fallimento di una persona, la quale non si riduce ad essere solo un’impresa”.

Ad agosto 2020, nella cornice della Riforma del codice della crisi d’impresa, la dicitura “fallimento” verrà commutata in “liquidazione giudiziale”. Come si legge nella relazione allegata al testo, il cambiamento sarà effettuato “per evitare l’aura di negatività e di discredito” non giustificata dal fatto che un’attività d’impresa, in cui è insita una dose di rischio, abbia avuto un esito sfortunato o non prevedibile. Gli imprenditori che avranno agito in spregio alle norme penali saranno perseguiti per legge, ma il fallimento non dovrà più essere associato a quella forma di disprezzo sociale che ha influenzato negativamente le vite di molti. La speranza è che il cambiamento non sia solo lessicale ma diventi anche culturale.

Non c’è un’unica ragione che giustifichi il perché la nostra società, nei secoli, non abbia saputo costruire una cultura che accettasse l’errore come fattore insito delle vicende umane, quello che è evidente è che questo atteggiamento è arrivato fino ai giorni nostri con pesanti conseguenze sul piano sociale e culturale. Il rapporto con il fallimento, infatti, è un problema ravvisabile non solo, in generale, in ambito lavorativo ma anche scolastico e universitario.

Le pagine di cronaca, non di rado, raccontano di giovani universitari che decidono di togliersi la vita perché non riescono a completare gli studi ed entrano in un meccanismo autolesionista che li porta a mentire alle loro famiglie fino a quando non sono più in grado di sostenere il peso delle aspettative altrui. Anche i più piccoli subiscono sempre più spesso gli effetti di questa cattiva educazione all’insuccesso, vero o anche solo immaginato, che diventa ancora più grave quando accoppiata alla distorta ricerca della perfezione.

Solo negli ultimi anni, in Italia, stanno nascendo gruppi di supporto e scuole di pensiero che hanno il fine di educare all’insuccesso e considerarlo come un insegnamento. È il caso della scrittrice Francesca Corrado, autrice del manuale Il fallimento è rivoluzione e fondatrice della Scuola di fallimento, che ha l’intento, in linea con il pensiero americano, di insegnare a vivere l’insuccesso come una tappa per giungere alla soddisfazione personale e professionale, analizzando gli errori e adottando un metodo per approcciare le diverse sfide della vita. L’obiettivo dichiarato è quello di “costruire in Italia una sana cultura del fallimento, una cultura in cui il fallimento non sia vissuto come marchio indelebile e l’errore non sia considerato uno stigma sociale invalidante ma un viaggio di scoperta di sé, dei propri limiti e dei propri talenti”.

Una cultura che andrebbe portata nelle scuole e nelle Università, per insegnare la naturalezza dell’errore e abituare la comunità all’accettazione e alla comprensione degli sbagli nostri e di quelli altrui. “Ho provato. Ho fallito”, scrisse il drammaturgo e romanziere Samuel Beckett, “Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora, fallisci meglio”. Potrebbe aiutarci pensare che il contrario di fallimento non è successo, ma la realizzazione. Un concetto molto più ampio che non può misurarsi in dati economici, bilanci di impresa o voti scolastici, ma nella nostra capacità di divenire esseri umani completi, consapevoli dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, tolleranti con gli altri e con noi stessi.

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