THE VISION https://thevision.com YOU DON'T EVEN KNOW Mon, 21 Oct 2024 16:34:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Il nostro cervello è tutto quello che siamo, ma spesso lo diamo per scontato https://thevision.com/cultura/preserving-brain-fondazione-prada-convegno/ Mon, 21 Oct 2024 16:34:56 +0000 https://thevision.com/?p=187981 Il nostro cervello è tutto quello che abbiamo, anzi, è tutto quello che siamo, ma non ce ne prendiamo cura abbastanza. Eppure le malattie neurodegenerative ci riguardano tutti in prima persona, sia da un punto di vista personale, con la possibilità di ammalarsi, che sociale, con il loro sulla collettività e sul sistema sanitario. Serve uno sforzo collettivo per un cambio di paradigma, dall’inquinamento atmosferico all’igiene del sonno.

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Il nostro cervello è tutto quello che abbiamo, anzi, è tutto quello che siamo. È qualcosa di talmente aderente alla nostra coscienza da far sì che spesso lo diamo per scontato tale è – inevitabilmente – l’identificazione tra meccanismo ed effetto, ingranaggio e funzione. Come tutte le cose tanto integrate nel nostro senso d’identità, purtroppo, è talmente parte di noi che ce ne dimentichiamo, ci è impossibile considerarlo come un oggetto. Da un lato è una tendenza del tutto comprensibile, come sosteneva Wittgenstein non possiamo verificare di volta in volta prima di usarla l’esistenza della nostra mano, impazziremmo; dall’altro però è senz’altro vero che – come prescrivono tante tecniche meditative – dobbiamo esercitarci e imparare a essere testimoni di noi stessi, e quindi del nostro funzionamento, a vari livelli, sia mentale, che emotivo, che fisico, e anche qui dalle dinamiche più tangibili e se vogliamo grossolane, muscolari, a quelle più profonde e sottili, che pure possono avere enormi effetti, spesso concatenati, nella nostra percezione, fino ad arrivare ai raffinatissimi sistemi del metabolismo e della riproduzione cellulare.

È su questo tipo di attenzione olistica che durante i due giorni di convegno recentemente conclusosi presso la sede milanese di Fondazione Prada, “Prevention on Neurodegenerative Diseases”, è stato posizionato il fulcro del discorso. L’evento, che ha visto coinvolti rilevanti centri di ricerca e studiosi di tutto il mondo, si è inserito nella quarta fase di Human Brains, “Preserving The Brain: A Call to Action”, l’imponente progetto sostenuto da Fondazione Prada a partire dal 2018 sulle neuroscienze, e quindi sul cervello, o meglio, sui tanti tipi di cervelli che esistono, sulle loro dinamiche e funzioni, e sui diversi modi che abbiamo per analizzarli e imparare a comprenderli, in maniera sempre più precisa e profonda. Questa fase si concentra sulla prevenzione delle malattie neurodegenerative, in particolare Alzheimer, Parkinson, Sclerosi Multipla, SLA e Malattia di Huntington, fenomeni che ci spaventano talmente tanto che istintivamente, come ogni cosa che stimola la nostra preoccupazione, tendiamo ad allontanare, come se non ci riguardasse – sperando che non ci riguardi.

Gli scienziati e i medici coinvolti per il convegno invece hanno mostrato e dimostrato molto chiaramente, anche quando sono stati trattati temi specialistici estremamente di nicchia, quanto questo sia un problema che ci riguarda tutti in prima persona, sia da un punto di vista personale (la possibilità purtroppo tutt’altro che remota di ammalarci), che sociale (il peso di queste patologie sulla collettività e sul sistema sanitario, ma al tempo stesso anche il concerto necessario tra tutti gli attori istituzionali per ottenere dei risultati positivi tangibili). Il convegno è accompagnato da una mostra divulgativa, che raccoglie tutte le più recenti scoperte in ambito neurologico – e non solo – legate al funzionamento del nostro cervello e ai possibili fattori di rischio con cui può trovarsi a dover fare i conti: dall’inquinamento atmosferico, alla contaminazione del cibo, passando per la dieta, l’attività fisica, e l’igiene del sonno, ma anche il cambiamento climatico, l’ereditarietà e l’epigenetica, la comorbilità e il fumo. La mostra, inaugurata il 16 ottobre e visitabile fino al 7 aprile 2025, esplora soprattutto il territorio della prevenzione primaria, quindi indirizzata ai soggetti sani, e ospiterà durante questi mesi un programma di otto incontri, sviluppati in collaborazione con associazioni e organizzazioni di pazienti, in collaborazione con Z.E.A. Zone di Esplorazione Artistica, gruppo di ricerca critica che indaga i confini tra arte, design, architettura ed altre forme e linguaggi espressivi contemporanei, con un focus particolare su fragilità, accessibilità, partecipazione e inclusione, usando l’arte come mediatore e facilitatore.

Anche in questo caso Fondazione Prada propone quindi una visione multidisciplinare, che attraverso visioni e prospettive inedite e ibridate porta nuovi insight su temi altrimenti difficilmente raggiungibili dal discorso pubblico. Come dichiara la stessa Miuccia Prada: “Nel corso di questi trent’anni mi sono interrogata in varie forme su come la ricerca artistica e intellettuale possa incidere sulla vita delle persone. Cercare risposte sempre più attuali a questa domanda è lo scopo fondamentale di Fondazione”. E sembra essere davvero così, dato che sono stati portati a Milano alcuni dei più raffinati ricercatori del mondo, che con molta tenacia e tutta l’umiltà necessaria a qualsiasi indagine, anno dopo anno contribuiscono a cambiare le sorti del nostro futuro. Ma per farlo, come hanno ribadito più volte è necessario partire dal presente, da oggi.

All’aumentare degli inquinanti e all’accelerare del cambiamento climatico è necessario sviluppare strategie adattative, a partire dalle nostre abitudini e dal nostro stile di vita. Tutto ciò però è profondamente legato al sistema di valori collettivo, al sistema economico e politico, e all’educazione. Per questo serve un completo cambiamento di paradigma, su vari livelli, e su vari fronti, dalla scuola al lavoro, passando ovviamente per la sanità e lo stato. È questo l’invito sostenuto a gran voce dalla comunità scientifica internazionale, solo così sarà possibile per la ricerca avere un impatto positivo e concreto sulla vita di ciascuno su larga scala.

Il convegno, illuminante, è tuttora visibile su YouTube sul canale di Fondazione Prada e offre interventi più o meno tecnici sui temi fondamentali toccati dal comitato scientifico che si è raccolto intorno alla figura del dottor Giancarlo Comi, Professore Onorario di Neurologia dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano: epidemiologia, inquinamento, alimentazione, sonno, fattori protettivi, geni e altri fattori di rischio, plasticità cerebrale, prevenzione secondaria, priorità e azioni futuro. A partire da quella che ormai viene considerata a tutti gli effetti come un’epidemia di malattie neurodegenerative, l’analisi si è spostata sui fattori di rischio modificabili e non, dalla loro stratificazione e dal loro possibile calcolo, per una medicina tailor made. Un altro punto fondamentale è stato poi quello legato alla sensibilizzazione, in particolare sullo stile di vita, mostrando quanto quelle che ci sembrano accortezze minori quotidiane incidono molto più profondamente di quanto siamo portati a pensare sul nostro corpo, sul nostro cervello, e quindi sulla nostra regolazione mentale ed emotiva, in una parola sul nostro buon funzionamento, fin dalla vita intrauterina. Ogni azione o inazione può essere vista e misurata in termini di rischio e possibilità, ogni gesto ha un peso, che giorno dopo giorno si somma. E se da un lato è vero che il nostro corpo ha enormi capacità di “autoguarigione”, o autoregolazione, è anche vero che anche queste hanno un limite, e che piano piano l’equilibrio si sfasa, fino a sregolarsi, e quando si è arrivati a quel punto è praticamente impossibile tornare alla situazione precedente. Per questo bisogna evitare che accada. 

Guardare in faccia le nostre paure non è mai semplice, ma è necessario se vogliamo superarle, e dobbiamo superarle, perché non importa quanto grandi siano, ci riguardano, e l’unico modo per non esserne vittime è riconoscerne i confini, vedere in che modo si avvicinano, valutarne il peso, e prepararci ad affrontarle di conseguenza. Il nostro cervello è uno solo, sappiamo sempre più cose su di esso, ma sappiamo anche che queste sono una minuscola punta di un iceberg gigantesco, la ricerca procede sempre più rapidamente, anche grazie all’intelligenza artificiale, ma le sue scoperte devono essere diffuse e divulgate, in modo che tutti, senza distinzione di ceto ed educazione, siano in grado di esserne raggiunti e influenzati. Dobbiamo proteggere i nostri cervelli, a partire da oggi, e per farlo dobbiamo proteggere tutti noi stessi, olisticamente, dato che ormai è evidente che tutto sia interconnesso, e che a differenza di quanto ci è sempre piaciuto credere, il nostro corpo non ha una gerarchia piramidale, tutt’altro. Human Brains, e in particolare questa sezione, “Preserving The Brain: A Call to Action”, si mostra ancora una volta come un’incredibile occasione di stimoli e nutrimento, capace di integrare prospettive diverse e composite sul tema della salute e del benessere, che non è né un vezzo né un vizio, e men che meno qualcosa che può aspettare, di non prioritario, che può essere rimandato a domani. La vita dell’essere umano si allunga, ed è un bene, ma c’è il rischio che gran parte di essa, se non agiamo subito, sia caratterizzata dalla solitudine, dal dolore e dalla sofferenza prolungata, dalla perdita incosciente di Sé, di tutto ciò che siamo. Possiamo, dobbiamo, fare tutto ciò che è in nostro potere per invertire la rotta.

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L’ombra di esercito e polizia sulla scuola ha riflessi sempre più inquietanti https://thevision.com/attualita/polizia-militari-scuola/ Fri, 18 Oct 2024 15:56:51 +0000 https://thevision.com/?p=187953 In tempo per l’inizio dell’anno scolastico, il 6 settembre è entrata in vigore la riforma 4+2 dell’istruzione tecnica professionale, che introduce un percorso di quattro anni di scuola superiore seguiti da due anni di ITS Academy, integrati da esperienze a contatto con le aziende. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di facilitare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro, con la presenza in aula di esperti provenienti dalle aziende. La riforma, però, cela alcuni aspetti preoccupanti, come una collaborazione sempre più stretta tra scuola ed esercito.

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In tempo per l’inizio dell’anno scolastico, il 6 settembre è entrata in vigore la riforma 4+2 dell’istruzione tecnica professionale, che introduce un percorso di quattro anni di scuola superiore seguiti da due anni di ITS Academy – scuole di alta specializzazione di ambito tecnico e tecnologico – integrati da esperienze a contatto con le aziende. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di facilitare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro, dando spazio ai programmi di alternanza scuola-lavoro e didattica laboratoriale, con la presenza in aula di esperti provenienti dalle aziende. La riforma, però, cela alcuni aspetti preoccupanti, come una collaborazione sempre più stretta tra scuola ed esercito.

Le riforme dell’istruzione continuano a ignorare il fatto che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sia carente – ed è un eufemismo – l’educazione sessuale e all’affettività, nonostante a ricordarci la sua urgenza ci pensino ogni giorno gli episodi di violenza di genere; i suicidi tra i ragazzi, espressione di una fragilità che andrebbe affrontata dando loro gli strumenti per identificarle e comunicarla; e le preoccupanti percentuali di giovani che sembrano non comprendere il concetto di consenso. Eppure, mentre ci fregiamo di essere tra i pochi Paesi europei a non avere l’educazione sessuale obbligatoria e mentre assistiamo a episodi che sarebbero comici se non ci fossero di mezzo i diritti delle persone – dalla mozione contro la “propaganda gender” nelle scuole alle accuse mosse al progetto Erasmus – in compenso lasciamo che negli istituti scolastici entrino i militari con il loro immaginario bellico.

La riforma introduce un percorso che permetterà l’accesso diretto agli ITS oppure all’università, dato che il diploma quadriennale così ottenuto sarà riconosciuto nel mondo del lavoro come equivalente a un diploma quinquennale. Ma dietro ai buoni propositi di favorire l’accesso a una professione, c’è il rischio di una scuola sempre più improntata all’utilitarismo, volta a produrre manodopera obbediente e formata senza grossi costi per le aziende, più che a dare agli studenti – trattati come braccia da introdurre il prima possibile nel mondo del lavoro – gli strumenti per diventare cittadini consapevoli a tutto tondo. Le parole stesse del ministero, non a caso, si riferiscono al nuovo percorso di studi come a una “filiera tecnologico-professionale”. Ma il lessico usato appartiene anche a un altro campo semantico: quello militare, con termini come “addestramento”: un’eco sinistra soprattutto in tempi in cui si evoca il ritorno della leva obbligatoria.

L’ombra inquietante del militarismo nella nuova legge promossa dal ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara è denunciata dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che accusa in particolare i percorsi di alternanza scuola-lavoro, le uscite didattiche e i progetti che coinvolgono le forze dell’ordine presenti nella nuova istruzione tecnica professionale. Alessandra Alberti, docente e parte dell’Osservatorio, sottolinea che gli ambienti della formazione sono “terreno di conquista di un’ideologia bellicista e di controllo securitario”. Spesso le forze dell’ordine sono invitate nelle scuole a trattare di fenomeni come bullismo e abuso di droghe, affrontati per lo più attraverso la lente del controllo, instillando la paura e trascurando del tutto altri aspetti, che invece potrebbero fornire importanti spunti di riflessione per gli adolescenti, come i temi della prevenzione – quella vera, che non è sinonimo di repressione – e del fenomeno sul piano psicologico e sociale.

Giuseppe Valditara

La presenza di militari e polizia nelle scuole, a dire il vero, non è nuova: già dieci anni fa l’alberghiero “Giovanni Falcone” di Giarre, in provincia di Catania, stipulò un patto di cooperazione coi militari della US Navy della stazione aeronavale di Sigonella e da allora la scuola organizza attività come pranzi di ringraziamento con i marine rientrati dalle missioni di guerra, fino a una gara di tiro al bersaglio con raggi laser a cui le classi quinte hanno preso parte nel 2022; queste attività, spacciate come occasioni di crescita psicofisica dei ragazzi, sembrano piuttosto voler instillare un’immagine positiva dell’ambiente militare e veicolare, così, dei messaggi. E più si comincia da piccoli, più questi messaggi avranno la possibilità di radicarsi nelle giovani menti: una scuola dell’infanzia paritaria in provincia di Varese, per esempio, alcuni mesi fa ha organizzato un’uscita alla base militare di Solbiate Olona, dove i bambini si sono vestiti da militari e hanno familiarizzato con elmetti e strumenti da guerra.

Il fenomeno non riguarda, in realtà, solo la scuola, ma anche altre iniziative dedicate ai giovani, come il festival Giovani Adulti, sostenuto dalla Regione Piemonte, nel cui programma si segnalano interventi con titoli evocativi come “La guerra spiegata ai ragazzi” e “Il corpo della nazione” tenuti da relatori come Renato Daretti, Presidente dell’Associazione Nazionale Incursori dell’esercito, e i giornalisti Maurizio Belpietro – distintosi per i tweet a favore delle opinioni del generale Vannacci – e Gian Micalessin, formatosi nel Fronte della Gioventù. Se la militarizzazione del mondo giovanile, sostenuta dalle istituzioni, è un fenomeno trasversale, è tanto più grave nella scuola, proprio perché è il luogo del laicismo e del contrasto alle ideologie. O almeno dovrebbe esserlo. E da sempre i regimi cercano di portare in classe i propri valori per manipolare le menti quanto sono più plasmabili e crescere dei cittadini obbedienti, piuttosto che cittadini pensanti: questi, d’altronde, potrebbero essere scomodi. Non a caso durante il Ventennio a scuola si insegnavano anche istruzioni militari.

Forse da qualche parte del ministero si spera di risolvere così problemi come disoccupazione giovanile e dispersione scolastica, che in Italia tocca l’11,5% dei giovani tra 18 e 24 anni con grandi disparità tra Nord e Sud togliendo opportunità ai ragazzi, rafforzando ancora di più le disuguaglianze socio-economiche, e regalando manodopera alla criminalità. Non a caso, in effetti, gli studenti dell’Istituto Stradivari di Cremona ritenuti a rischio di “dispersione scolastica o con bisogni educativi speciali” sono stati scelti per partecipare a una visita istruttiva a bordo della Nave Italia della Marina Militare, all’interno di un progetto incentrato sull’espressione dell’identità della donna attraverso l’arte, che avrebbe potuto svolgersi in tanti altri contesti più adatti.

D’altronde le scuole possono essere una fonte interessante per gli eserciti. Negli Stati Uniti, per esempio, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle del 2001, i reclutatori militari hanno cominciato a frequentare sempre più spesso le scuole per reclutare studenti, in particolare provenienti da famiglie a basso reddito, e soprattutto in istituti con percentuali più alte di studenti appartenenti alle minoranze etniche; in più, ad attrarre giovani nell’esercito c’è anche la legge che consente a chi serve nell’esercito di accelerare il processo di naturalizzazione americana, per sé e per la propria famiglia. L’esercito, quindi, in questi casi è un allettante (e pericoloso) modo per garantirsi i diritti della cittadinanza e la sicurezza economica, anche perché è uno degli unici settori in cui negli ultimi anni gli stipendi sono aumentati, risultando, quindi, l’ultimo bastione della mobilità sociale.

Ma l’ombra di esercito e polizia sulle scuole ha riflessi se possibile ancora più inquietanti: basti pensare ai Paesi che ormai sono democrazie solo sulla carta, come Bielorussia e Russia, dove il governo cresce i futuri combattenti nella guerra in Ucraina, già dai 6-7 anni, attraverso “campi militari patriottici” destinati innanzitutto ai bambini più vulnerabili e marginalizzati: più di 18mila nell’estate 2022 in Bielorussia. In questi campi i piccoli vengono addestrati all’uso delle armi, oltre a seguire lezioni di storia dell’esercito e tecniche di combattimento. Ma anche nel cuore dell’Europa da qualche anno esistono campi militari per adolescenti: succede in Ungheria, per esempio, dove sono tornati in auge sotto il governo di Viktor Orbán, con l’obiettivo di sviluppare il patriottismo nei giovani, attratti dal senso di stabilità, comunità e appartenenza che la vita militare promette.

Si tratta di scenari estremi, ma i piccoli passi di militarizzazione che stanno avvenendo anche da noi non possono essere ignorati. E sono in linea con il più generale e in apparenza innocuo inquadramento gerarchico degli studenti, sottoposti a un controllo maggiore – dall’introduzione del registro elettronico, con notifiche immediate alle famiglie, in poi – che finisce per deresponsabilizzarli. Eppure è il contrario di quello che la scuola dovrebbe fare, cioè crescere individui autonomi, consapevoli, capaci di pensare con la propria testa grazie al pensiero critico sviluppato con libri, dibattiti e riflessioni, e promotori della democrazia e dei valori portati avanti dalla Costituzione che ci vantiamo essere “la più bella del mondo”; a partire dall’articolo 11, che ci ricorda che l’Italia ripudia la guerra. Invece, la presenza – non nuova, ma sempre più frequente da qualche anno a questa parte – di militari e forze dell’ordine nelle scuole, sembra motivata dalla volontà di indottrinare i bambini presentando loro come positivi i valori della guerra, che, dietro la retorica della difesa della patria e della comunità, sono quelli della violenza. Obbedienza e passività sono più utili ai regimi: osservando lo stato di salute delle nostre scuole, allora, c’è da preoccuparsi per quello della nostra democrazia.

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“Sbatti il mostro in prima pagina” è ancora la perfetta rappresentazione del vittimismo della destra https://thevision.com/atlas/sbatti-mostro-prima-pagina-recensione/ Thu, 17 Oct 2024 15:52:03 +0000 https://thevision.com/?p=187453 Il valore di “Sbatti il mostro in prima pagina” e la sua stupefacente attualità si fondano sui due temi centrali del film che fanno da pilastri narrativi in modo lucido e puntuale: la manipolazione dell’informazione, un fenomeno che oggi vive un periodo particolarmente florido grazie agli effetti collaterali delle nuove forme di comunicazione di massa, e la strategia propagandistica della destra italiana che, ieri come oggi, basa sul vittimismo gran parte della sua identità.

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“Noi siamo l’Italia che lavora, produce e paga le tasse” era il motto di un movimento che in Italia ebbe vita piuttosto breve ma il cui nome è diventato un’espressione ancora in voga. La Maggioranza silenziosa, usato tutt’oggi come contrapposizione alla “minoranza rumorosa”, concetti che si applicano molto bene anche alle dinamiche di internet e dei suoi prodotti mediatici, era un insieme di forze politiche conservatrici nate in opposizione alla sinistra rivoluzionaria del Sessantotto. Monarchici, membri dell’MSI, liberali, conservatori, membri della Dc: l’idea di fondo era che la buona borghesia, quella lombarda in particolare, fosse la vera sostanza della società, al contrario di chi creava scompiglio e provava a sovvertire gli ordini economici e sociali vigenti. Tra i militanti di questo movimento anticomunista e conservatore che puntava a ostacolare qualsiasi istanza progressista provenisse dalla sinistra, in un periodo in cui le proteste facevano sì che i diritti dei lavoratori, delle donne e dei giovani diventassero parte integrante della nostra società, c’era anche il nostro attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa. L’11 marzo del 1972, infatti, La Russa era in piazza a Milano, a un comizio della Maggioranza silenziosa. E per uno straordinario quanto grottesco gioco del caso, il suo intervento è visibile ancora oggi in quanto parte del film di Marco Bellocchio di quello stesso anno, Sbatti il mostro in prima pagina.

Ci sono fin troppe ragioni per cui questo film andrebbe visto, al di là del prezioso cameo di un personaggio che ha attraversato tutte le epoche recenti della politica italiana, vestendo sempre i panni dell’orgoglioso esponente di estrema destra col busto di Mussolini in casa. Prima di tutto, perché si tratta di un’opera cinematografica di grande valore, con una regia cupa e cruda, nello stile di Bellocchio, sempre attento alla ricostruzione di momenti topici della storia del nostro paese. Poi, perché le interpretazioni di Gian Maria Volontè e di Laura Betti, rispettivamente nei ruoli del redattore capo di un giornale e di una donna vicina agli ambienti della sinistra extraparlamentare che viene usata come esca per condannare un giovane militante, sono un chiaro esempio di bravura e unicità nel cinema italiano che già da sole valgono tutto il film. Il lungometraggio, che mette in scena una Milano poco raccontata, quella delle proteste e dell’oscurità dei primi anni di piombo, ma anche quella della rivoluzione, dei picchetti, delle manifestazioni e della spinta propulsiva al miglioramento delle condizioni operaie che troppo spesso viene messo in secondo piano per dare spazio al solo racconto della violenza, è un dipinto vivido di una fase storica fondamentale per comprendere il presente.

Ma il valore di Sbatti il mostro in prima pagina e la sua stupefacente attualità vanno oltre questi elementi che già di per sé bastano a renderla una pellicola fondamentale per il canone cinematografico italiano. Ci sono infatti due temi centrali del film che, grazie al grande lavoro di scrittura e di messa in scena sia di Bellocchio che degli sceneggiatori Sergio Donati e Goffredo Fofi, fanno da pilastri narrativi in modo lucido e puntuale: la manipolazione dell’informazione, un fenomeno che oggi vive un periodo particolarmente florido grazie agli effetti collaterali delle nuove forme di comunicazione di massa, e la strategia propagandistica della destra italiana che, ieri come oggi, basa sul vittimismo gran parte della sua identità. 

Il primo punto, quello legato alla manipolazione dell’informazione, trae ispirazione da una storia di cronaca nera realmente accaduta, ossia quella dell’omicidio di un’adolescente di buona famiglia, rapita e uccisa da un coetaneo. Nella storia del film, la ragazza vittima di violenza e poi ammazzata in un bosco nella zona industriale di Milano, rappresenta il caso perfetto per la stampa di destra: la redazione de Il Giornale, una redazione fittizia che anticipa di qualche anno il quotidiano fondato da Indro Montanelli, è una roccaforte della propaganda conservatrice che basa gran parte della sua comunicazione sul dissenso e l’indignazione nei confronti dei movimenti studenteschi e operai di quel periodo. La possibilità che questa ragazza sia stata assassinata da un coetaneo facente parte di un gruppo della sinistra extraparlamentare fornisce al redattore capo, interpretato da Gian Maria Volontè, un caso perfetto per montare una delle tante campagne di odio nei confronti dei movimenti.

Il giovane presunto colpevole viene così incastrato nel ruolo di assassino senza pietà, e a nulla servono i tentativi del giornalista Roveda, interpretato da Fabio Garriba, di portare avanti la verità fattuale, e non quella mediatica, che ormai ha scelto chi è il mostro. Lo spiega chiaramente Volontè, quando istruisce il nuovo arrivato sulle regole di giornalismo: gli articoli del giornale devono rassicurare il lettore medio, l’uomo onesto che lavora e produce e che non ne può più di vedere il proprio figlio ribellarsi con i moti giovanili di quel periodo. E così la stampa fornisce ciò che il lettore desidera, qualcosa che lo rassicuri, che gli dica che ha ragione e che fa bene a indignarsi di fronte alla deriva rivoluzionaria delle nuove generazioni. Volontè fornisce così anche una lezione straordinaria sull’arte della titolistica in una scena diventata di culto tratta da questo film che, già nel suo titolo, racchiude l’essenza del potere che manipola l’opinione pubblica grazie alla corruzione di chi utilizza la stampa come un mezzo privato e personale per diffondere le proprie idee e per il proprio tornaconto economico.

Oltre a questo manifesto di deontologia, raccontato attraverso una storia che racchiude in sé il senso dell’informazione che tratta i lettori come consumatori da compiacere – è Volontè stesso che, a casa con sua moglie, la rimprovera di essere così poco furba da credere alle parole che lui dice una volta interpellato in televisione – e della faziosità che da sempre risiede nel nostro giornalismo, a prescindere dalle epoche storiche in cui ci troviamo, Sbatti il mostro in prima pagina è la messa in scena perfetta della strategia vittimista della destra. Lo spiega sempre Volontè quando alle finestre del suo giornale arrivano le pietre dei manifestanti: è necessario avere qualcuno che attacchi la redazione, o in modo più ampio lo schieramento politico a cui appartiene, così da poter dire di essere martiri perseguitati dalla violenza dello schieramento altrui. Assistiamo a questo fenomeno da tempo immemore, e in modo particolarmente acuto negli ultimi due anni, da quando Giorgia Meloni è presidente del Consiglio e da quando dunque l’estrema destra, per la prima volta dopo la caduta del fascismo, è al governo in Italia. La retorica della sinistra che sa solo attaccare – ieri con le manifestazioni oggi con altri mezzi – e dell’egemonia culturale che avrebbe reso l’attuale maggioranza vittima di un’esclusione dalla società è il pane quotidiano della propaganda meloniana e salviniana, che grida ai complotti non appena qualcuno o qualcosa si frappone tra loro e il loro modo di governare, che si tratti di un’inchiesta di Fanpage sulle pericolose abitudini di apologia al fascismo nella sezione giovanile di Fdi o di dubbi sui rapporti tra la sorella della presidente del Consiglio e le nomine Rai.

Il caso Sangiuliano, tra quelli più recenti, è stato eclatante: nell’istante in cui è venuta fuori la presenza di Maria Rosaria Boccia all’interno del ministero della Cultura in una veste non ancora chiarita, il modo di difendersi della destra è stato subito delegato al grido del complotto. Sangiuliano, vittima di una abile manipolatrice, non avrebbe fatto niente di male se non essere troppo buono e accogliente nei suoi confronti; è questo il modo in cui la stampa di destra ha reagito alle interviste e agli sviluppi della vicenda che coinvolgevano l’ex ministro della Cultura e l’imprenditrice che avrebbe avuto accesso a informazioni riservate per non si capisce quale ragione. 

Matteo Salvini, attuale ministro dei Trasporti, è un altro campione di questo atteggiamento quando si tratta di assumersi le proprie responsabilità. Se i Pm del processo Open Arms chiedono che venga condannato a sei anni di reclusione per i reati commessi anni prima, la sua risposta è un video di tre minuti girato come se fosse un monologo shakespeariano in cui il ministro si dichiara “colpevole di aver difeso i confini nazionali”, sottintendendo di essere una povera vittima di una giustizia infame che non tiene conto dei valori importanti come la patria, valori che superano di gran lunga qualsiasi priorità nel salvataggio di vite umane.

Anche la presidente del Consiglio allude ciclicamente al fatto che ci sia in ballo un disegno dei suoi oppositori politici per minare la sua autorità e il suo consenso politico, replicando all’infinito lo schema di cui parla Volontè nel film di Bellocchio: bisogna avere un utile capro espiatorio. Se il colpevole perfetto in Sbatti il mostro in prima pagina erano gli attivisti di sinistra, oggi possono essere le ONG che salvano i migranti nel Mar Mediterraneo – definiti da Salvini sempre e solo come “clandestini” e mai come esseri umani – o gli attivisti contro il cambiamento climatico, la stampa di sinistra, la teoria gender, gli infiltrati, o l’egemonia culturale di sinistra, un concetto assai astratto, dal momento che dagli anni Novanta in poi a fare egemonia culturale, o meglio sottoculturale, sono le televisioni di Berlusconi, molto più che i testi di Gramsci o i film di Bellocchio.

Dal 1972, da quei comizi in cui a parlare era Ignazio La Russa, quando la Maggioranza silenziosa si riprendeva gli spazi che già aveva, ma che sosteneva le fossero stati sottratti dalla sinistra, dal vittimismo della destra che si lamenta di essere stata esclusa ed emarginata, come se in un Paese che ha avuto vent’anni di dittatura fascista l’esclusione di queste forze politiche non fosse il minimo indispensabile, sono cambiate molte cose a livello di contesto storico, ma alcuni ritornelli sono rimasti identici. Dagli intellettuali di destra che si lamentano di non poter dire nulla quando sono ogni giorno su quotidiani e trasmissioni a dire di tutto, in un universo politico in cui un generale si candida facendo il segno della X Mas come se fosse una gag elettorale, ai presidenti del Consiglio che si sentono vittime di complotti solo perché qualcuno fa notare l’impresentabilità delle loro squadre di governo, passando per i ministri che rispondono alla giustizia con video che sembrano girati per una campagna di abbonamenti teatrali o per qualche brutta imitazione di Black Mirror. In qualsiasi decade della nostra storia recente, ci sarà sempre un mostro da sbattere in prima pagina per deresponsabilizzarsi dal fatto che forse, semplicemente, si è inadeguati a governare; e le uniche vittime, in tutto ciò, siamo noi.

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Indagando l’etica robot, “Mars Express” ci interroga su cosa significhi essere umani https://thevision.com/atlas/mars-express-recensione/ Wed, 16 Oct 2024 16:53:53 +0000 https://thevision.com/?p=187887 Da “2001: Odissea nello spazio” a “Ghost in the Shell”, passando per “Blade Runner” e “Io, robot”, il rapporto tra tecnologia e morale è un tema frequente nella fantascienza e nei prodotti culturali, almeno a partire dalle storie sui robot di Isaac Asimov. Ed è su questo filone che si innesta anche “Mars Express”, sorprendente lungometraggio d’esordio del regista francese Jérémie Périn, che ci interroga su cosa, in fondo, significhi essere umani.

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Una tra le molte motivazioni per cui penso di non voler mai diventare genitore è legata all’eredità morale che comporta avere un figlio. Non è una questione relativa alla sovrappopolazione, al suo impatto ambientale o al dubbio sulla qualità – e la facilità – del mondo che lasceremo alle prossime generazioni – o meglio, non solo almeno –, ma è soprattutto una domanda riguardante il come quella persona si muoverà tra e con tutte le altre, la realizzazione dei valori in cui credo. È probabilmente un dubbio che non ha fine chiedersi quanto bene avremo fatto il nostro lavoro, quanto e se sarà una buona persona – qualunque cosa significhi. La morale, d’altronde, è un concetto mobile, perché la sua universalità non è altro che un accordo, un compromesso, definita da un contesto, da un luogo, da un dove, nonostante spesso si tenda a rimuoverlo, ad assolutizzare. L’abbiamo resa l’unicità dell’agire umano eppure, oltre alla necessità di superare l’antropomorfismo che per secoli ha caratterizzato le intuizioni della maggior parte di filosofi e scienziati, la morale è una questione che nel futuro – seppur non strettamente prossimo – riguarderà sempre più anche il nostro rapporto con le macchine, i robot, gli intelletti sintetici. 

Da 2001: Odissea nello spazio a Ghost in the Shell, passando per Blade Runner, Io, robot e Matrix, lo status morale della tecnologia è un tema frequente nella fantascienza e nei prodotti culturali, almeno a partire dalle storie sui robot del biochimico e scrittore sovietico, naturalizzato statunitense, Isaac Asimov. Ed è su questo filone che si innesta anche Mars Express, sorprendente lungometraggio d’esordio del regista francese Jérémie Périn, proiettato in anteprima italiana venerdì 18 ottobre al Cinema Godard di Fondazione Prada a Milano, in collaborazione con il Trieste Science+Fiction Festival, dove ha vinto il premio della critica. Presentato al Festival di Cannes e al Festival di animazione di Annecy, il film mescola animazione 2D e 3D a una sceneggiatura scritta a quattro mani da Périn e Laurent Sarfati, interrogandosi su cosa, in fondo, significhi essere umani.

Nel 1942, nello stesso racconto in cui per la prima volta compariva la parola “robotica”, proprio Asimov introduceva delle leggi per regolare l’esistenza e le azioni dei robot. La prima legge della robotica sancisce che “un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno”, stabilendo una responsabilità anche per le conseguenze delle azioni indirette; la seconda recita che “deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge”, indicando una precisa gerarchia; la terza aggiunge che “deve salvaguardare la propria esistenza”, a patto che ciò non  contrasti con le altre due leggi. Quarant’anni dopo, nel romanzo I Robot e l’Impero, Asimov aggiungeva una quarta regola, detta anche Legge Zero, anteposta in ordine di importanza alle precedenti: “un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’umanità riceva un danno”, sottolineando come l’importanza del bene collettivo superi quello individuale. È proprio su questo confine che si muove Mars Express: se la prima immagine ci introduce alle leggi di Asimov, l’ultima ci interroga sul nucleo essenziale che sfugge a quelle norme: il libero arbitrio. 

Il film, attingendo a piene mani dal genere sci-fi, prova a immaginare la società del 2200, nella cui gerarchia gli umani restano in cima. Sono la classe dominante, comandanti di una piramide sociale che poggia su un nuovo proletariato fatto di robot. Alcune di queste creature esistono in corpi metallici, quelli a cui siamo più abituati a collegare visivamente l’idea di androidi, in ogni forma e colore, mentre altri indossano travestimenti simili alla pelle umana per confondersi con i mortali in carne e ossa. A distinguerli da noi è il colore del sangue, di un blu come quello dei polpi. Non tutti sono però convinti di questo sistema: alcune persone credono che i robot meritino la libertà, che debbano essere indipendenti e autonomi, senza più obbedire ai comandi umani, ai loro umori. D’altronde siamo i primi a non passarsela sempre bene: mentre la Terra è diventata “il solito covo di disoccupati”, su Marte i soldi continuano a stabilire la dignità delle vite. Chi non può permettersi di studiare o fa lavori con cui si sopravvive a malapena, può rivolgersi alle brain farmers, le fattorie di cervelli, mettendo a disposizione i propri circuiti cerebrali per alimentare il calcolo delle macchine. Jun Chow, studentessa di cibernetica, è una di queste ed anche la custode inconsapevole di un segreto che potrebbe minacciare il futuro della civiltà. Sulle sue tracce non ci sono solo dei sicari feroci ma anche i protagonisti della pellicola, Aline Ruby e il suo partner androide Carlos Rivera, un robot al cui interno è stata impiantata la coscienza di un essere umano.  

“L’intento grafico è quello di muoversi verso un realismo raffinato, verso uno stile che consente di accentuare le differenze tra umani e non umani ma anche, per la sua neutralità, di adattarsi naturalmente a tutti i diversi toni presenti nel film, che si tratti di momenti cupi o più comici”, spiega Périn. “Il sound design segue la stessa logica: l’intero paesaggio fa dimenticare la propria natura artificiale attraverso la sua naturalezza e coerenza”, aggiunge. Tra le scelte narrative più interessanti di Mars Express c’è il fatto che persino in questo lontano futuro, su un altro pianeta, in una società completamente diversa, la condizione umana prevale nelle sue forme più frustranti. A bordo dell’astronave che fa la spola dalla Terra al Pianeta Rosso, per esempio, Aline deve ancora fare la fila per usare il bagno, che ovviamente scorre alla stessa velocità del 2022. E nonostante i minibar nelle camere d’albergo si chiudano da sole quando nella stanza è presente qualcuno per cui la sobrietà è una conquista, fa ancora fatica a lottare contro l’alcolismo. Dall’altra parte, Carlos, pur avendo conseguito ciò che molti transumanisti pagherebbero oro per avere, cioè la possibilità di essere una macchina e superare senza problemi l’unico ostacolo a cui non si è ancora trovato rimedio, nemmeno nel 2200, cioè la morte, è dilaniato dall’impossibilità di vedere la figlia, perché l’ex moglie glielo impedisce essendo stato violento in passato. C’è una scena, in particolare, in cui Carlos, pur piangendo copiosamente, non riesce ad asciugare le proprie lacrime, perché le braccia robotiche oltrepassano l’inconsistente ologramma che è il suo volto. Questi dettagli sui fastidi e sulle lotte irrimediabilmente quotidiane che caratterizzano l’esperienza umana elevano la sceneggiatura di Périn e Sarfati, suggerendo che a prescindere da quanto avanzata possa diventare la tecnologia, alcuni dolori e desideri, purtroppo per noi, sono inevitabili.

Quando si parla di intelligenza artificiale e robotica, la nostra immaginazione di solito si basa su paure che riflettono le nostre ansie e i nostri desideri, che cerchiamo di sedare pensando che le macchine ragioneranno nel nostro stesso modo, avendole create. Ma probabilmente ci sbagliamo, perché potremmo avere difficoltà a comprendere le loro scelte. Non è solo una questione di come agirebbero davanti a un dilemma morale, ma del fatto che nel tempo di un battito di ciglia possono attingere a una vasta gamma di informazioni a noi inaccessibile e metterle insieme in modi che non siamo in grado di capire. Robot sufficientemente intelligenti saranno in grado di operare in modo autonomo dal controllo umano, di fare scelte indipendenti, che avranno conseguenze che noi consideriamo morali. Se un giorno, chissà, riusciremo a creare macchine con progetti, desideri e un senso di sé simili a quelli umani, inclusa la capacità di provare gioia e sofferenza, allora meriterebbero una diversa considerazione etica.

Ma cosa potrebbe essere morale per un robot? È lo stesso concetto valido per una persona? Le norme sono sempre vincolanti in quanto tali, scriveva il filosofo Michel Foucault, e richiedono ripetizione, standardizzazione, automatismi, eppure più che l’idea di imporle sulle macchine occorrerebbe recuperare un pensiero umano eticamente responsabile, in cui creazione e utilizzo dei mezzi tecnici siano finalizzati al raggiungimento di obiettivi collettivi e democraticamente condivisi. Mars Express non finge che le nostre preoccupazioni siano fuori luogo – non solo in termini morali, ma anche politici o economici –, ma dà nuova linfa al genere sci-fi concentrandosi su ciò che la tecnologia potrebbe volere per sé stessa. E, in fin dei conti, sulla banalità di ciò che noi stessi, in quanto umani, a volte desideriamo ottenere.

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Per far accorgere gli italiani delle bugie del governo Meloni serviva toccargli il portafoglio https://thevision.com/politica/tasse-accise-meloni/ Tue, 15 Oct 2024 15:16:50 +0000 https://thevision.com/?p=187838 L'articolo Per far accorgere gli italiani delle bugie del governo Meloni serviva toccargli il portafoglio proviene da THE VISION.

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Dopo la Prima Repubblica, in Italia nessuna forza politica è riuscita a riconfermarsi alla successiva tornata elettorale. Per capire l’anomalia, nello stato lasso temporale – più di trent’anni – negli Stati Uniti tutti i presidenti hanno vinto due elezioni di fila tranne Donald Trump nel 2020. In Italia, invece, la parabola è sempre stata la stessa in base alla fazione politica: se il centrosinistra si è perennemente sfaldato da solo tra scissioni, mugugni interni, tradimenti e scelte kamikaze, a destra ogni luna di miele con gli italiani, già dai tempi di Berlusconi, si è sempre esaurita per un paradigma ormai più che radicato: la bugia. Tanto utile durante le campagne elettorali, arriva poi l’effetto rinculo quando le promesse non vengono mantenute, con i cittadini inferociti in quanto traditi, manipolati, trattati come carne elettorale.

Silvio Berlusconi

C’è un velo di tristezza nel constatare come lo scollamento tra elettori e rappresentanti di destra non arrivi mai per temi etici, morali, civili o persino giudiziari. Evidentemente al cittadino interessa poco se a una donna viene ostacolata la procedura d’aborto, se membri del governo rimarcano la loro aderenza neofascista, se la televisione pubblica diventa l’Istituto Luce o se vengono usati metodi da Ungheria per reprimere il dissenso. Quando però tocca pagare di più la benzina o ci sono altri aumenti che possano modificare la vita quotidiana sgonfiando ulteriormente il portafoglio, non c’è ideologia che tenga. Da un lato è anche comprensibile: come per istinto di sopravvivenza bisogna portare il pane a casa e vale per tutti. Dall’altro si accettano storture politiche e nostalgie varie acuendo il crollo verticale del valore della classe dirigente, in atto ormai da decenni. Quindi i nostalgici al potere vengono accettati, ma solo se non mettono le mani nel portafoglio. D’altronde per gli stessi esponenti di destra vale lo stesso, è una normalità sdoganata: nessun politico querela se viene etichettato come fascista – anche perché con un passato nell’MSI e con i busti del Duce a casa riceverebbe i sorrisi di scherno da un giudice – ma lo fa se viene chiamato “coglione”.

Roberto Vannacci

Dunque, nel governo del meglio-fascista-che-coglione, ora bisogna fare i conti con la realtà, e per Giorgia Meloni significa principalmente accorgersi di non essere più all’opposizione. Un ritardo significativo per la realizzazione, ma è stata questa la settimana in cui le crepe sono diventate voragini e gli elettori di destra – o forse dovremmo chiamarli i turisti delle urne, cioè quelli che a ogni tornata votano un partito diverso “provandoli tutti” – non si sono fatti scrupoli a farglielo notare, inondando i suoi profili social di critiche e insulti. Tutto è nato quando Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia ed eminenza grigia della Lega, ha chiesto “sacrifici” agli italiani. A parecchi sono venuti i flashback del “lacrime e sangue” di montiana memoria. Il governo si è subito prodigato a minimizzare quelle dichiarazioni, con Meloni che ha persino postato un video sui social tentando di tranquillizzare il suo popolo già pronto con i forconi in mano. Niente tasse e niente aumenti, secondo la premier. Qui la bugia è facilmente smascherabile visto che, come fatto notare anche dalle opposizioni, è stato scritto tutto nero su bianco nel Piano strutturale di bilancio. A partire dalle accise su gasolio e benzina, tema che Salvini e Meloni dovrebbero ricordare bene.

Giancarlo Giorgetti

Un’accisa non è altro che un’imposta sulla fabbricazione e vendita dei beni di consumo. Durante i loro fasti all’opposizione – tempi facili e felici, eh? – avevano promesso entrambi, con tanto di video roboanti, non solo di diminuirle, ma proprio di eliminarle. Promessa irrealizzabile, perché non si gestiscono le casse dello Stato con i soldi del Monopoly, ma a quanto pare il loro elettorato c’ha creduto. Il Piano strutturale di bilancio usa un ghirigoro linguistico per non parlare di aumento: “riallineamento”. Per farla breve: al momento il costo dell’accisa sul gasolio è 0,617 centesimi al litro, mentre per la benzina è 0,728 centesimi. Il riallineamento prevede una riduzione sulla benzina e un aumento sul gasolio, quindi sul diesel. Questo comporterebbe un danno economico immenso, essendo coinvolti i camion, e con gli autotrasporti penalizzati aumenterebbe anche il prezzo del prodotto una volta giunto sugli scaffali, colpendo quindi i consumatori. Il piano di governo prevede di escludere dall’aumento i camion Euro 5 ed Euro 6 sopra le 7,5 tonnellate, ma come spiegato dall’associazione Assotir, i veicoli più piccoli e più vecchi che non rientrano nell’esenzione rappresentano la metà del parco veicolare nazionale, quindi la ricaduta sui prezzi e sui consumi sarebbe comunque enorme. Meloni, chiaramente, nel suo video propagandistico non ne ha parlato, e non potevamo aspettarci altrimenti da chi sta governando tra bugie e omissioni e non si prende neanche la responsabilità di spiegare ai cittadini i motivi di un aumento.

Giorgia Meloni

Motivi che la destra, in caso, spiegherebbe con il suo politichese, parlando di un “riassestamento della fiscalità statale su base di impellenti riordini propedeutici al plateau amministrativo che al mercato mio padre comprò”. Fuori dalle supercazzole e usando termini più diretti, la realtà è che l’Italia è con le pezze al culo. E non è una frase fatta, visto che l’Istat ha ufficialmente rivisto la stima del Pil del 2024 abbassandola allo 0,8%. Possono sembrare decimali di poco conto, ma si traducono in parecchi miliardi di euro in meno nelle casse dello Stato. Per riordinare i conti non basta alzare le accise sul gasolio, e dunque il governo ha progettato un altro aumento senza definirlo tale: l’aggiornamento delle rendite catastali. In sostanza è la vendetta di Giorgetti contro il Superbonus, visto che i lavori per i miglioramenti energetici o antisismici, con un conseguente incremento del valore degli immobili, comporteranno un “cambio di classe” degli alloggi che hanno usufruito del Superbonus. Se per le prime case il rischio di pagamenti in più è soltanto indiretto, per esempio attraverso l’Isee, per le seconde case l’aumento dell’Imu può arrivare fino al 38%. Parlare di rendite catastali invece di tasse forse può suonare meno minaccioso, ma le conseguenze sono le stesse e gli italiani non sono stupidi.

Milano

Accorgendosi di questi “sacrifici richiesti” e della pavidità di Meloni nell’ammetterli, scorrendo tra i commenti sui social della premier si nota come i toni siano cambiati. Niente più “Giorgia”, niente più bandiere italiane e slogan di giubilo: la gente chiede spiegazioni. Non le avrà. A meno che non ci sia un coup de théâtre del governo, ovvero il ripensamento e l’annullamento dell’aumento delle accise e delle rendite catastali. Questo, paradossalmente, sarebbe uno scenario ancora più inquietante, perché con i dati eloquenti dell’Istat sul Pil vorrebbe significare prendere i soldi da altre parti o accumulare ulteriori debiti che pagheremo a prezzo ancora più alto in futuro. Sarebbe un’omissione di soccorso, con l’Italia a essere la paziente bisognosa di cure (e di entrate) e lasciata allo sbaraglio. Un po’ come quando, durante la crisi economica dell’ultimo governo Berlusconi, per mesi si fece finta di niente parlando di “ristoranti pieni”, per poi ritrovarsi a un passo dal default e con l’esecutivo costretto ad abdicare. Arrivarono i tecnici a mettere le pezze sui buchi lasciati dalla destra, il periodo dell’austerità e del grigiore della politica tecnocratica. Come con Draghi qualche anno dopo, chiamato d’urgenza per sopperire all’incapacità della classe dirigente. Io non so come finirà questa vicenda, ovvero se Meloni continuerà a mentire sugli aumenti, se li annullerà o altro. Posso immaginare però che in qualche stanzino del Quirinale c’è un telefono polveroso, e forse qualche mano è pronta a digitare un numero. Che sia quello del Cottarelli di turno o di qualche altro tecnico non è dato sapersi, ma il governo deve decidere se diventare maturo e spiegare agli italiani i reali problemi del Paese o continuare a mentire ai cittadini facendo finta che tutto vada bene. Conoscendo l’excursus storico dei personaggi in questione, è probabile che le menzogne della destra possano continuare a inquinare il dibattito pubblico, impoverendo un Paese già rattoppato da cima a piedi.

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“Iddu” non è un film sulla mafia, ma sul male https://thevision.com/atlas/iddu-recensione/ Mon, 14 Oct 2024 16:04:05 +0000 https://thevision.com/?p=187848 È giusto dare eco a chi invece dovrebbe essere ricordato solo in termini negativi? Raccontare un personaggio come Matteo Messina Denaro, soprattutto con un’interpretazione ben riuscita come quella di Elio Germano, è un modo per rafforzare il suo immaginario o demolirlo? Sono questi i quesiti legittimi che alimenta “Iddu - L’ultimo Padrino”, dal momento che qualsiasi interlocuzione dialettica con l’arte presuppone uno scambio tra realtà e finzione che determina il senso stesso della rappresentazione.

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Uno dei personaggi più interessanti de I Soprano, serie televisiva considerata all’unanimità come caposaldo del genere, è Christopher Moltisanti. Il nipote del protagonista, il boss Tony Soprano, incarna la linea diretta con la successione del potere all’interno della famiglia mafiosa del New Jersey: il legame di sangue, prima di ogni altra cosa, è l’elemento che unisce il passato con il futuro. Moltisanti, che rispetto allo zio viene da una generazione diversa, figlia della crisi dei valori familiari e unitari del passato – o almeno, così ci raccontano i protagonisti del clan mafioso che rimpiangono i vecchi tempi in cui si rispettavano padri e anziani – nutre delle ambizioni diverse, prodotte dall’ambiente in cui cresce, un’America in cui la mafia è rappresentata ed estetizzata grazie al grande cinema statunitense della New Hollywood. Il suo vero sogno, infatti, non è tanto diventare il boss forte e inscalfibile che dovrebbe essere Tony Soprano – che in realtà vive una crisi interiore talmente forte da ricorrere alla psicoterapia, motore narrativo della serie – ma, piuttosto, rappresentarsi come tale: Moltisanti, infatti, sogna di fare lo sceneggiatore di film sulla mafia italo americana. 

Il rapporto tra la criminalità organizzata e il cinema è un tema complesso, e l’uscita del film Iddu – L’ultimo Padrino, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con il dibattito a seguito che ha generato – la mancata proiezione al cinema di Castelvetrano, le contestazioni sulla attendibilità del racconto – ne è un’ulteriore prova. È complesso perché tocca diversi punti, etici ed estetici, ed è parte integrante della narrazione mafiosa stessa; nel bunker di Matteo Messina Denaro, c’era appeso un poster de Il Padrino. Così come un personaggio de I Soprano incarna la pulsione verso la spettacolarizzazione e il riconoscimento dal mondo esterno, inteso come extra-criminale, ancora oggi il modo in cui si può attingere da un racconto di realtà per plasmarlo in un racconto di finzione genera una serie di interrogativi. È giusto dare eco a chi invece dovrebbe essere emarginato o ricordato solo in termini negativi? Raccontare un personaggio come Matteo Messina Denaro, soprattutto con un’interpretazione davvero ben riuscita come quella di Elio Germano, è un modo per rafforzare il suo immaginario o per demolirlo? Sono quesiti legittimi, dal momento che qualsiasi interlocuzione dialettica con l’arte presuppone uno scambio tra realtà e finzione che determina il senso stesso della rappresentazione. E sono domande che Iddu ha fatto riemergere, all’indomani della sua uscita, soprattutto per il fatto che si tratta di un film liberamente ispirato al personaggio del boss di Castelvetrano, latitante fino al 2023 e morto pochi mesi dopo la cattura.

Credere che sia l’arte a ispirare la realtà e non viceversa è un modo piuttosto miope di intenderla, che si tratti di un romanzo fantasy, un cartone per bambini o un lungometraggio che si basa su alcuni elementi biografici di un personaggio pubblico e controverso. Qualsiasi critica che parta da un’analisi materialista del testo deriva dal presupposto che tutto ciò che viene raccontato attinge dal reale, determinato dalle contesto storico, economico e sociale in cui viene concepito, al di là dei giudizi di valore sulla bontà o sulla cattiveria che si può intravedere in un personaggio. Ciò non significa che la scelta di raccontare la mafia non possa determinare la sua glorificazione, a livello di percezione dello spettatore o della criminalità stessa, anche quando i presupposti non sono quelli di esaltarla. Nel caso di Iddu però, più che sul tema dell’esaltazione, del racconto fedele o della manipolazione di una storia reale in cui sono coinvolte persone, vive e morte – o meglio, uccise – la sensazione è che la vicenda di Messina Denaro, reinterpretata in chiave romanzata, serva a qualcos’altro. Non è la criminalità organizzata a fare da protagonista, ma il male in sé. Il male come aporia, come elemento inestirpabile dall’umanità, sia nelle sue manifestazioni più esplicite che in quelle sommerse, inspiegabili e sotterranee, tenute nascoste da un nascondiglio e taciute dall’omertà.

La storia di Iddu, infatti, si struttura su due livelli di racconto. Da un lato abbiamo la classica contrapposizione di bene e male che avviene tra le istituzioni e la criminalità organizzata, nonché forse la parte più debole del film perché ricorda un topos già abbondantemente sfruttato nel cinema e nella televisione. L’ispettrice che ha come missione quella di catturare il boss e che si scontra non solo con l’impossibilità di farlo per la potenza della rete creata da Messina Denaro ma per gli ostacoli interni alle istituzioni stesse è un personaggio ricorrente del genere. Dall’altro, invece, ed è qui che il film diventa interessante, soprattutto nella forma in cui i registi hanno scelto di raccontare Matteo Messina Denaro e il mondo a lui circostante nella latitanza e nell’assenza, abbiamo il personaggio fittizio di Catello Palumbo, interpretato da Toni Servillo, ex sindaco del paese, appena scarcerato dopo anni di reclusione per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. 

La corrispondenza epistolare tra il boss e l’ex politico, che avviene esclusivamente attraverso i famosi pizzini che Messina Denaro usava per comunicare con l’esterno, vivendo di fatto come un recluso, non ripercorre fedelmente la vera storia di corrispondenza tra il criminale e Antonio Vaccarino, nome del sindaco di Castelvetrano che fu realmente coinvolto nella vicenda di Cosa nostra. Tuttavia, la verosimiglianza, in questo specifico tratto di Iddu è del tutto secondaria: il vero tema, a mio avviso, è infatti quello profondo e inconscio dell’ereditarietà della missione paterna, che nel caso di Matteo Messina Denaro, coincide perfettamente anche con una missione di malvagità. “Il pupo”, così come viene chiamato il boss, è il simbolo del suo rapporto con il padre ormai morto, un reperto archeologico prezioso che indica lo splendore del passato e che fa da staffetta tra le generazioni che si alternano, custodendo il messaggio che si portano di padre in figlio. Il potere, attraverso la violenza e il sacrificio anche degli innocenti – non a caso in un flashback il piccolo Messina Denaro sgozza un agnellino per suo padre – si porta avanti ad ogni costo. Ma Matteo Messina Denaro ha interrotto questo flusso, rifiutando di essere genitore a sua volta, restando per sempre figlio, o “pupo”, appunto. 

In una sorta di rivisitazione dell’Amleto, che non a caso viene citato da Catello, ciò che Iddu ci racconta è un dramma shakespeariano che si consuma tra il passato e il futuro di una famiglia che ha fondato il suo potere sul male più puro e cieco. Un male così forte da interrompere persino la continuità familiare col rifiuto di paternità da parte del boss, una scelta che lo lascia senza eredi nel suo delirio di onnipotenza. Il male, infatti, si impara, si eredita e funge da codice interpretativo della realtà, tanto da costringere alla latitanza il protagonista – in un paradosso ontologico per cui Messina Denaro esiste senza esistere – pur di non rinunciarvi. “La malvagità appartiene all’uomo”, dice la canzone di Colapesce, parte della colonna sonora del film da lui scritta: credere che il male sia qualcosa di estraneo o qualcosa che si impossessa di noi è un errore. Matteo Messina Denaro, così come raccontato da Iddu, vive emozioni umane, esattamente come noi, dal dolore per la perdita di suo padre al calore nel trovare una figura sostitutiva in Catello. Ciò non lo rende migliore, giustificabile, perdonabile, al contrario, ciò rende il male con cui ha agito ancora più forte e devastante, proprio perché non viene da un diavolo o da qualche creatura immaginaria, ma da una persona. 

Vista così, la storia di Iddu assume una prospettiva universale. Del paese in cui vivono i protagonisti, infatti, non si vede quasi nulla, il silenzio e la distanza dominano nell’atmosfera rarefatta di una Sicilia che non ha niente a che vedere con la rappresentazione cinematografica ed edulcorata di cui spesso è oggetto. Abusivismo, desolazione e ostilità sono elementi centrali del paesaggio, sia umano che geografico, e nel paese di Matteo Messina Denaro diventano la rappresentazione concreta del predominio mafioso. Le uniche tracce di bellezza, ossia i reperti storici di un antico passato di splendore, le vediamo all’interno di un museo che preserva artificialmente ciò che di buono può essere passato da un luogo che sappiamo essere Castelvetrano ma che potrebbe essere qualsiasi altra dimensione in cui a dominare sono stati la violenza, la prevaricazione e la paura. 

È giusto chiedersi se è lecito parlare di personaggi come Matteo Messina Denaro in chiave cinematografica, così come è lecito porsi questa stessa domanda per qualsiasi personaggio o fenomeno legato alla criminalità organizzata, mafia, camorra o altro che sia, che si alimenta anche grazie al racconto di sé. Se Christopher Moltisanti, personaggio di finzione, aveva intuito il potenziale meta-narrativo dell’appartenenza a un mondo parallelo fatto di leggi e valori che esulano dai doveri e dall’etica del mondo civile, anche nella realtà boss e mafiosi sono stati spesso oggetto di rappresentazioni che, oltre a raccontarli, sono diventati simboli di ritorno per le loro stesse narrazioni di potere e sopraffazione spietata. Da questo punto di vista, per quante libertà si possa prendere un film come Iddu, credo che non ci sia il rischio di alimentare nessuna mitologia, anche postuma, di un personaggio che non va assolutamente dimenticato, per dovere nei confronti della storia. “La realtà è un punto di partenza, non la destinazione”, dichiarano i registi all’inizio del film: Iddu non è un documentario né un film biografico, ma un racconto di finzione che indaga ancora più a fondo in un pozzo di malvagità tristemente vera. 

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Vivere è sempre più insostenibile e vorremmo solo fermarci, come ne “Il mio anno di riposo e oblio” https://thevision.com/cultura/anno-riposo-oblio-otessa-moshfegh/ Fri, 11 Oct 2024 14:17:57 +0000 https://thevision.com/?p=187276 Nel romanzo “Il mio anno di riposo e oblio”, di Ottessa Moshfegh, la protagonista decide di sottrarsi agli imperativi della società e alle pressioni del mondo imbottendosi di psicofarmaci per dormire. È il manifesto di una generazione che sente che in una società che ti impone di essere produttivo, di spendere e consumare, di stare al passo con i tempi, la ribellione è impedire che ciò accada, in ogni modo.

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Di fronte ai problemi della vita ci sono soltanto due opzioni: affrontarli o nascondersi. Eppure, la seconda opzione ha più sfumature di quante possiamo immaginare. L’evitamento infatti può avvenire in svariati modi: c’è chi allevia i patemi attraverso sostanze o diversivi di ogni tipo, chi ha bisogno di distrarsi svolgendo altre attività facendo finta che il problema non esista, chi tende a rimandare qualunque azione affidandosi alla procrastinazione e così via, senza limiti alla creatività. Io stesso in alcune situazioni di stress so di mettere in atto queste strategie di sopravvivenza: tutto si spegne, per un po’ non esisto, al risveglio il problema però non è scomparso, la natura da struzzo che mette la testa sotto la sabbia mi accompagna da sempre. E a quanto pare non sono l’unico. È sempre più in crescita l’uso del sonno come scappatoia quando la realtà ci risulta insostenibile. Spesso è il sintomo di disturbi come depressione o ansia: un atto di rifiuto della società che ci circonda. A tal proposito, qualche mese fa ho letto un romanzo che sembra essere il manifesto perfetto per noi struzzi:  Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, libro che mi ha scosso profondamente perché trasforma la via di fuga del sonno in una sorta di ibernazione: dormire mentre tutto il mondo va avanti, e lasciare che siano gli altri a portarsi addosso il peso della vita.

Pubblicato negli Stati Uniti nel 2018 e uscito in Italia nel 2019 – ma esploso da noi soprattutto nell’ultimo anno un po’ grazie al passaparola tra entusiasti e ipercritici, che comunque hanno suscitato curiosità rispetto a questo libro – Il mio anno di riposo e oblio parla di una giovane donna benestante, di bell’aspetto, colta e con un appartamento a Manhattan, che capisce di non riuscire più a reggere l’angoscia quotidiana, decidendo quindi di dormire. Parecchio. La descrizione della protagonista è importante per capire anche il “privilegio” di questa scelta. Essendo benestante può infatti permettersi di scappare dal mondo, anche in una società dove il capitalismo controlla anche il sonno. La vicenda è ambientata tra il 2000 e il 2001 e lei sembra una giovane Carrie Bradshaw, con scarpe costose, raffinate riflessioni sulla moda newyorkese e tutto quel sottobosco alla Sex and the city che ha influenzato parecchie donne in quel periodo – e forse ancora oggi. Il fatto di essere particolarmente bella, ricca e colta la pone in una situazione almeno teoricamente di vantaggio: la sua migliore amica per esempio è invidiosa della sua magrezza, i maschi la desiderano e i suoi studi le permettono di lavorare in una galleria d’arte contemporanea, quello che per molti apparirebbe come il lavoro dei sogni. In teoria dall’esterno tutti potrebbero vederla come una ragazza fortunata, con il mondo in mano. In realtà, però, ha perso nel giro di poco tempo il padre per una malattia e la madre per suicidio, senza riuscire a risolvere in tempo il suo rapporto con loro. Inoltre, sfata il mito dei soldi che “fanno la felicità” o della bellezza che aiuta nelle relazioni e nel lavoro: lei si considera un guscio svuotato di qualsiasi tessuto vitale, il denaro e il corpo per lei non contano nulla e vuole solo fuggire dagli altri e da se stessa.

Per farlo si affida dunque a una psichiatra abbastanza sui generis, un misto tra una dottoressa e una sciamana che non sembra aver alcun interesse per lei. Ma non le importa: a lei servono solo i farmaci per dormire. Come a parecchie persone nel mondo reale, visto che è in grandissimo aumento il fenomeno degli psicofarmaci usati dai più giovani senza prescrizione medica, quindi ottenuti tramite il mercato nero, o presi con “ricette facili” spesso consegnate da medici di base un po’ troppo superficiali. La protagonista del romanzo ne prova diversi, trova il più potente e si accorge che la stordisce a tal punto da farla crollare in uno stato quasi comatoso, per poi non ricordare più nulla al risveglio. Eppure il Terzo Millennio è l’era in cui tutto, anche il sonno, deve essere esposto.

Contatta quindi un artista della galleria d’arte per cui lavora e si mettono d’accordo per rendere quelle infinite dormite delle installazioni d’arte moderna. Lui può filmarla, modificarne l’aspetto, giocare con il suo corpo dormiente per scandalizzare il pubblico. I quindici minuti di celebrità del Novecento si sono trasformati nel secolo successivo nella ricerca della celebrità eterna, nella presenza tangibile anche nell’assenza, ovvero il vuoto del sonno. Perché “gli altri” devono sapere, e la via di fuga senza una traccia, una documentazione, è soltanto fine a se stessa. Non a caso anche nella realtà abbiamo assistito a esperimenti artistici del genere. Nel 2013 una folla di visitatori si è radunata al MoMa per guardare l’attrice Tilda Swinton dormire in una teca di vetro. La performance, ideata dall’artista Cornelia Parker, non consisteva in altro, “solo” una persona famosa addormentata e migliaia di curiosi a spiarla.

Tilda Swinton, MOMA, New York City, 2013

Così la protagonista – che non ha un nome forse proprio per spersonalizzarla ancora di più – dorme per interi giorni, al risveglio beve dei caffè con panna, guarda dei vecchi film con Whoopi Goldberg, prende altre pillole e il loop continua. Soltanto la sua migliore amica è la variabile impazzita del piano, quando si presenta a casa e durante i suoi risvegli la costringe infatti a essere viva. Eppure lei non vuole farla finita, non vuole seguire le orme della madre. Qui Moshfegh è impeccabile nel descrivere la tendenza a “lasciarsi vivere” come contrapposizione al “lasciarsi morire”. In una società che ti impone di essere produttivo, di spendere e consumare, di stare al passo con i tempi, la ribellione è impedire che ciò accada. La protagonista regala dunque vestiti di lusso all’amica, taglia la carta di credito, nasconde il telefono e si stacca dal mondo, ovvero una New York schiava dei suoi stessi vezzi e metafora della società contemporanea: il trionfo dell’apparenza, l’individualismo sfrenato, le sportellate per trovare il proprio posto a scapito del prossimo. Ho ritrovato in questi passaggi una critica al fatto che viviamo in un’epoca in cui la stessa felicità è sempre considerata come un traguardo individuale e non collettivo. Anche nel romanzo, come spesso nella nostra vita, ciascuno pensa esclusivamente a sé a costo di apparire insopportabile agli occhi degli altri, in questo caso del lettore. Ed è credibile proprio perché reale, tangibile, sono queste le dinamiche che dominano nella nostra epoca.

Personalmente non sono riuscito a dare un valore specifico all’opera dal punto di vista letterario. Nonostante sia un libro scritto bene non posso definirlo propriamente un capolavoro. Eppure mi ha turbato, ha smosso qualcosa in me che ho voluto analizzare. Alla fine sono giunto alla conclusione che la potenza del romanzo risieda nella sua miserabile sincerità (e non vedo l’ora di scoprire cosa si inventerà il regista Yorgos Lanthimos con la sua trasposizione cinematografica). Il sonno come ibernazione non è altro che la metafora di una vita insostenibile che può essere affrontata solo scomparendo, smettendo letteralmente di “esserci”. Riflettendoci cristallizza abbastanza bene l’ultimo ventennio, così come ha fatto American Psycho di Bret Easton Ellis per gli anni ‘80 o, andando ancora più indietro, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald per gli anni ‘20 del Novecento. Forse non è un caso che tutti e tre i libri parlino di personaggi ricchissimi e alla deriva, soli e disfunzionali nel contesto circostante. È la crisi perpetua dell’Occidente vista dai piani alti, dai palazzi dorati che crollano sotto il peso dei problemi che ogni epoca è costretta ad affrontare – per gli individui e per le masse. Con la differenza che la maggior parte di noi non si può permettere il sonno descritto da Moshfegh, anche quando vorrebbe. Se invece la percepiamo come una sorta di distopia il messaggio è chiaro: la vita va avanti anche senza di noi.

Quando la protagonista termina il suo anno sabbatico caratterizzato dal sonno-ibernazione, si rende conto che la sua assenza non ha modificato il mondo in alcun modo. E che no, il battito d’ali di una farfalla non provoca un uragano dall’altra parte del mondo, e noi – in quanto individui – siamo irrilevanti nell’immensità del pianeta. Moshfegh gioca sulla trasfigurazione del “tempo perduto”, che non è quello proustiano, ma un insieme di treni che non torneranno più. E i treni possono essere momenti, persone, luoghi, opportunità. Nascondersi può essere un’esigenza, ma non un rimedio. Traslando il pensiero, come non lo è il sonno non lo è nemmeno qualsiasi altra via di fuga. Se però ricorriamo sempre di più allo stordimento o all’annullamento (più o meno momentaneo) di noi stessi, è perché “lasciarci vivere” è un gesto più comodo che vivere in sé. Ci deresponsabilizza, ci culla e ci protegge. Eppure, come ci mostra il romanzo di Moshfegh, la vita vera inizia quando riapriamo gli occhi, quando ci sentiamo magari vulnerabili, sperduti, ma fuori dal letargo siamo costretti ad affrontare la realtà che ci circonda.

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Come da decenni il multi-level marketing lucra sulle difficoltà e sulla solitudine delle donne https://thevision.com/attualita/network-marketing-donne/ Thu, 10 Oct 2024 15:56:34 +0000 https://thevision.com/?p=187451 Dopo la seconda guerra mondiale, molte donne che avevano sperimentato un assaggio di indipendenza sia perché i mariti erano al fronte sia perché avevano contribuito allo sforzo bellico lavorando, furono ricacciate nella dimensione domestica. Fu proprio in questo periodo che i Tupperware party e i modelli che li copiarono trionfarono grazie ai mutevoli e spesso contraddittori ruoli sociali ed economici delle donne. Oggi, per non fallire come alcune, le aziende hanno cambiato strategia allineandosi al mito della "self-made woman", passando dai prodotti per la casa a quelli per il wellness o abbigliamento.

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Nel 1948, Earl Tupper era un imprenditore texano del settore della plastica convinto che avrebbe rivoluzionato il settore dei casalinghi grazie a un accordo col gigante petrolchimico DuPont. Vent’anni prima aveva creato un nuovo materiale, il Poly-T, e cominciato a produrre dei contenitori dalle forme barocche che imitavano le porcellane a un prezzo molto più contenuto. La sua invenzione però non riusciva a prendere piede, finché un giorno Tupper non ricevette la telefonata di una casalinga di Detroit, Brownie Wise. La donna gli raccontò di aver organizzato una festa, aver invitato tutte le sue amiche e aver usato quell’occasione per vendere con successo i contenitori. Tupper decise di dare fiducia a Wise, che fu subito assunta dalla Tupperware Plastics Company e nominata vice direttrice di una nuova branca dell’azienda, la Tupperware Home Parties Incorporated. Il design dei contenitori fu semplificato per renderli più pratici e moderni. Dieci anni dopo, grazie ai suoi party la Tupperware fatturava 10 milioni l’anno, equivalenti a 100 milioni attuali.

L’intuizione di Wise arrivò nel momento ideale. Dopo la seconda guerra mondiale, molte donne che avevano sperimentato un assaggio di indipendenza sia perché i mariti erano al fronte sia perché avevano contribuito allo sforzo bellico lavorando, furono ricacciate nella dimensione domestica. Wise stessa, dopo aver divorziato da un marito violento, durante il conflitto aveva lavorato come infermiera militare e poi come segretaria di una compagnia aeronautica. Quando a guerra conclusa cercò un impiego di tipo manageriale in un’azienda di articoli per la casa le fu risposto che il management non era un posto per donne. Anche in quell’azienda aveva già provato, ma senza successo, a proporre la formula dei party

In quel periodo, negli Stati Uniti si era imposta una nuova immagine di donna, che Betty Friedan descriverà con precisione nel suo saggio del 1963 La mistica della femminilità, considerato uno dei testi fondanti del femminismo di seconda ondata. Proprio perché queste donne spesso erano istruite e avevano conosciuto forme di libertà e autonomia, l’ideologia vittoriana dell’angelo del focolare privo di qualsiasi aspirazione se non quella di far felice il marito non era più efficace per convincerle a restare nella tranquillità casalinga. Fu necessario quindi uno sforzo propagandistico, che vide in prima linea la pubblicità e le riviste di economia domestica, per indurre le donne a rinunciare alla propria indipendenza. “Il lavoro domestico, lavare i piatti, cambiare i pannolini dovevano essere rivestiti da una nuova mistica che equivalesse a dividere il nucleo di un atomo, esplorare lo spazio, creare arte che illuminasse il destino dell’uomo, far avanzare le frontiere della società”, scrive Friedan.

I Tupperware party, durante i quali una rappresentante vende i prodotti alle sue amiche trattenendo per sé una commissione, “trionfarono grazie ai mutevoli e spesso contraddittori ruoli sociali ed economici delle donne e del consumismo alla fine del ventesimo secolo”, osserva la storica del design Alison J. Clarke nel suo libro Tupperware: The Promise of Plastic in 1950s America. Le feste permettevano alle casalinghe di lavorare senza mettere piede fuori dalle mura di casa, presentando un prodotto affine ai loro interessi. In quel momento storico, diventare una venditrice del marchio poteva essere un’opportunità di autonomia economica, di realizzazione professionale, nonché di relazione con altre donne in comunità che spesso le vedevano segregate. “La cultura aziendale della Tupperware offriva un’alternativa alla struttura patriarcale delle vendite tradizionali che molte donne, del tutto alienate dal mondo del lavoro convenzionale, abbracciarono con entusiasmo”, scrive Clarke. Sin da subito, i Tupperware party si configurarono come un’attività essenzialmente femminile: solo il 5% dei venditori era uomo.

Dopo il successo dei contenitori di plastica, molte altre aziende replicarono il modello di quello che presto sarebbe diventato noto come direct marketing o multi level marketing, un business dove il profitto dell’azienda arriva dallo sfruttamento del lavoro non salariato di venditori che percepiscono soltanto delle commissioni: come Amway, fondata nel 1959, Avon, nata a fine Ottocento ma che cominciò ad avere un successo straordinario proprio dagli anni Cinquanta, Herbalife o Nature’s Sunshine. Tutte queste compagnie contavano e tuttora contano sulla presenza delle donne, sia come lavoratrici che come consumatrici: nel 2022, le donne erano il 75% dei venditori diretti.

Proprio perché il profitto dell’azienda deriva dalla quantità di rappresentanti che riesce a reclutare, e che spesso devono corrispondere un investimento iniziale per cominciare l’attività, le campagne del MLM si rivolgono non tanto al consumatore finale che comprerà il prodotto, quanto più al potenziale lavoratore. Sin dalle sue origini, il MLM ha investito sulla promessa di libertà femminile e ammiccato a messaggi femministi: una pubblicità della Tupperware degli anni Sessanta recitava: “Tupperware, la miglior cosa successa alle donne da quando hanno ottenuto il voto”. L’immagine mostrava una pila di contenitori appoggiata su una cassetta elettorale e contornata dal nastro tipico delle suffragiste. 

Altre aziende, come Amway, presentavano l’attività di rappresentante come un modo per guadagnare soldi senza violare la moralità del matrimonio cristiano, che prevede che siano solo i mariti a provvedere per la famiglia. La strategia di Amway è stata associata al Prosperity Gospel (Il Vangelo della prosperità), un’interpretazione delle sacre scritture diffusa in diverse confessioni evangeliche americane secondo cui la ricchezza non è immorale, ma anzi sarebbe un comandamento divino. La fondazione della famiglia DeVos, ideatrice e proprietaria di Amway, è ancora oggi una delle più influenti realtà conservatrici cristiane degli Stati Uniti, nonché tra i principali donatori del partito repubblicano. Una delle eredi, Betsy DeVos, è stata anche la segretaria dell’Istruzione dell’amministrazione Trump.

Negli anni Ottanta, periodo d’oro del MLM, il messaggio cambiò ancora una volta. In un contesto in cui sempre più donne entravano nel mercato del lavoro riuscendo a ottenere ruoli manageriali o dirigenziali, l’appeal della devota casalinga che mette qualcosa da parte per aiutare la famiglia divertendosi non funzionava più. Si impose così una tendenza retorica che continua ancora oggi e che ha permesso a un modello di business disfunzionale e spesso considerato illegale di continuare a prosperare, ovvero la spinta sull’ideologia neoliberale del self-made man o, meglio, della self-made woman. Il MLM venne risignificato come una attività imprenditoriale finalmente accessibile anche alle donne, capace di corrispondere ai loro interessi e consumi abituali e di consentire loro l’acquisizione di prestigio e riconoscimento sociale nella propria comunità. Le più fedeli accolite dei MLM millantano infatti tuttora, soprattutto sui social, guadagni stellari che consentono uno stile di vita molto agiato, anche se solo l’1% di chi si unisce a questi business riesce a raggiungere il livello necessario per guadagnare effettivamente qualcosa. E meno dell’1% ottiene un profitto paragonabile a uno stipendio. 

Le aziende che nel corso degli ultimi trent’anni hanno adottato questa strategia non a caso sono quelle che vendono prodotti diversi da quelli che hanno dato inizio al settore del MLM (cosmetici e articoli per la casa), come per esempio prodotti wellness o abbigliamento, capaci di veicolare un’immagine di femminilità diversa da quella tradizionale. L’enorme successo di queste aziende si è intrecciato con la cultura dell’empowerment e del femminismo aziendale, che vede il successo individuale e professionale come l’unico veicolo per la liberazione femminile. Emblematico è stato il caso di LuLaRoe, raccontato anche nella docuserie Amazon Studios del 2021 LuLaRich, un MLM di leggings che assunse i contorni di una setta quasi religiosa, caratterizzato da un marketing aggressivo verso le “Momtrepreneurs” (crasi di “mamme” e “imprenditrici”) a suon di #girlboss, #girlbabe e #girlpower. Ancora oggi lo slogan di LuLaRoe, che nel frattempo ha patteggiato un risarcimento di quasi cinque milioni di dollari nell’ambito di una class action che ha riconosciuto l’azienda come uno schema piramidale, è “creare libertà attraverso la moda”.

Ciò che sostiene Clarke a proposito della Tupperware degli anni Cinquanta, è valido ancora oggi: il MLM rappresenta un’alternativa all’organizzazione patriarcale del lavoro convenzionale, dove non si incontrano le tradizionali barriere di genere che si potrebbero trovare altrove, almeno in teoria. Nel MLM non esiste il “soffitto di cristallo”, perché il guadagno è commisurato all’impegno investito nell’attività; non esistono le molestie sul lavoro, perché si tratta di ambienti frequentati in prevalenza da altre donne; non esiste il problema della conciliazione tra carriera e famiglia, perché il lavoro si svolge prevalentemente da casa. Ma questi apparenti punti di forza sono anche il motivo per cui le aziende che praticano questo modello di business lucrano sulle difficoltà e sulla solitudine delle donne, finendo col rafforzare gli schemi patriarcali che affermano di voler distruggere.

I MLM, infatti, non sono un’opportunità di guadagno per le donne, ma anzi secondo il Pyramid Scheme Alert, un’organizzazione di consumatori che cerca di contrastare il fenomeno, il 99% di chi entra in un MLM perde soldi. La rappresentante guadagna in media 14 dollari a settimana, a cui vanno sottratti i soldi dell’investimento iniziale, delle tasse e di altre spese. Promettendo alle donne di poter lavorare comodamente da casa continuando a prendersi cura della famiglia come se non avessero un lavoro, i MLM da un lato capitalizzano su uno dei principali ostacoli all’occupazione femminile, dall’altro rinforzano in maniera indiretta l’idea che per una donna l’unico modo di avere una carriera soddisfacente sia non rinunciare al lavoro di cura. 

Il 18 settembre scorso, la Tupperware ha dichiarato bancarotta. Il mercato è invaso da prodotti simili ma più convenienti, la plastica è un materiale sempre meno apprezzato per ragioni ambientaliste e, come ha detto un manager dell’azienda, “oggi tutti sanno cos’è un Tupperware ma pochi sanno dove trovarlo”. Questo non significa, però, che il modello dei MLM sia in declino, anzi: nel 2022 il settore valeva 40,5 miliardi di dollari negli Stati Uniti ed è cresciuto di più di dieci miliardi in dieci anni, coinvolgendo più di 5 milioni di donne. Di queste, solo 50mila non stanno perdendo denaro.

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“Monte di pietà” ci getta nel girone infernale di consumismo e rimorso alla base della nostra società https://thevision.com/cultura/monte-pieta-venezia-fondazione-prada/ Wed, 09 Oct 2024 13:28:33 +0000 https://thevision.com/?p=187779 L'articolo “Monte di pietà” ci getta nel girone infernale di consumismo e rimorso alla base della nostra società proviene da THE VISION.

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La nostra è ormai una civiltà in debito. È il debito che oggi più che mai scandisce le nostre giornate e caratterizza la nostra esistenza, a partire dalla consapevolezza sotterranea che stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, esaurendo le risorse del pianeta necessarie alla nostra stessa sussistenza. È proprio su questo tensore che si sviluppa la mostra “Monte di Pietà”, l’ultimo progetto ideato dall’artista svizzero Christoph Büchel negli spazi di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada, e visitabile fino al 24 novembre 2024.

“Debito”, da debitus, participio passato di “debere”, essere obbligato, dovere. Ciò che è dovuto, necessario, conveniente, obbligazione a restituire. Questa parola apre dunque il campo a una relazione molto intima, segnata dalla colpa, dalla dipendenza e dall’insufficienza, o dalla mancanza. Ma il debito è legato anche a un altro concetto fondamentale per noi esseri umani, con cui siamo costretti a fare costantemente i conti e che a volte finiamo per trasformare in una malattia: il tempo. Tempo e denaro quindi aleggiano tra le cataste di oggetti che Büchel ha raccolto in questa enorme installazione immersiva – e qui l’aggettivo non è usato per gusto di retorica, la mostra davvero ci fagocita, creando una realtà alternativa, strappandoci a quella rete di significati, coordinate e abitudini in cui siamo immersi nel nostro quotidiano e che culla la nostra identità. A partire dalla storia stratificata del palazzo settecentesco che la ospita, sede del Monte di Pietà di Venezia dal 1834 al 1969 e dal 2011 spazio permanente della Fondazione, Büchel ha costruito un vero e proprio mondo nel mondo.

I Monti di Pietà, istituiti nella seconda metà del Quattrocento, erano i diretti predecessori di quelle che poi sono diventate le moderne istituzioni creditizie. Ma nella visione medievale, la povertà – a differenza di oggi – era considerata la condizione più vicina alla vita spirituale, il famoso non-attaccamento. Sul più vasto piano sociale questa visione teologica si traduceva in una relazione tra le poche famiglie benestanti e i gruppi che vivevano nell’indigenza, fondata sul cardine della carità. Il superfluo era peccato, e andava devoluto, anche come forma di scambio simbolico, karmico potremmo dire. Fu così che alcuni membri dell’Ordine Francescano, nella seconda metà del secolo, iniziarono la redazione giuridica di una struttura economica che avrebbe trasformato la condizione dei poveri, spiega la filosofa Elettra Stimilli. Alla base di questa istituzione c’era però una differenziazione morale – o moralista – tranchant, quella tra la “povertà volontaria” e la “povertà involontaria”. I poveri volontari, quelli che in Asia vengono chiamati rinuncianti, potevano ottenere dei prestiti, mentre i poveri involontari, coloro che venivano considerati incapaci di gestire adeguatamente la loro vita, venivano considerati come dei peccatori. La grande, grandissima massa dei poveri, veniva quindi valutata, selezionata e organizzata in base a un complesso sistema di nozioni legate all’affidabilità – cosa che continuiamo a fare ancora oggi. La fede, dunque, all’interno dell’umana congrega prendeva le forme della lealtà e della fiducia, fondamento del meccanismo politico di inclusione ed esclusione sostenuto dal mercato, continua sempre Stimilli.

È chiaro che questa visione poggia su dei bias cognitivi enormi, proprio come la meritocrazia, eppure funziona, perché include ed esclude, e soprattutto premia e punisce. Ancora oggi, e la visione capitalista e neoliberista non ha fatto altro che esacerbarlo, siamo portati a incolpare i poveri involontari come causa della loro stessa sventura. Anche la carità insomma va meritata, e di pietas ce n’è davvero poca. Nella mostra le fratture di questa visione emergono con tutto il loro portato angoscioso, sollevato dall’attentissima composizione realizzata dall’artista, in una mastodontica rete di rimandi semantici, tra oggetti, forme, libri, quadri, archivi, messaggi, insegne, post-it, monitor, schermi, gioielli, armi, giocattoli, elettrodomestici e mobilio di vario genere. Come se stessimo passeggiando nel nostro stesso inconscio occidentale, cercando di non perderci, di trovare degli indizi per orientarci, per trovare un barlume di consolazione, di salvezza, per paura di doverci confrontare con la nostra orrenda immagine riflessa nello specchio, con tutte le ingiustizie che abbiamo commesso, con tutta la crudeltà che più o meno direttamente abbiamo contribuito a perpetrare.

A questo primo livello di lettura, infatti, mano a mano che ci si addentra negli spazi della mostra se ne aggiunge un altro, enorme e fondamentale, particolarmente esplorato dal filosofo e sociologo Michel Foucault, ed è quello del legame tra le fondamenta teoriche di una società, come il linguaggio o la nozione di archivio, e le loro conseguenze pratiche sugli individui e le istituzioni. Ogni forma di sapere, infatti, contiene una dimensione politica che si struttura in una forma di potere, e quindi di una relazione impari. E l’arte non ne è immune, anzi. Büchel non la risparmia e non si risparmia, mostrandone le contraddizioni dall’interno, il circo dell’esibizionismo, dell’ego, e per contro dell’immensa solitudine che si porta con sé. Ci costringe a scendere – anche se in realtà si sale – in questo girone infernale del consumismo e del rimosso su cui poggia la nostra società contemporanea, sul trauma. Si aprono così parentesi sul mondo dell’intrattenimento e dei social, sull’esibizionismo, così come sulla moda e sul teatro, con sprazzi che ricordano una distopia tecnologica o alcuni aforismi di Andy Warhol. Ci troviamo di fronte alla voragine lasciata dalla messa in scena, dal trucco, dal costume, all’angoscia generata dall’assenza dello spettatore, perché semplicemente non raccogliamo la responsabilità di essere testimoni di noi stessi.

Il senso della nostra esistenza si svuota se non c’è qualcuno che ci osserva, che ci segue, che ci mette un cuore. Come cantavano i Kinks nel 1968: “People take pictures of the Summer, / Just in case someone thought they had missed it, / And to proved that it really existed”. Solo che questo continuo produrre prove ci toglie tempo, spazio, e ossigeno, questo accumulo di Storia, e di storie, il peso schiacciante di un’eredità che non vogliamo prenderci la briga di interrogare, per paura delle risposte che potrebbe darci. Da qui l’angoscia, l’inquietudine. Oggi più che mai cerchiamo di scorgere chi siamo dagli occhi degli altri, dalle loro impressioni, dai loro giudizi, in una società che dunque non si conosce, ed è costantemente provata dal dolore del disincontro, perché per non disperderci dobbiamo essere noi stessi a riconoscere ciò che siamo, non possiamo lasciare che ce lo dica qualcun altro, perché l’Altro, oggi più che mai, non è semplicemente in grado di farlo. Non possiamo lasciargli questo potere, capace di distruggerci.

Districandosi in questo labirinto di vecchi oggetti accatastati e dimenticati, oggetti che un tempo potevano essere stati preziosi per qualcuno e che oggi sono semplicemente robaccia, anche i diamanti, mi è tornata in mente la pièce del drammaturgo austriaco Ödön von Horváth, che non a caso si intitola proprio “Fede, Speranza, Carità”. Mi pare che Büchel, come von Horváth, danzi nel Kitsch, lasci dare sfogo al nostro sfatto, mostruoso e inesauribile inconscio collettivo, fatto di tutti gli oggetti che ci lasciamo dietro nel corso della nostra esistenza, scorie dei nostri fantasmi, dei nostri non-detti, delle nostre immagini sapientemente costruite e abortite. Nella mostra si alternano sentimenti contrastanti, da una feroce nostalgia, al disgusto per il disfacimento e la marcescenza, la sporcizia, passando per la colpa, l’ipocrisia disvelata, il rancore, la disillusione, il desiderio, la paura della morte, delle mutilazioni, il terrore che ci venga sottratto ciò che abbiamo, o di trovarci in una condizione di indigenza, nudi, perché spogliati dai nostri averi, dal nostro status, inermi.

Büchel raccoglie valori e riti collettivi della borghesia per mostrare l’orrore che ne sta alla base, e la sua struttura persecutoria e abusante. Ci sbatte in faccia la nostra volgarità, la nostra ottusità, la nostra grettezza, e per qualche misterioso valzer di forze emerge anche tutto ciò che abbiamo di meglio, lontano, brillante come una pietra preziosa persa in una discarica. D’altronde lo stesso Horváth diceva: “Nulla quanto la stupidità dà il senso dell’infinito”.

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Le nuove generazioni continuano a lottare per il domani ma vengono lasciate costantemente da sole https://thevision.com/attualita/proteste-giovani/ Tue, 08 Oct 2024 15:10:23 +0000 https://thevision.com/?p=187269 Gli unici che manifestano per i bisogni collettivi e non privati sembrano essere i giovani, gli stessi che vengono accusati di essere immobili e di non fare abbastanza per cambiare le sorti del pianeta, mentre gli adulti sono sempre più chiusi in loro stessi. Il motivo sta nell’individualismo che prende sempre più piede nella società e che ci fa credere che certe vicende non ci riguardino.

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Nel 1972, Giorgio Gaber cantava “Libertà è partecipazione”. Oggi invece le lotte per la libertà sono sempre più parziali o faziose. Fasce sociali, gruppi, professioni, minoranze, è giusto che ciascuno combatta per le proprie istanze, ed è normale che ciascuno di essi abbia le proprie ragioni. Tutt’ora scendono in piazza in Italia migliaia e migliaia di persone tutto l’anno. Le poche eccezioni che non riguardano interessi di parte e che coinvolgono una fetta più ampia della popolazione sembrano essere quelle a sostegno di alcuni popoli oppressi, come quello palestinese. Qui la partecipazione è quasi trasversale, può scendere in piazza uno studente come un insegnante, un impiegato come un libero professionista, e non ci sono differenze di genere, di orientamento sessuale, di religione. Politiche sì, perché gran parte della destra non sostiene certe battaglie – né quella pro Palestina né quelle per i diritti civili. Spesso ci sono anche contaminazioni, e dunque anche per il 25 aprile, l’1 maggio o il 2 giugno è comune trovare bandiere palestinesi svolazzanti o cortei organizzati per perorare quella causa. Ed è sentitamente commovente questo impeto di solidarietà e sostegno, vien da pensare che ci siano ancora speranze per questo pianeta. Salvo poi accorgersi che sui temi che si affacciano sul futuro la situazione cambia. Secondo un’indagine dell’Unione Europea, circa il 75% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è preoccupato per i cambiamenti climatici. Percentuale che scende al 53% per gli over 25 e che si abbassa progressivamente più si va avanti con l’età. Credo che il motivo sia l’individualismo che prende sempre più piede nella società: a un settantenne interesserà meno rispetto a un ventenne ciò che avverrà nel nostro pianeta nel 2050, anche perché probabilmente lui non ci sarà e la vicenda “non lo riguarda”.

Gli unici che manifestano per i bisogni collettivi e non privati sembrano essere i giovani. Sì, gli stessi che vengono accusati di essere immobili e di non fare abbastanza per cambiare le sorti del pianeta. Enrico Mentana, durante un evento a Cortina, un paio d’anni fa ha dichiarato: “Se i giovani fossero come una volta, sarebbero in piazza a protestare”. Ma in realtà i giovani sono i principali protagonisti delle manifestazioni a favore dell’ambiente, facendo un lavoro di sensibilizzazione che “gli ex giovani”, quelli che hanno vissuto il ’68, fingono di non ascoltare. È vero, in piazza con loro possono esserci anche persone più mature, ma il motore è costituito dalle nuove generazioni. Pensandoci bene l’argomento che dovrebbe riguardare tutti è proprio la salvaguardia del pianeta, ovvero un bene collettivo e non individuale, uno sbocco su un futuro che al momento sembra più che instabile. Eppure, i giovani attivisti per l’ambiente vengono considerati persino da molti politici, soprattutto di destra, degli invasati, dei ciarlatani e sono costretti a subire oltre a tutto il resto anche il negazionismo di chi ha costruito un mondo non a misura dei propri figli. “Figli” che manifestano anche contro il ministro dell’Istruzione, contro le politiche che alimentano la precarietà, contro le multinazionali che inquinano. Poi però prendono manganellate dalla polizia e i rimbrotti del Mentana di turno. Le manifestazioni che invece sono orchestrate esclusivamente dagli adulti riguardano solo il proprio tornaconto. Diverse categorie sono scese in piazza negli ultimi anni per far sentire la propria voce: balneari, tassisti, agricoltori e via dicendo. Tutti con una giustificazione più che valida, ma alle battaglie personali non aggiungono quelle collettive e sembra esserci un disinteresse comune rispetto a una visione strutturata del futuro. Un tassista vuole la sua licenza oggi, così come un balneare la sua concessione. I giovani lottano per il domani e vengono lasciati costantemente da soli.

In Italia più che la partecipazione oggi sembra che il principale – se non unico – collante della popolazione sia il lamento, e non ci sarebbe nulla di male, anche quello può essere un carburante per il cambiamento, il problema è che più che nelle piazze è stato dirottato su altri lidi. Su tutti la rete. Di fronte alla malapolitica, alla crisi economica o alla cementificazione del lato peggiore del capitalismo – sebbene faccia fatica a trovarne uno migliore – sembra che la soluzione ai giorni nostri sia un “armatevi e partite” scritto sul web. I social sono un contenitore di proteste e indignazione, ma poi di fatto resta il compiacimento dopo aver scritto la propria disamina sociale in un post, come se fosse un appagamento e bastasse per sentirsi in pace avendo fatto il proprio dovere di cittadino. Eppure, ciò che nasce su internet spesso muore lì. Un like non è una partecipazione in piazza, uno sfogo su Facebook non è un gesto civico tangibile. Magari ci giustifichiamo dicendo che il sistema stesso su cui si reggono le democrazie occidentali è oggi in declino, ci indigniamo per l’astensionismo senza analizzarne le cause, pensiamo agli scossoni e ai tumulti sociali del passato con ammirazione, ma non sapremmo neanche da che parte cominciare per uguagliarli. Anche perché prendere manganellate non è un’esperienza simpatica e noi trentenni siamo cresciuti con il trauma del G8 di Genova in mente.

Un tempo le persone riuscivano a dar vita a “masse” capaci di amplificare la voce dei singoli in un unico grido. Adesso c’è una maggior frammentazione perché molte categorie si sentono abbandonate da quelli che erano i riferimenti politici e ideologici. Per esempio, uno dei più grandi cambiamenti rispetto al Novecento è la trasformazione del mondo operaio. È vero, anche oggi abbiamo ancora scioperi, manifestazioni davanti ai cancelli delle fabbriche, ma la lotta operaia ha perso i tratti di quella proletaria, i sindacati si sono notevolmente indeboliti – oltre al fatto che in alcuni ambiti praticamente non esistono – e il capitalismo ha anestetizzato qualsiasi parvenza di lotta di classe. È in atto un isolamento. Un tempo, invece, gli operai si univano agli studenti, alle minoranze e agli intellettuali per trasformare una protesta in un movimento, poiché c’erano istanze comuni e una coesione sociale tenuta in piedi soprattutto dalla speranza – o dalla chimera – delle ideologie. Oggi è un tentativo riconducibile al femminismo intersezionale, ma forse come società non siamo ancora pronti per una trasversalità portata avanti da movimenti che le persone temono semplicemente perché non li conoscono a fondo.

A prescindere dalla sua eredità, il ‘68 è stato anche questo: l’unione tra proletariato e piccola borghesia per tentare di ribaltare i poteri dominanti e le ideologie asfissianti all’epoca, soprattutto con il traino dei gruppi giovanili. Da un lato è servito, è stato un momento di unione reale, un fermento anche culturale che ha influenzato il pensiero di massa negli anni successivi. Non ha prodotto però il rovesciamento auspicato, e con gli anni molti dei sessantottini si sono trasformati in ciò che un tempo contestavano. In poche parole: si sono imborghesiti, nonostante la borghesia fosse già all’epoca un motore trainante della protesta, soprattutto nel mondo degli intellettuali. Pasolini fu tra i pochi intellettuali italiani a prevedere questo scenario. Proprio nel ‘68 disse: “Ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti e adesso devo cominciare a odiare anche i loro figli, dato che i loro compagni di vita moltiplicheranno per mille il moralismo dei loro padri”. Gli studenti che nel 1968 erano alle superiori o all’università e che hanno partecipato ai movimenti dell’epoca, oggi hanno circa settant’anni e sono complici di aver tarpato le ali alle generazioni future. Qualcuno si chiedeva con quali soldi si potessero mettere in atto certe politiche. La risposta è semplice: con quelli che adesso sono debiti che gravano sulle generazioni successive. Per ogni baby pensionato e per ogni spesa sconsiderata di quel periodo c’è un’Elsa Fornero che ha dovuto mettere una toppa facendo patire lacrime e sangue a chi è venuto dopo. La conseguenza è che i figli guadagnano meno dei padri, non hanno la loro stabilità professionale ed economica, e per giunta vengono accusati di non ribellarsi abbastanza.

Storicamente, però, sono sempre stati i giovani – o i poveri – a dare vita a proteste e rivoluzioni, tentando di uccidere metaforicamente – e un tempo non solo – i loro “padri”. Se questo oggi sta avvenendo in sordina è anche – ma non solo, altrimenti anche questo mia riflessione appare come un tentativo di assoluzione generazionale – perché i padri non lo permettono, fanno scudo dietro i loro privilegi e non lasciano spazio a chi fisiologicamente dovrebbe prendere il loro posto. Il benzinaio scende in piazza per proteggere la propria categoria, non per garantire un futuro migliore ai suoi figli. E come lui tutti gli altri. Il punto è che le varie categorie guardano il dito e non la luna, la contingenza e non l’orizzonte, anche perché crollando le ideologie sono venuti meno i collanti che tenevano insieme diversi pezzi della società, ormai abbandonati a se stessi. I tassisti scendono in piazza per una licenza senza accorgersi che senza un cambio radicale della politica e della società resterà tutto immutato. Poi, magari, le proteste sortiscono i loro effetti, vengono rinnovati o riformulati i contratti di diverse categorie, si trovano compromessi mettendo qualche pezza temporanea. Avranno un contentino all’interno di un sistema che non teme i tassisti – e anzi come lobby li favorisce – ma lo studente che protesta per l’ambiente o contro una riforma scolastica.

Nel 2024 sembra che le più grandi divergenze siano più che di classe sociale di generazione. Agire per tutti per agire anche per se stessi, invece di arroccarsi nel proprio fortino e scindere la protesta di massa in infinite molecole individuali, significa anche e soprattutto ascoltare le istanze dei più giovani. So che ridurre tutto al discorso del capitalismo può apparire banale, ma di fatto anche ciò di cui stiamo parlando è una sua conseguenza, ovvero la disgregazione della massa in quanto insieme di individui collegati tra loro e la generazione di teste isolate, ecosistemi spesso polarizzati, gruppi che si allontanano invece di convergere. Eppure tutto è collegato: i popoli oppressi, gli stipendi troppo bassi, le differenze salariali, le discriminazioni, la distruzione dell’ambiente, le tasse, il welfare, la parità. Se ognuno protesta per il proprio giardino forse riceverà dopo anni di lamenti un fiore in mezzo a un recinto di fango. Fiore che appassirà, tra giardini separati. Il mezzo di controllo del potere è proprio quello di tenere la massa disunita: divide et impera. E la divisione è prettamente generazionale. Se si spegne sul nascere l’impeto giovanile resiste l’ancien régime, e della partecipazione di gaberiana memoria non resta che l’eco di una canzone destinata a risuonare nei meandri dell’utopia.

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