Uno dei primi ricordi che ho di partecipazione collettiva – prima di allora non ricordo le bandiere a strisce colorate che oggi sono comuni in ogni città – sono le manifestazioni di protesta che accompagnarono lo scoppio della seconda guerra del Golfo. I vaghi ricordi di bambina che alla parola “guerra” temeva per la propria tranquilla quotidianità, e che aveva scarsa consapevolezza delle distanze geografiche – gli Stati Uniti sembravano più vicini dei Balcani – sono segnati dalle manifestazioni della società civile a cui persino la mia scuola elementare aderiva. Gli insegnanti si trovarono a spiegare, in qualche modo, il significato di “guerra” e di “pace”, raccontandoci quello che l’articolo 11 della Costituzione dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Un significato tanto esplicito per un bambino quanto, in realtà, sfumato per un adulto dotato di un minimo di consapevolezza di come funzioni la politica. Ancora oggi, a distanza di 25 anni, ci professiamo orgogliosi della “Costituzione più bella del mondo”, fingendo di non sapere che le parole spesso rimangono solo parole, anche se le stampi in bella copia e persino se ci fai giurare i neoministri.
Le parole poi possono sempre essere cambiate o cancellate, anche quelle di una legge, come la L.185/90 recante le norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, che, tra le altre cose, impone al governo una certa trasparenza in merito a volumi, destinatari e giro d’affari legato alle esportazioni di armi. O almeno lo faceva fino a ora, dato che di recente il Senato ne ha approvato una proposta di modifica, avanzata dal governo Meloni, attualmente in discussione alla Camera, che se dovesse passare ridurrebbe pericolosamente la trasparenza sul tema, rendendo molto più difficile per i cittadini avere un’idea dei reali valori dell’export di armi e, quindi, del coinvolgimento del Paese nelle guerre di tutto il mondo. Potremo sempre continuare a illuderci che l’Italia ripudi la guerra, un rassicurante ritornello che nasconde il fatto che proprio l’Italia è tra i Paesi che hanno registrato la crescita maggiore nelle esportazioni di armi negli ultimi anni, con un aumento dell’86% tra il 2019 e il 2023, salendo al sesto posto mondiale, in controtendenza rispetto agli altri Paesi della top ten degli esportatori, che, nonostante i numeri elevati, hanno visto nel corso degli anni una riduzione. Lo rilevano i dati pubblicati lo scorso marzo dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), basati su un indicatore chiamato trend-indicator value, che si calcola sui costi di produzione dei singoli armamenti.
A completare il quadro è proprio la Relazione annuale relativa al 2023 sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo di esportazioni, importazioni e transito dei materiali di armamento e presentata in Parlamento a fine marzo, come previsto dalla L.185/90 che attribuisce alle Camere un ruolo di controllo e indirizzo su un tema tanto delicato e controverso. A suo tempo, la legge rappresentò un tassello fondamentale, sostituendo la normativa rimasta in vigore fino a quel momento, cioè quella promulgata col Regio Decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941, firmato da Benito Mussolini e Galeazzo Ciano, che sottoponeva tutto il tema delle esportazioni di armi al segreto di Stato. La nuova legge concretizzò quindi anche una presa di posizione importante rispetto alla partecipazione, più o meno indiretta, dello Stato nei conflitti e al diritto della società civile di esserne informata e, quindi, di decidere di conseguenza al momento del voto.
Ebbene, dall’ultima relazione emerge che nel 2023 il valore complessivo delle licenze rilasciate per il trasferimento di materiali bellici è stato di 7,56 miliardi di euro, di cui 6,31 miliardi sono riferiti alle esportazioni e 1,25 miliardi alle importazioni (escluse le movimentazioni intra-comunitarie UE/SEE). Rispetto all’anno prima, le autorizzazioni individuali di esportazione (cioè quelle rilasciate verso singoli Paesi per sistemi d’arma specifici) sono aumentate di oltre il 24%, per un totale di 4,76 miliardi di euro. Le cifre evidenziano, quindi, una crescita continua della capacità di export dell’industria militare italiana, anche se lontana dai record del periodo 2015-2017, segnato dall’esportazione massiccia di sistemi d’arma aerei e navali verso i Paesi del Golfo Persico. Su questo ci sarebbe parecchio da discutere in merito anche alla trasparenza dei governi dei Paesi destinatari, tra cui Qatar, Pakistan, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, e del modo in cui usano quelle armi – a rigor di logica e di articolo 11, dovrebbero farlo solo per difesa –, soprattutto perché è la stessa L.185/90 a sottolineare che le concessioni delle licenze per la produzione di armi devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e rispettare i principi della Costituzione.
Quanto a questi ultimi anni, invece, dalla relazione emerge che, se tra i destinatari delle armi italiane – tra cui ben 14 Stati hanno registrato oltre 100 milioni di euro totali in licenze – compare ovviamente l’Ucraina – fino al 2020 praticamente inesistente nell’elenco –, la situazione rispetto a un altro drammatico quadrante dei conflitti in atto è più ambigua; mentre il governo spagnolo guidato da Pedro Sanchez di recente ha negato lo scalo nel porto di Cartagena a una nave che trasportava armi dirette a Israele, l’Italia si fa meno scrupoli. Non solo, infatti, negli anni scorsi le esportazioni di materiale bellico verso Israele sono cresciute costantemente, ma continuano ancora oggi, nonostante ufficialmente le caratteristiche dell’azione israeliana su Gaza avrebbero spinto la Autorità nazionale – UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) a sospendere la concessione di nuove autorizzazioni in merito; i dati smentiscono questa presa di posizione: dalle rilevazioni Istat, infatti, risulta che nel solo mese di dicembre 2023 – quindi a bombardamenti sulla Striscia già iniziati – l’export italiano ha raggiunto un totale di 1,3 milioni di euro, come confermato dalle Dogane.
Se già così ci sono aspetti poco chiari – per usare un eufemismo – possiamo solo immaginare cosa succederebbe nel caso in cui la proposta di modifica della L.185/90 dovesse passare anche alla Camera, erodendo ulteriormente la trasparenza su questo commercio e riducendo il tipo e la quantità di dati che l’esecutivo deve trasmettere al Parlamento. Secondo Osservatorio Diritti, infatti, il disegno di legge, che ufficialmente dovrebbe rendere la norma “più rispondente alle sfide derivanti dall’evoluzione del contesto internazionale” – qualsiasi cosa significhi – di fatto vuole evitare il ripetersi di quanto successo nel 2021, quando UAMA e ministero degli Esteri, su richiesta del Parlamento, dovettero imporre il divieto e revocare le licenze di esportazione di bombe e missili verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per il loro coinvolgimento nella guerra in Yemen. Oggi, infatti, la proposta di modifica del governo punta a ripristinare il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (CISD), già previsto in origine dalla legge, ma poi abolito; verrebbe ora reintrodotto per “assicurare un coordinamento adeguato”: nel concreto, per porre il veto ai divieti alle esportazioni di armi che il ministero degli Esteri può decidere; il CISD avrà, infatti, 15 giorni di tempo per esaminare le proposte di divieto avanzate dal ministero, tempo in cui potrà revocare ogni proposta – che, invece, una volta trascorsi i 15 giorni si intende accolta – senza che nessuno, nemmeno il Parlamento, ne sappia nulla.
Inoltre, mentre oggi la relazione al Parlamento deve contenere dati analitici riguardo alle operazioni contrattuali – indicando l’avanzamento annuale sulle esportazioni, importazioni e transiti di materiali di armamento e sulle autorizzazioni in merito – la norma che risulterebbe dalle modifiche conterrebbe molti meno dati, perché, secondo il governo, le informazioni analitiche inficiano sulla piena fruibilità e intelligibilità della relazione; cioè: ci sono troppi dati, si fa fatica a leggere. Meglio semplificare, quindi, nascondendoli ed evitando di comunicarli, sia mai che i parlamentari si stanchino troppo. E così si accontenta il comparto militare-industriale riducendo la trasparenza e l’informazione sulle sue attività, per permettergli di arricchirsi indisturbato.
Tra le altre cose che potrebbero sparire dalla L.185/90, inoltre, ci sarebbero alcune informazioni sul coinvolgimento delle banche nelle guerre; se oggi, infatti, in risposta alle richieste dei correntisti, molti dei maggiori gruppi bancari italiani hanno adottato direttive che limitano o escludono l’offerta di servizi bancari alle esportazioni di armamenti, ora, grazie a un emendamento presentato all’ultimo minuto, la relazione annuale al Parlamento potrebbe non dover più contenere il capitolo sull’attività degli istituti di credito rispetto al commercio di armi verso l’estero, in particolare verso Paesi autoritari o coinvolti in conflitti armati. Considerando che proprio la scelta della banca è – con il voto e i propri acquisti – uno dei modi con cui, da cittadini, possiamo concretamente sostenere o contrastare guerre e crisi climatica, l’ipotesi non è per niente confortante. Rischiamo, infatti, di non avere più accesso a tutte quelle informazioni che oggi permettono a osservatori indipendenti, ricercatori, analisti, associazioni e cittadini di monitorare gli affari delle industrie del settore e il coinvolgimento dello Stato, di denunciare le esportazioni a Paesi aggressori e regimi autoritari e di pretendere risposte dal governo. Così, mentre la Costituzione ci dice che l’Italia ripudia la guerra, continueremo a sostenerla materialmente, sapendone sempre meno.