“Monte di pietà” ci getta nel girone infernale di consumismo e rimorso alla base della nostra società - THE VISION
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La nostra è ormai una civiltà in debito. È il debito che oggi più che mai scandisce le nostre giornate e caratterizza la nostra esistenza, a partire dalla consapevolezza sotterranea che stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, esaurendo le risorse del pianeta necessarie alla nostra stessa sussistenza. È proprio su questo tensore che si sviluppa la mostra “Monte di Pietà”, l’ultimo progetto ideato dall’artista svizzero Christoph Büchel negli spazi di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada, e visitabile fino al 24 novembre 2024.

“Debito”, da debitus, participio passato di “debere”, essere obbligato, dovere. Ciò che è dovuto, necessario, conveniente, obbligazione a restituire. Questa parola apre dunque il campo a una relazione molto intima, segnata dalla colpa, dalla dipendenza e dall’insufficienza, o dalla mancanza. Ma il debito è legato anche a un altro concetto fondamentale per noi esseri umani, con cui siamo costretti a fare costantemente i conti e che a volte finiamo per trasformare in una malattia: il tempo. Tempo e denaro quindi aleggiano tra le cataste di oggetti che Büchel ha raccolto in questa enorme installazione immersiva – e qui l’aggettivo non è usato per gusto di retorica, la mostra davvero ci fagocita, creando una realtà alternativa, strappandoci a quella rete di significati, coordinate e abitudini in cui siamo immersi nel nostro quotidiano e che culla la nostra identità. A partire dalla storia stratificata del palazzo settecentesco che la ospita, sede del Monte di Pietà di Venezia dal 1834 al 1969 e dal 2011 spazio permanente della Fondazione, Büchel ha costruito un vero e proprio mondo nel mondo.

I Monti di Pietà, istituiti nella seconda metà del Quattrocento, erano i diretti predecessori di quelle che poi sono diventate le moderne istituzioni creditizie. Ma nella visione medievale, la povertà – a differenza di oggi – era considerata la condizione più vicina alla vita spirituale, il famoso non-attaccamento. Sul più vasto piano sociale questa visione teologica si traduceva in una relazione tra le poche famiglie benestanti e i gruppi che vivevano nell’indigenza, fondata sul cardine della carità. Il superfluo era peccato, e andava devoluto, anche come forma di scambio simbolico, karmico potremmo dire. Fu così che alcuni membri dell’Ordine Francescano, nella seconda metà del secolo, iniziarono la redazione giuridica di una struttura economica che avrebbe trasformato la condizione dei poveri, spiega la filosofa Elettra Stimilli. Alla base di questa istituzione c’era però una differenziazione morale – o moralista – tranchant, quella tra la “povertà volontaria” e la “povertà involontaria”. I poveri volontari, quelli che in Asia vengono chiamati rinuncianti, potevano ottenere dei prestiti, mentre i poveri involontari, coloro che venivano considerati incapaci di gestire adeguatamente la loro vita, venivano considerati come dei peccatori. La grande, grandissima massa dei poveri, veniva quindi valutata, selezionata e organizzata in base a un complesso sistema di nozioni legate all’affidabilità – cosa che continuiamo a fare ancora oggi. La fede, dunque, all’interno dell’umana congrega prendeva le forme della lealtà e della fiducia, fondamento del meccanismo politico di inclusione ed esclusione sostenuto dal mercato, continua sempre Stimilli.

È chiaro che questa visione poggia su dei bias cognitivi enormi, proprio come la meritocrazia, eppure funziona, perché include ed esclude, e soprattutto premia e punisce. Ancora oggi, e la visione capitalista e neoliberista non ha fatto altro che esacerbarlo, siamo portati a incolpare i poveri involontari come causa della loro stessa sventura. Anche la carità insomma va meritata, e di pietas ce n’è davvero poca. Nella mostra le fratture di questa visione emergono con tutto il loro portato angoscioso, sollevato dall’attentissima composizione realizzata dall’artista, in una mastodontica rete di rimandi semantici, tra oggetti, forme, libri, quadri, archivi, messaggi, insegne, post-it, monitor, schermi, gioielli, armi, giocattoli, elettrodomestici e mobilio di vario genere. Come se stessimo passeggiando nel nostro stesso inconscio occidentale, cercando di non perderci, di trovare degli indizi per orientarci, per trovare un barlume di consolazione, di salvezza, per paura di doverci confrontare con la nostra orrenda immagine riflessa nello specchio, con tutte le ingiustizie che abbiamo commesso, con tutta la crudeltà che più o meno direttamente abbiamo contribuito a perpetrare.

A questo primo livello di lettura, infatti, mano a mano che ci si addentra negli spazi della mostra se ne aggiunge un altro, enorme e fondamentale, particolarmente esplorato dal filosofo e sociologo Michel Foucault, ed è quello del legame tra le fondamenta teoriche di una società, come il linguaggio o la nozione di archivio, e le loro conseguenze pratiche sugli individui e le istituzioni. Ogni forma di sapere, infatti, contiene una dimensione politica che si struttura in una forma di potere, e quindi di una relazione impari. E l’arte non ne è immune, anzi. Büchel non la risparmia e non si risparmia, mostrandone le contraddizioni dall’interno, il circo dell’esibizionismo, dell’ego, e per contro dell’immensa solitudine che si porta con sé. Ci costringe a scendere – anche se in realtà si sale – in questo girone infernale del consumismo e del rimosso su cui poggia la nostra società contemporanea, sul trauma. Si aprono così parentesi sul mondo dell’intrattenimento e dei social, sull’esibizionismo, così come sulla moda e sul teatro, con sprazzi che ricordano una distopia tecnologica o alcuni aforismi di Andy Warhol. Ci troviamo di fronte alla voragine lasciata dalla messa in scena, dal trucco, dal costume, all’angoscia generata dall’assenza dello spettatore, perché semplicemente non raccogliamo la responsabilità di essere testimoni di noi stessi.

Il senso della nostra esistenza si svuota se non c’è qualcuno che ci osserva, che ci segue, che ci mette un cuore. Come cantavano i Kinks nel 1968: “People take pictures of the Summer, / Just in case someone thought they had missed it, / And to proved that it really existed”. Solo che questo continuo produrre prove ci toglie tempo, spazio, e ossigeno, questo accumulo di Storia, e di storie, il peso schiacciante di un’eredità che non vogliamo prenderci la briga di interrogare, per paura delle risposte che potrebbe darci. Da qui l’angoscia, l’inquietudine. Oggi più che mai cerchiamo di scorgere chi siamo dagli occhi degli altri, dalle loro impressioni, dai loro giudizi, in una società che dunque non si conosce, ed è costantemente provata dal dolore del disincontro, perché per non disperderci dobbiamo essere noi stessi a riconoscere ciò che siamo, non possiamo lasciare che ce lo dica qualcun altro, perché l’Altro, oggi più che mai, non è semplicemente in grado di farlo. Non possiamo lasciargli questo potere, capace di distruggerci.

Districandosi in questo labirinto di vecchi oggetti accatastati e dimenticati, oggetti che un tempo potevano essere stati preziosi per qualcuno e che oggi sono semplicemente robaccia, anche i diamanti, mi è tornata in mente la pièce del drammaturgo austriaco Ödön von Horváth, che non a caso si intitola proprio “Fede, Speranza, Carità”. Mi pare che Büchel, come von Horváth, danzi nel Kitsch, lasci dare sfogo al nostro sfatto, mostruoso e inesauribile inconscio collettivo, fatto di tutti gli oggetti che ci lasciamo dietro nel corso della nostra esistenza, scorie dei nostri fantasmi, dei nostri non-detti, delle nostre immagini sapientemente costruite e abortite. Nella mostra si alternano sentimenti contrastanti, da una feroce nostalgia, al disgusto per il disfacimento e la marcescenza, la sporcizia, passando per la colpa, l’ipocrisia disvelata, il rancore, la disillusione, il desiderio, la paura della morte, delle mutilazioni, il terrore che ci venga sottratto ciò che abbiamo, o di trovarci in una condizione di indigenza, nudi, perché spogliati dai nostri averi, dal nostro status, inermi.

Büchel raccoglie valori e riti collettivi della borghesia per mostrare l’orrore che ne sta alla base, e la sua struttura persecutoria e abusante. Ci sbatte in faccia la nostra volgarità, la nostra ottusità, la nostra grettezza, e per qualche misterioso valzer di forze emerge anche tutto ciò che abbiamo di meglio, lontano, brillante come una pietra preziosa persa in una discarica. D’altronde lo stesso Horváth diceva: “Nulla quanto la stupidità dà il senso dell’infinito”.

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