In tempo per l’inizio dell’anno scolastico, il 6 settembre è entrata in vigore la riforma 4+2 dell’istruzione tecnica professionale, che introduce un percorso di quattro anni di scuola superiore seguiti da due anni di ITS Academy – scuole di alta specializzazione di ambito tecnico e tecnologico – integrati da esperienze a contatto con le aziende. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di facilitare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro, dando spazio ai programmi di alternanza scuola-lavoro e didattica laboratoriale, con la presenza in aula di esperti provenienti dalle aziende. La riforma, però, cela alcuni aspetti preoccupanti, come una collaborazione sempre più stretta tra scuola ed esercito.
Le riforme dell’istruzione continuano a ignorare il fatto che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sia carente – ed è un eufemismo – l’educazione sessuale e all’affettività, nonostante a ricordarci la sua urgenza ci pensino ogni giorno gli episodi di violenza di genere; i suicidi tra i ragazzi, espressione di una fragilità che andrebbe affrontata dando loro gli strumenti per identificarle e comunicarla; e le preoccupanti percentuali di giovani che sembrano non comprendere il concetto di consenso. Eppure, mentre ci fregiamo di essere tra i pochi Paesi europei a non avere l’educazione sessuale obbligatoria e mentre assistiamo a episodi che sarebbero comici se non ci fossero di mezzo i diritti delle persone – dalla mozione contro la “propaganda gender” nelle scuole alle accuse mosse al progetto Erasmus – in compenso lasciamo che negli istituti scolastici entrino i militari con il loro immaginario bellico.
La riforma introduce un percorso che permetterà l’accesso diretto agli ITS oppure all’università, dato che il diploma quadriennale così ottenuto sarà riconosciuto nel mondo del lavoro come equivalente a un diploma quinquennale. Ma dietro ai buoni propositi di favorire l’accesso a una professione, c’è il rischio di una scuola sempre più improntata all’utilitarismo, volta a produrre manodopera obbediente e formata senza grossi costi per le aziende, più che a dare agli studenti – trattati come braccia da introdurre il prima possibile nel mondo del lavoro – gli strumenti per diventare cittadini consapevoli a tutto tondo. Le parole stesse del ministero, non a caso, si riferiscono al nuovo percorso di studi come a una “filiera tecnologico-professionale”. Ma il lessico usato appartiene anche a un altro campo semantico: quello militare, con termini come “addestramento”: un’eco sinistra soprattutto in tempi in cui si evoca il ritorno della leva obbligatoria.
L’ombra inquietante del militarismo nella nuova legge promossa dal ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara è denunciata dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che accusa in particolare i percorsi di alternanza scuola-lavoro, le uscite didattiche e i progetti che coinvolgono le forze dell’ordine presenti nella nuova istruzione tecnica professionale. Alessandra Alberti, docente e parte dell’Osservatorio, sottolinea che gli ambienti della formazione sono “terreno di conquista di un’ideologia bellicista e di controllo securitario”. Spesso le forze dell’ordine sono invitate nelle scuole a trattare di fenomeni come bullismo e abuso di droghe, affrontati per lo più attraverso la lente del controllo, instillando la paura e trascurando del tutto altri aspetti, che invece potrebbero fornire importanti spunti di riflessione per gli adolescenti, come i temi della prevenzione – quella vera, che non è sinonimo di repressione – e del fenomeno sul piano psicologico e sociale.
La presenza di militari e polizia nelle scuole, a dire il vero, non è nuova: già dieci anni fa l’alberghiero “Giovanni Falcone” di Giarre, in provincia di Catania, stipulò un patto di cooperazione coi militari della US Navy della stazione aeronavale di Sigonella e da allora la scuola organizza attività come pranzi di ringraziamento con i marine rientrati dalle missioni di guerra, fino a una gara di tiro al bersaglio con raggi laser a cui le classi quinte hanno preso parte nel 2022; queste attività, spacciate come occasioni di crescita psicofisica dei ragazzi, sembrano piuttosto voler instillare un’immagine positiva dell’ambiente militare e veicolare, così, dei messaggi. E più si comincia da piccoli, più questi messaggi avranno la possibilità di radicarsi nelle giovani menti: una scuola dell’infanzia paritaria in provincia di Varese, per esempio, alcuni mesi fa ha organizzato un’uscita alla base militare di Solbiate Olona, dove i bambini si sono vestiti da militari e hanno familiarizzato con elmetti e strumenti da guerra.
Il fenomeno non riguarda, in realtà, solo la scuola, ma anche altre iniziative dedicate ai giovani, come il festival Giovani Adulti, sostenuto dalla Regione Piemonte, nel cui programma si segnalano interventi con titoli evocativi come “La guerra spiegata ai ragazzi” e “Il corpo della nazione” tenuti da relatori come Renato Daretti, Presidente dell’Associazione Nazionale Incursori dell’esercito, e i giornalisti Maurizio Belpietro – distintosi per i tweet a favore delle opinioni del generale Vannacci – e Gian Micalessin, formatosi nel Fronte della Gioventù. Se la militarizzazione del mondo giovanile, sostenuta dalle istituzioni, è un fenomeno trasversale, è tanto più grave nella scuola, proprio perché è il luogo del laicismo e del contrasto alle ideologie. O almeno dovrebbe esserlo. E da sempre i regimi cercano di portare in classe i propri valori per manipolare le menti quanto sono più plasmabili e crescere dei cittadini obbedienti, piuttosto che cittadini pensanti: questi, d’altronde, potrebbero essere scomodi. Non a caso durante il Ventennio a scuola si insegnavano anche istruzioni militari.
Forse da qualche parte del ministero si spera di risolvere così problemi come disoccupazione giovanile e dispersione scolastica, che in Italia tocca l’11,5% dei giovani tra 18 e 24 anni con grandi disparità tra Nord e Sud togliendo opportunità ai ragazzi, rafforzando ancora di più le disuguaglianze socio-economiche, e regalando manodopera alla criminalità. Non a caso, in effetti, gli studenti dell’Istituto Stradivari di Cremona ritenuti a rischio di “dispersione scolastica o con bisogni educativi speciali” sono stati scelti per partecipare a una visita istruttiva a bordo della Nave Italia della Marina Militare, all’interno di un progetto incentrato sull’espressione dell’identità della donna attraverso l’arte, che avrebbe potuto svolgersi in tanti altri contesti più adatti.
D’altronde le scuole possono essere una fonte interessante per gli eserciti. Negli Stati Uniti, per esempio, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle del 2001, i reclutatori militari hanno cominciato a frequentare sempre più spesso le scuole per reclutare studenti, in particolare provenienti da famiglie a basso reddito, e soprattutto in istituti con percentuali più alte di studenti appartenenti alle minoranze etniche; in più, ad attrarre giovani nell’esercito c’è anche la legge che consente a chi serve nell’esercito di accelerare il processo di naturalizzazione americana, per sé e per la propria famiglia. L’esercito, quindi, in questi casi è un allettante (e pericoloso) modo per garantirsi i diritti della cittadinanza e la sicurezza economica, anche perché è uno degli unici settori in cui negli ultimi anni gli stipendi sono aumentati, risultando, quindi, l’ultimo bastione della mobilità sociale.
Ma l’ombra di esercito e polizia sulle scuole ha riflessi se possibile ancora più inquietanti: basti pensare ai Paesi che ormai sono democrazie solo sulla carta, come Bielorussia e Russia, dove il governo cresce i futuri combattenti nella guerra in Ucraina, già dai 6-7 anni, attraverso “campi militari patriottici” destinati innanzitutto ai bambini più vulnerabili e marginalizzati: più di 18mila nell’estate 2022 in Bielorussia. In questi campi i piccoli vengono addestrati all’uso delle armi, oltre a seguire lezioni di storia dell’esercito e tecniche di combattimento. Ma anche nel cuore dell’Europa da qualche anno esistono campi militari per adolescenti: succede in Ungheria, per esempio, dove sono tornati in auge sotto il governo di Viktor Orbán, con l’obiettivo di sviluppare il patriottismo nei giovani, attratti dal senso di stabilità, comunità e appartenenza che la vita militare promette.
Si tratta di scenari estremi, ma i piccoli passi di militarizzazione che stanno avvenendo anche da noi non possono essere ignorati. E sono in linea con il più generale e in apparenza innocuo inquadramento gerarchico degli studenti, sottoposti a un controllo maggiore – dall’introduzione del registro elettronico, con notifiche immediate alle famiglie, in poi – che finisce per deresponsabilizzarli. Eppure è il contrario di quello che la scuola dovrebbe fare, cioè crescere individui autonomi, consapevoli, capaci di pensare con la propria testa grazie al pensiero critico sviluppato con libri, dibattiti e riflessioni, e promotori della democrazia e dei valori portati avanti dalla Costituzione che ci vantiamo essere “la più bella del mondo”; a partire dall’articolo 11, che ci ricorda che l’Italia ripudia la guerra. Invece, la presenza – non nuova, ma sempre più frequente da qualche anno a questa parte – di militari e forze dell’ordine nelle scuole, sembra motivata dalla volontà di indottrinare i bambini presentando loro come positivi i valori della guerra, che, dietro la retorica della difesa della patria e della comunità, sono quelli della violenza. Obbedienza e passività sono più utili ai regimi: osservando lo stato di salute delle nostre scuole, allora, c’è da preoccuparsi per quello della nostra democrazia.