Uno dei dibattiti che ricorre maggiormente ormai da anni riguarda l’uso del termine “fascista” e la sua legittimità. In un’epoca in cui abbiamo visto il rafforzarsi del sovranismo in Europa e il dilagare di partiti che sostengono ideologie xenofobe, discriminatorie, omobitransfobiche, maschiliste e, in generale, escludenti di tutto ciò che è diverso o subalterno a chi detiene diritti e poteri, l’etichetta di fascisti è stata più volte rispolverata, nonostante ad alcuni apparisse ormai inservibile per spiegare i fenomeni del presente. Non è necessaria una marcia su Roma, un regime autoritario, una legge che legittimi in maniera eclatante la censura o un’altra che mandi al confino o in galera chi non è conforme ai valori di un determinato gruppo per rintracciare nei nostri giorni chiare avvisaglie di recuperi (e rigurgiti) fascisti di maggiore o minore entità. Si tratta, ad esempio, del rafforzarsi di una mentalità primitivista e retrograda che esprime odio per tutto ciò che è estraneo alle “radici” e catalogabile come debole. Si tratta anche di semplificazione e alterazione malintenzionata della realtà e dei dati a suo sostegno. Il fascismo è l’espressione della prevaricazione dei più forti a scapito dei più deboli. E se è questo che intendiamo per fascismo, allora non c’è dubbio che esso non si sia spento nel 1945 con la fine della seconda guerra mondiale e con la morte di Benito Mussolini. Il veleno fascista ha continuato a intossicarci, facendosi talvolta più evidente e mortifero, talaltra più subdolo e nascosto. Di fatto, la storia della repubblica italiana è anche la storia di una contrattazione ambigua con le forze neofasciste o postfasciste che hanno continuato a esistere, crescere e alimentarsi nel nostro Paese fino a oggi. Allo stato attuale, infatti, ci sono precisi movimenti e partiti politici che si richiamano esplicitamente all’adunata di cento anni fa e ce ne sono altri che, pur non facendone esplicito richiamo, di certo simpatizzano con l’ideologia fascista e si guardano bene dal proclamarsi antifascisti, come invece richiederebbe la nostra costituzione. Ma per capire come siamo giunti, un secolo esatto dall’ascesa del fascismo storico, a temere l’elezione di un partito che chiaramente aspira a un ritorno quantomeno ideale ad alcuni tratti del ventennio, è bene ricostruire storicamente i fatti che, a partire dal 1945, hanno determinato la storia del nostro Paese.
Dopo la caduta del regime fascista e la morte di Benito Mussolini, il Paese si trovava dilaniato dai conflitti e la violenza che avevano caratterizzato la guerra di liberazione. Il governo della neonata Repubblica italiana doveva quindi porsi il problema di come comportarsi nei riguardi di chi aveva collaborato a vario titolo con il regime, specialmente ad alti livelli e con incarichi di responsabilità. L’epurazione era un’operazione difficile da condurre con equità non solo perché vent’anni di regime fascista avevano fagocitato gran parte dell’intellighenzia italiana nei ranghi del regime stesso, ma anche perché, se il fine era la pacificazione politica e sociale, operazioni di epurazione sommaria e violenta avrebbero riacceso e alimentato i conflitti. Gli alti gerarchi fascisti vennero processati e imprigionati e in alcuni casi giustiziati, ma il 21 giugno del 1946 per tutti gli altri scattò l’amnistia presentata dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti, che giustificò il provvedimento di clemenza auspicando un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale”.
Il provvedimento fu controverso e provocò proteste da parte delle associazioni partigiane. Alcune frange più radicali, indignate per le scarcerazioni, perseguirono azioni violente e linciaggi contro i collaborazionisti amnistiati, specie i responsabili di gravi delitti. L’amnistia Togliatti, in ogni caso, portò a un’onda lunga di indulti e scarcerazioni significative nei numeri, tanto che si stima che i fascisti in carcere alla metà degli anni Cinquanta fossero poche decine.
Da un punto di vista ideologico e politico, nel clima post-liberazione, la destra si poteva ancora dire forte, soprattutto nel Mezzogiorno, e tendeva a diventarlo sempre più con l’accentuarsi delle insofferenze nei confronti del nuovo ordine politico. I militanti di destra andarono in parte a ingrossare le file della Democrazia Cristiana e del Partito liberale italiano, ma i fascisti più convinti confluirono nel Movimento Sociale Italiano (Msi), fondato nel novembre 1946 da Giorgio Almirante, Cesco Giulio Beghino, Giorgio Bacchi e altri veterani della Repubblica Sociale Italiana. Le elezioni dell’aprile 1948 videro la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana guidata dal moderato De Gasperi, forte dell’appoggio di due potenti alleati: la Chiesa e gli Stati Uniti. Per la vittoria della Dc furono infatti decisive le prospettive di progresso e benessere associate nell’immaginario collettivo a un legame con gli Stati Uniti, oltre che il desiderio di ordine e il timore di uno spostamento radicale dell’assetto governativo verso sinistra.
Con le elezioni del ‘48 gli italiani non scelsero solo il partito che avrebbe governato il Paese nel duro periodo della ricostruzione, ma si espressero anche a favore di un preciso sistema economico e di una collocazione internazionale. Votare un partito filoamericano significava certamente sperare di poter godere dei vantaggi materiali che sarebbero dovuti venire dal piano Marshall, ovvero il programma politico-economico statunitense per la ricostruzione dell’Europa. Ma significava, altrettanto certamente, accettare la subordinazione alle direttive politiche americane, schierarsi militarmente in difesa degli Stati Uniti quando questi lo avessero richiesto e contribuire al confinamento del comunismo sovietico e all’ostilità di ogni apertura a sinistra dell’assetto politico. Significava in poche parole essere alleati – deboli e subalterni – di una superpotenza che stava in quegli anni dando vita al fenomeno del Maccartismo, ovvero la caccia alle streghe anticomunista che prende il nome dal senatore conservatore Joseph McCarthy, presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le attività “antiamericane”.
Nei Paesi dell’Europa occidentale, in special modo tra i firmatari del Patto Atlantico e fondatori della NATO, tra cui l’Italia, le tensioni della guerra fredda ebbero l’effetto di bloccare, o quanto meno di rallentare, la spinta riformatrice che si era manifestata già nell’ultima fase del conflitto mondiale e nei primissimi anni del dopoguerra, favorita dalla partecipazione dei partiti di sinistra alle coalizioni di governo. L’ossessione anticomunista ebbe nel secondo Novecento effetti disastrosi, non solo perché significò spesso conservatorismo e osteggiamento delle riforme per la giustizia sociale, ma anche perché portò, seppur ambiguamente, a tollerare quando non addirittura ad alimentare le forze dell’estrema destra eversiva in ottica contenitiva nei riguardi della sinistra.
Le prime avvisaglie di questa tendenza si manifestarono presto. Nel 1948, un militante di estrema destra sparò al segretario comunista Palmiro Togliatti, ferendolo gravemente mentre usciva da Montecitorio. Alla notizia dell’attentato in tutte le principali città d’Italia operai e militanti antifascisti scesero in piazza, scontrandosi con le forze dell’ordine. Le tensioni nel Paese risultarono ulteriormente esasperate e si rafforzò, nella compagine governativa democristiana, la tendenza a una gestione autoritaria dell’ordine pubblico.
Seguirono anni di governo centrista e politiche di stampo liberista, guidate dal ministro del Bilancio Luigi Einaudi. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, i mutamenti suscitati dal miracolo economico si accompagnarono a un allargamento delle basi del sistema politico che fece entrare i socialisti nell’area di governo. Ma dopo le elezioni del 1958 l’apertura a sinistra venne fortemente ostacolata dalla destra economica, dal Vaticano e dagli ambienti diplomatici statunitensi.
Nel 1960, il democristiano Fernando Tambroni, non riuscendo a trovare un accordo con repubblicani e socialdemocratici, che volevano accelerare l’apertura a sinistra, formò un governo con l’appoggio determinante dei voti dei neofascisti del Movimento sociale italiano, a cui peraltro concesse l’autorizzazione per tenere un congresso nazionale a Genova, nonostante l’opposizione delle forze democratiche e antifasciste cittadine. La decisione venne interpretata dall’opinione pubblica come il prezzo pagato dal Presidente democristiano per l’appoggio parlamentare e ciò suscitò un’importante rivolta popolare: per tre giorni operai e militanti antifascisti si scontrarono con le forze dell’ordine che difendevano lo svolgimento del congresso dei neofascisti missini. La repressione fu dura e provocò decine di morti per mano della polizia. Il suo portato simbolico fu enorme: non solo venivano duramente represse legittime proteste antifasciste, ma veniva convalidata l’idea per cui il governo democristiano simpatizzava con i neofascisti e ne prendeva le difese. E questo non fu di certo l’unico connubio tra Democrazia Cristiana e Msi. I due partiti furono vicini anche in materia di diritti civili: nel 1974 la nuova legge sul divorzio fu sottoposta a un referendum abrogativo per iniziativa dei gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi e nel 1981 lo stesso accadde con la legge sull’aborto.
Ancora più problematico, perché più ambiguo, fosco e apparentemente insospettabile, è il legame di alcune componenti del governo, dei servizi segreti italiani e statunitensi con l’estrema destra eversiva negli anni Settanta, durante gli anni di piombo. Il periodo più tormentato della nostra storia repubblicana è stato definito dalla “strategia della tensione” e comprende l’arco temporale che va dalla strage di Piazza Fontana, nel 1969, alla strage di Bologna dell’agosto 1980. Questa espressione venne usata per la prima volta da un giornalista britannico del settimanale The Observer, per riferirsi a una strategia politico-militare degli Stati Uniti, spalleggiata dal regime dittatoriale fascista dei colonnelli greci volta a orientare alcuni governi democratici dell’area mediterranea, tra cui quello italiano, attraverso una serie di atti terroristici eversivi, allo scopo di favorire l’instaurazione di regimi e dittature militari e di scongiurare la “minaccia comunista”. La strategia della tensione sarebbe stata volta ad alzare il livello dello scontro sociale tra le forze extra-parlamentari, con l’obiettivo di imporre una svolta reazionaria, in un momento particolarmente delicato, in quanto le forze di sinistra e di estrema sinistra all’indomani del Sessantotto avevano rafforzato il loro peso politico nella società italiana. “Un gruppo di estrema destra e di ufficiali sta tramando in Italia un colpo di stato militare”, scriveva il giornalista inglese Leslie Finer. Un elemento caratterizzante del terrorismo di destra, alimentato dal governo statunitense, fu proprio il ricorso ad attentati in luoghi pubblici che provocarono stragi indiscriminate, contro civili innocenti, con lo scopo di diffondere il panico nel Paese utilizzando la tecnica del “False Flag”, ovvero eseguendo stragi congegnate in modo tale da apparire come eseguite da membri di gruppi dell’estrema sinistra o degli anarchici.
Effettivamente, il 12 dicembre 1969, a Milano, nella sede di Piazza Fontana della banca dell’agricoltura, una bomba esplose causando 17 morti e 88 feriti. L’attentato terroristico venne inizialmente attribuito agli ambienti anarchici e, durante le indagini su quella che verrà definita la “madre di tutte le stragi”, l’anarchico Giuseppe Pinelli perse la vita in circostanze mai chiarite. Secondo le versioni confuse e contraddittorie dei poliziotti che lo stavano interrogando da giorni, Pinelli si sarebbe gettato dalla finestra. Le lunghe indagini sulla bomba di Piazza Fontana, però, avrebbero in seguito rivelato che la strage fu compiuta da terroristi dell’estrema destra, molto probabilmente legati a settori deviati dei servizi segreti con la complicità della CIA. Un anno dopo, la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, il fondatore del movimento neofascista Fronte Nazionale, Junio Valerio Borghese, tentò poi un colpo di stato in collaborazione con Avanguardia Nazionale. Il golpe fu annullato dallo stesso Borghese per motivi tuttora ignoti, ma gli attentanti neri erano solo all’inizio.
Nel 1974 ci fu l’attentato dinamitardo sul treno Italicus, dove persero la vita 12 persone e ci furono 48 feriti. Anche questo fu un attentato messo in atto dagli ambienti neofascisti e di estrema destra con l’intento di destabilizzare il Paese e favorire un intervento militare. Pur concludendosi con l’assoluzione generale di tutti gli imputati, venne riconosciuta la responsabilità degli ambienti neofascisti di Ordine Nuovo con legami con la loggia P2 di Licio Gelli, organizzazione massonica infiltrata nelle principali istituzioni dello Stato con finalità politiche anticomuniste e sovversive.
Fu inoltre intercettato Carlo Rocchi, fiduciario della Cia per il nord Italia, con Biagio Pitarresi, ex estremista milanese. Nelle intercettazioni, effettuate nel 1994, in relazione alle indagini del capitano Giraudo, i due alludono alla Cia e a influenze dei servizi segreti statunitensi. Influenze che ebbero molto probabilmente un ruolo fondamentale anche nella strage di Piazza della Loggia di Brescia (17 morti), anche questa legata agli ambienti di Ordine Nuovo con il coinvolgimento dei servizi segreti italiani e apparati di stato. L’ipotesi è nata da alcune inquietanti circostanze come, per esempio, l’ordine impartito dal vicequestore Aniello Damare poche ore dopo la strage perché una squadra di vigili del fuoco ripulisse in fretta il luogo dell’esplosione, facendo così sparire indizi fondamentali. Scomparirono in fretta anche reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei morti.
L’ultima delle grandi stragi neofasciste degli anni di piombo avvenne nel 1980, alla stazione ferroviaria di Bologna, dove morirono 85 persone e 200 rimasero ferite. Gli esecutori materiali individuati dalla magistratura furono dei componenti dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari), organizzazione terrorista di estrema destra. Anche per questo attentato, però, numerosi e gravissimi furono i tentativi di depistaggio da parte di un settore deviato dei servizi segreti all’epoca, diretto da Giuseppe Santovito, iscritto alla P2.
Il bilancio degli anni di piombo, per quanto difficile da compiere a causa dei depistaggi e delle omissioni, mostra che la destabilizzazione dell’ordine caratterizzata da attentati dinamitardi e tentativi di colpi di stato di matrice neofascista fu resa possibile dalla connivenza dei servizi segreti italiani, dalle forze armate, da alcuni elementi in seno alla compagine di governo e dal ruolo rivestito dalle basi Nato in Italia e dalla Cia, che poté muoversi sul nostro territorio in maniera indisturbata come fosse dentro a un effettivo protettorato statunitense. “Dal 1969 al 1975 si contano 4.584 attentati, l’83 percento dei quali di chiara impronta della destra eversiva (cui si addebitano ben 113 morti, di cui 50 vittime delle stragi e 351 feriti), la protezione dei servizi segreti verso i movimenti eversivi appare sempre più plateale”: questo è ciò che stabilì l’ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Savona, nel decreto di archiviazione relativo a un’indagine su alcune bombe esplose in città tra il 1974 ed il 1975. Molti anni dopo, da alcuni documenti pubblicati su Wikileaks, hackerati dai server del governo statunitense tra il 2010 e il 2013, sono emerse comunicazioni diplomatiche inviate dall’ambasciata di Roma al Dipartimento di stato di Washington DC durante l’ultima fase del segretariato di Henry Kissinger (1973-1976). Da queste fonti emerge l’insofferenza dei diplomatici americani per la repressione dei progetti eversivi dell’estrema destra neofascista da parte della magistratura italiana, che viene accusata di favorire la svolta a sinistra del Paese. Si legge inoltre la richiesta fatta al governo italiano di impedire la penetrazione dei comunisti nelle istituzioni.
Il 14 giugno 1974, un anno prima di essere assassinato, Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera un articolo in cui denunciava un’intera classe politica e affermava di conoscere i nomi dei mandanti delle stragi di Milano e di Brescia che avevano in quegli anni insanguinato il Paese. “Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ‘ignoti’ autori materiali delle stragi più recenti. […] Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68”. La voce di Pasolini venne zittita, così come venne zittita o ignorata quella di chi chiedeva giustizia e verità.
Gli anni Settanta furono segnati anche da diversi disordini dal Nord al Sud della penisola. Dal 1970 al 1971, durante i moti di Reggio – una sommossa popolare avvenuta a seguito della dichiarazione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro, che finì con 6 morti, 54 feriti e migliaia di arresti – fu il Movimento Sociale Italiano, soprattutto nella seconda fase, ad assumere un ruolo di spicco, tanto che venne rilanciato il motto “Boia chi molla!” di dannunziana memoria. A Milano, invece, Piazza San Babila – ormai semplice luogo del centro della città – divenne il fortino dell’estrema destra milanese. L’estrazione sociale dei neofascisti, che dalla loro roccaforte progettano attacchi violenti e linciaggi con modalità squadrista, era perlopiù borghese, con una forte componente della “Milano bene”, anche se non mancavano i proletari. Anche dal punto di vista ideologico i sanbabilini erano un gruppo eterogeneo: sotto l’etichetta generica di “estrema destra”, infatti, coesistono posizioni distanti, quando non contraddittorie. Ciò che permetteva a un coacervo di individui con uno spettro ideologico tanto ampio di non implodere e mantenersi unito in un solo fronte era il comune ripudio del bolscevismo e il ricorso sistematico alla violenza come modus operandi, cose che ritornano ancora oggi.
Nel corso del decennio successivo, tornato apparentemente l’ordine, l’Italia si abbandonò all’edonismo degli anni Ottanta con un senso di amarezza e di rifiuto nei riguardi della politica e delle sue tensioni. Ma la fiamma fascista, seppur traballante, non si spense. Nel 1995, dopo lo scioglimento del MSI, fu fondato il Movimento sociale-Fiamma tricolore e Gioventù della fiamma, l’organizzazione studentesca e per i giovani del movimento. Al 1998 risale invece la nascita di Forza Nuova, veicolo dell’ideologia neofascista tra le giovani generazioni. Nel triennio 2005-2008 si consolida il progetto di CasaPound Italia, primo centro sociale di ispirazione fascista poi costituitosi in partito politico. Nei primi anni Duemila, a livello sociale, si registrò anche la forte repressione del dissenso durante il G8 di Genova, con quella che venne definita “una macelleria messicana”. Il sentimento di legittimazione con cui le forze dell’ordine sfogarono una rabbia e un fascismo dei modi nei confronti dei manifestanti all’interno della scuola Diaz, portò solo 7 delle 93 persone presenti a uscire dall’edificio indenni. Molti si svegliarono sotto le manganellate, altri vennero umiliati, ingiuriati, costretti a inginocchiarsi in corridoio in modo che fosse più facile colpirli, altri ancora vennero lasciati esangui a terra e poi colpiti, per puro sfregio, con la schiuma degli estintori sulle ferite aperte. Furono poi rinchiusi nelle celle, costretti a rimanere in piedi attaccati al muro, con le braccia alzate e le gambe divaricate. Chi non riusciva a sostenere la posizione veniva schiaffeggiato, insultato, picchiato, umiliato con sputi e spruzzi di spray al pepe. I testimoni ricordano di essere stati costretti a fare il saluto romano, raccontano di aver sentito cori fascisti intonati dagli agenti come “1,2,3, viva Pinochet, 4,5,6, a morte gli ebrei, 7,8,9, il negretto non commuove”.
Per quanto riguarda poi Fratelli d’Italia e la sua attuale leader, è bene ricordarne le origini: Giorgia Meloni fonda il partito nel 2014 insieme ad Ignazio La Russa e Guido Crosetto, ma la carriera politica di Meloni inizia molto prima, quando a quindici anni aderisce al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, erede diretta del fascismo mussoliniano. Meloni non è disposta a dichiararsi antifascista, come pure richiederebbe la nostra costituzione e continui sono gli ammiccamenti del suo partito alle frange più estreme della destra italiana ed europea. “Io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana”, è il ritornello di Meloni, diventato virale e molto parodiato. Eppure, nel 2011 Franco Berardi Bifo nel suo libro La sollevazione scriveva: “incapace di ammettere la complessità del divenire o di ammettere la sua debolezza o inadeguatezza di fronte alla complessità, il fascista pretende di conoscere la soluzione, anche se non sa niente: la soluzione è l’affermazione di sé”. Affermazione di sé che i neofascisti italiani, dai primi momenti del secondo dopoguerra a oggi, hanno messo in atto attraverso azioni violente e discorsi infiammati carichi di primitivismo, discriminatori nelle parole e nei fatti verso le categorie più deboli. Lo stesso Pasolini sosteneva che l’Italia non avesse mai avuto una “grande Destra”, perché “non ha avuto una cultura capace di esprimerla: ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo”. E tanto il fascismo del Ventennio quanto quello di oggi non sono capaci di esprimere nessuna cultura, nessuna nuova idea e nessun progetto per il futuro. Ciò a cui puntano è l’amministrazione autoritaria di ciò che esiste: il potere per il potere, a discapito di chi non ne ha.