Quando Licio Gelli provò a cambiare l’Italia a modo suo
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Nel 1936, dall’Italia fascista partono dei volontari per combattere al fianco del generale Francisco Franco nella guerra civile spagnola. Il più giovane dei volontari ha 17 anni, si chiama Licio Gelli e sta seguendo suo fratello Raffaello. Dopo due anni di guerra, Raffaello rimane ucciso davanti ai suoi occhi. Licio torna in patria portando con sé un odio feroce verso il comunismo e, arrivato in Italia, viene ricevuto da Mussolini in persona; non vuole tornare a vivere a Pistoia, così il Duce lo manda al Centro di preparazione politica per i giovani. Quando il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra con la Germania, Gelli viene nominato ispettore per l’organizzatore dei Fasci da combattimento, la cosa più simile ai servizi segreti interni pur senza esserlo (i servizi, al tempo del Duce, si chiamavano SIM). Parte per l’Albania, ma si ferma a Càttaro, dove impara presto come le informazioni siano armi più letali dei proiettili, se usate bene. È proprio grazie all’intelligence che nel 1942 riesce a mettere le mani su una parte del tesoro della Banca Nazionale Serba: deve recuperare e trasportare in Italia 60 tonnellate di lingotti d’oro, 2 tonnellate di monete antiche, 6 milioni di dollari e 2 milioni di sterline, ma tiene per sé 20 tonnellate d’oro e le fa arrivare in Argentina. Tornato in Italia, si macchia di svariati delitti protetto dall’uniforme fascista, tra cui il sequestro di Giuliano Bargiacchi, figlio di un collaboratore dei partigiani.

Nel 1945, a Pistoia, tira una brutta aria. Il regime sta cadendo, ci sono le prime vendette, e Gelli rischia di venire ucciso; inizia così a fare il triplo gioco, vendendo i suoi ex camerati ai partigiani e i partigiani ai camerati. Quando le cose iniziano a mettersi male, scappa in Sardegna dalla sorella, sposata con un ufficiale di Marina napoletano. Appena arrivato mette su un commercio di beni di prima necessità, spediti da un amico a Lucca. Prova a mettersi in regola, ma non è abbastanza svelto: i Carabinieri fanno un controllo su di lui contattando la tenenza a Pistoia e scoprono che ha un mandato d’arresto. Finisce dunque in galera a Cagliari, dove chiede di parlare con i servizi segreti, a cui consegna una lista di 56 collaborazionisti della Repubblica Sociale e dei nazisti. Gelli diventa un agente del SID, nome in codice “Filippo” e, una volta uscito di galera, lavora come autista per un parlamentare della Democrazia Cristiana, Romolo Diecidue. I suoi contatti iniziano ad ampliarsi dai servizi alla politica, fino al Vaticano. Di lì a poco diventa direttore di una fabbrica di materassi, la Permaflex, alla cui inaugurazione è presente il cardinale Ottaviani. La prima commessa dell’azienda è della NATO.

Una delle migliori rappresentazioni dell’Italia di quegli anni arriva da una scena del film Yojimbo, del 1961: due grandi schieramenti – leggi Russia e Usa – si affrontano, consapevoli che lo scontro diretto li massacrerebbe, e si accontentano quindi di continuare a fare passi avanti e passi indietro. Ogni tanto qualcuno esce dalla fila, tira un colpo a caso e indietreggia. Il campo di battaglia è l’Italia, dove tutti – stranieri e autoctoni – cercano di prevedere cosa succederà in caso di vittoria dell’una o dell’altra fazione. Credendo che i comunisti stessero preparando un colpo di Stato, i fascisti organizzano il proprio coup, innescando un circolo vizioso per fortuna mai sfociato nel rovesciamento di un governo. È il caso dell’organizzazione Rosa dei venti, di Gladio, del braccio armato del PCI e del quasi-golpe Borghese, un delirio preparato dal colonnello Valerio Yunio Borghese che si avvale dei forestali nostalgici del Duce.

Lo stato di tensione si esaspera ulteriormente quando, nel luglio 1961, Giordano Gamberini, ex partigiano con la tessera del Partito Socialista e dichiarato antifascista, diventa il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Gli americani temono che in caso di insurrezione armata della sinistra la massoneria finisca per schierarsi coi comunisti. Si decide quindi di creare una “massoneria di destra” che possa eventualmente arginare quest’alleanza; tramite la CIA contattano l’avvocato Marchetti, un ex gerarca sardo diventato agente del SID, e gli chiedono di trovare una persona di fiducia capace di mettere in piedi una loggia di destra il più in fretta possibile. Marchetti sa che Gelli è pieno di contatti e si rivolge a lui, che si mette all’opera e nel 1971 fonda Propaganda 2.

Gelli inizia approfittando delle conoscenze del marito della sorella, che come si è detto è ufficiale di Marina. Il problema, dirà poi l’ex Gran Maestro Corona, è che Gelli raccatta solo “marcantoni scemi”, che di massoneria non sanno né capiscono nulla e vi aderiscono nella convinzione di difendere la patria.

La chiave di volta della P2 è quella dello schema Ponzi, o delle vendite piramidali, ovvero il passaparola: una prima persona ottiene dei prestiti di denaro promettendo di ripagarli raddoppiati, fa credito ad altre persone e usa quei soldi per ripagare i primi, così da farsi un buon nome. Gelli fa la stessa cosa, ma invece di soldi promette contatti in ambienti influenti. Dopo un anno quasi tutta la VI flotta della Marina militare a Napoli è iscritta alla P2 e iniziano a vedersi i primi risultati: Gelli fa infatti incontrare la massoneria argentina con quella italiana. La P2 diventa il Rotary Club delle forze armate veterofasciste; ci entrano uomini dei servizi, della guardia di finanza o delle forze armate, col tempo arriva a toccare anche gli ambienti della politica e del Vaticano. La P2 ha però molte anomalie: una di queste è che Gelli non fa mai riunire tutti gli iscritti insieme. Al contrario, ogni riunione è costruita in modo che nessuno sappia chi siano gli altri iscritti alla loggia e che lui sia l’unico a poter metterne in contatto i membri. Tutto per aumentare il grado di mistero e di controllo.

La seconda anomalia è la totale mancanza di gerarchia, che contraddistingue invece le altre logge; chiunque entri nella P2 viene subito chiamato “Maestro”. Dopotutto, a Gelli interessava poco dell’iconografia e del simbolismo. Gli anni Settanta in Italia sono segnati da attentati, bombe, gambizzazioni, manifestazioni, rivolte, omicidi, scioperi; sono gli anni più duri della strategia della tensione e il Paese pensa di essere sull’orlo dell’anarchia. Il presidente della Repubblica all’epoca è Giovanni Leone, ex fascista e democristiano. Durante il suo mandato, nell’arco di poche settimane, si succedono la strage di piazza della Loggia a Brescia – il 28 maggio 1974 – e quella del treno Italicus – il 4 agosto 1974. Sono in molti a ritenere che dietro a quegli attentati ci sia la massoneria, al punto che, secondo alcuni, Leone avrebbe convocato il Gran Maestro Lino Salvini, per chiedergli di risolvere la situazione.

Strage di piazza della Loggia

Strage treno Italicus

Salvini delega il compito a Gelli, che insieme ad alcuni membri delle forze armate, di quelle dell’ordine e dei servizi scrive, nel 1975, lo “Schema R” – dove R sta per Rinascita e che spiega come trasformare lo Stato in una repubblica presidenziale – e il “Piano di Rinascita Democratica” – prima “Piano di Rinascita Nazionale” – che illustra come prendere il comando attraverso l’infiltrazione di uomini fidati nei media e nei nodi vitali di economia, giustizia e società, così da guidare e manipolare l’opinione pubblica. Leone, in sede processuale, sosterrà di non aver mai contattato la P2. Sia come sia, Gelli prende molto sul serio quel piano e tenta di metterlo in pratica autonomamente; riesce a far entrare nella loggia Roberto Calvi, allora presidente del Banco Ambrosiano, ma fa un primo grave errore: apre le porte dell’organizzazione anche a Michele Sindona.

Michele Sindona

Il 2 agosto 1980 una bomba nella sala d’aspetto della stazione di Bologna uccide 85 persone e ne ferisce 200. È la strage più grave del dopoguerra, su cui ancora oggi restano numerosi interrogativi. E si tratta di un attentato anomalo, non essendo mai stato rivendicato da nessuno. Secondo le sentenze, la bomba fu messa da appartenenti a un gruppo neofascista chiamato NAR (Nucleo Armato Rivoluzionario), sebbene molti continuino a nutrire dubbi e i responsabili, anche oggi che sono usciti dal carcere, perseverino nel professarsi innocenti. Subito dopo l’attentato, comunque, i magistrati iniziano a ricevere segnalazioni secondo cui i veri mandanti andrebbero ricercati all’estero; alcuni incolpano i palestinesi, altri i libici, altri ancora la CIA. Il 13 gennaio 1981, dietro segnalazione dei Servizi, sull’espresso “504” Taranto-Milano viene trovata una valigia con lo stesso esplosivo usato per la strage, dei fucili, biglietti aerei per le tratte Milano-Monaco e Milano-Parigi e oggetti personali di due terroristi, un francese e un tedesco. Contemporaneamente, un dossier del generale Pietro Musumeci – iscritto alla P2 e vicecapo del SISMI – indica proprio questi due individui come mandanti della strage. Sono indizi costruiti a tavolino da Musumeci e dal direttore del SISMI, il generale Giuseppe Santovito, con il faccendiere Pazienza e Licio Gelli. Il motivo rimane sconosciuto, ma per la prima volta il nome di Licio Gelli finisce sotto gli occhi dell’opinione pubblica, dove è destinato a restare.

In quello stesso anno, Indro Montanelli è in cerca di finanziatori per il suo giornale. Un amico massone, non piduista, Renzo Trionfera, gli riferisce che un uomo a Roma “sta diventando il padrone della stampa italiana” e potrebbe aiutarlo; vive all’hotel Excelsior, nella stanza 123. Una posizione che in teoria dovrebbe essere segreta, ma che di fatto tutti conoscono bene, dai camerieri dell’hotel agli affiliati alla P2; da lì Gelli riceve i suoi ospiti, seduto alla scrivania, dove custodisce un ricco archivio, ordinato in cartelline di cartoncino rosa. Montanelli, incuriosito, va a Roma per incontrarlo e davanti ai problemi economici de Il Giornale Gelli minimizza: i problemi veri sono ben altri ed è ora che tutta la stampa finisca sotto un unico padrone, per seguire un unico indirizzo.

“Ma non esiste un padrone della stampa,” obietta Montanelli, “A meno che non rifacciamo il MINCULPOP fascista.” Così il giornalista ricostruirà, anni più tardi, la vicenda. “Basta comprare la proprietà dei giornali,” ribatte Gelli. “Scusi, ci sono degli editori che non vendono. Per esempio, se lei va a chiedere all’avvocato Agnelli se gli vende La Stampa, l’avvocato non gliela vende mica,” contesta ancora Montanelli. “Questione di prezzo.”

Quando Montanelli esce dalla stanza, si trova davanti a due ipotesi: o Gelli è pazzo, oppure è “il più grande farabolano che abbia mai visto,” e decide dunque di non cercarlo più. Ma l’autorità di Gelli, la fitta rete di particolari amicizie da cui trae un enorme – per quanto spesso inspiegabile – potere, sta per essere svelata.

Indro Montanelli e Silvio Berlusconi

Nel marzo del 1981, a New York, si celebra il processo contro Michele Sindona per la bancarotta della Franklin Bank del 1974 e per il “buco” da 200 miliardi di lire della Banca Privata Italiana. Nello stesso momento i magistrati italiani perquisiscono villa Wanda, residenza di Gelli, a caccia di documenti che possano spiegare le manovre bancarie di Sindona: vi trovano un elenco di 962 iscritti alla loggia P2; tra loro ci vi sono 14 magistrati, 59 parlamentari, 8 direttori di giornali e 22 giornalisti, 120 dirigenti di aziende pubbliche, svariati banchieri, 22 dirigenti della polizia, 37 ufficiali della finanza, 32 dei Carabinieri, 6 ministri e un giudice costituzionale. Tutti loro, però, sono a conoscenza della perquisizione imminente; mentre le autorità passano al setaccio la villa, all’hotel Hilton di Roma si sono riuniti 450 iscritti – i pochi che si conoscevano – per decidere il da farsi; vanno in scena litigate, recriminazioni, insulti e minacce, come in una qualsiasi riunione di condominio. Alcuni propongono perfino di cambiare in fretta lo statuto della P2 e di renderla pubblica.

Licio Gelli, intanto, è già scappato con moglie e figli a Cap Ferrat, sulla costa Azzurra, dove per l’occasione ha comprato una villa – ancora senza mobili. Li compra da un antiquario per 300 milioni, ma fa l’errore di pagarli con tre assegni. Il suo non è un cognome che passa inosservato, e la banca avvisa subito i magistrati. Gelli è così costretto a scappare ancora: si rifugia in Sudamerica dove possiede immobili e terreni. In Italia è in atto una guerra interna tra magistrati di Roma, che cercano di strappare le carte ai colleghi di Milano, nel tentativo di insabbiare tutto, essendo in molti a loro volta iscritti. Ci riescono: il 5 luglio Maria Grazia Gelli, figlia di Licio, viene arrestata all’aeroporto di Fiumicino con una valigetta sospetta; ha un doppio fondo, e dentro ci sono documenti del padre, tra cui il Piano di Rinascita. Lei finisce in carcere a Rebibbia, dove dopo un mese ha un collasso e viene trasferita ai domiciliari a villa Wanda, mentre le carte vengono esaminate e, poiché il reato maggiore che ne risulta è quello di cospirazione contro lo Stato, i fascicoli passano a Roma. Un vecchio trucco legale: tra i vari reati contestati a Gelli viene anche inserito quello di truffa e molti degli affiliati alla P2 si trasformano magicamente in vittime.

Nel 1982 le autorità elvetiche arrestano finalmente Licio Gelli a Ginevra mentre sta per fare un versamento e riescono a sottrargli il foglio che ha in mano: c’è l’indirizzo di un conto corrente (Bologna – 525779 – X.S.) e alcune cifre accompagnate da diciture, come la sigla “Dif.Mi.” e “Difes.Roma”. Quel foglio arriverà sul tavolo dei magistrati italiani solo nel 1986. Gelli, nel carcere di Champ-Dollon, ci resta poco. Organizza una catena di contatti all’esterno e il 10 agosto 1983 corrompe l’agente di custodia Edouard Ceresa, in cambio di 17 milioni di lire e la promessa di un altro miliardo e settecento milioni. Evade e diventa latitante. Lo stesso anno la P2 viene sciolta – e vengono rese illegali le logge segrete con simili finalità – per poi essere assolta dall’accusa di cospirazione ai danni dello Stato in tutti e tre i gradi di giudizio. Tina Anselmi, che presiede la commissione parlamentare d’inchiesta, conclude la sentenza definendo la P2 “un’organizzazione che aspirava non alla conquista del potere nelle sedi istituzionali, ma al controllo di esse in forma surrettizia”. Riguardo a Gelli, scrive che “era il punto di collegamento tra la piramide superiore, nella quale vengono identificate le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione.”

 

Gelli si consegna spontaneamente nel 1987, viene messo agli arresti domiciliari a causa di una malattia cardiaca e il 22 aprile 1998 scappa ancora, dopo la notizia della condanna in Cassazione di 12 anni (ridotti a 8 e 6 mesi) per i depistaggi della strage di Bologna. Polizia italiana e Interpol lo cercano in Uruguay e Argentina, senza successo. Gelli, nel frattempo, si racconta all’Italia attraverso interviste in cui dichiara di voler vincere il premio Nobel per la letteratura. Malato di cuore, si fa aiutare dai figli per ottenere il ricovero in una clinica a Marsiglia sotto falso nome, da cui poi scappa con occhiali e baffi finti non appena vede arrivare le pattuglie dell’Interpol. Viene fermato a Nizza nell’autunno dello stesso anno e rimandano in Italia, dove anche i figli vengono processati e condannati per favoreggiamento all’evasione. Licio Gelli trascorrerà i suoi giorni nella sua villa, nell’aura di manovratore dietro a tutti i grandi misteri d’Italia, che lui si guarda bene dal contribuire a risolvere. Resta nella parte fino alla morte, avvenuta ad Arezzo nel 2015, quando ha ormai 96 anni, e porta con sé tanti segreti e domande.

Chissà chi era davvero Licio Gelli. Il grande cattivo dei film, autore e occulto burattinaio di tutti i mali italiani, o un semplice imbroglione che ha saputo vendersi bene? Gli anni di piombo sono ricchi di dettagli, storie, personaggi che nel tempo si perderanno fino a lasciare spazio a un’unica storia ufficiale. Forse è più comodo pensare che il pieno controllo degli avvenimenti sia nelle mani di un solo uomo, la cui scomparsa è sufficiente per ristabilire la pace e l’armonia nel mondo.

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