È l’agosto del 1978. Nell’Italia reduce dalla strage di Acca Larentia, ma soprattutto dall’uccisione di Aldo Moro, avvenuta solo qualche mese prima per mano delle Brigate Rosse, il preludio di quello che gli anni Ottanta avrebbero rappresentato di lì a poco è ancora irriconoscibile, occultato da una cappa di caos emotivo difficile da dissipare. Gli italiani sono sfiniti dagli omicidi della malavita organizzata, dagli attentati, dalle contestazioni che riempiono le strade senza dare cenno d’arresto. In un Paese ormai industrializzato, in cui qualcuno guarda alle trasformazioni in atto da più di una decade già con una certa nostalgia, sentendosi orfano di un universo contadino in via d’estinzione, Ermanno Olmi vince la Palma d’oro al Festival di Cannes con il suo capolavoro L’albero degli zoccoli. La maggior parte degli spettatori, però, cerca evasione, divertimento, comprando il biglietto per vedere Grease – il film con l’incasso più alto dell’anno – in sala, o alzando il volume quando in radio passa “Staying Alive” (il singolo più venduto), per cantare insieme al falsetto dei Bee Gees. Quasi uno sforzo di resistenza in attesa di tempi se non migliori, almeno più leggeri.
La stessa leggerezza la si cerca anche in vacanza: due settimane sul litorale Adriatico o sulle coste della Sardegna – un attimo prima che venisse definitivamente colonizzata dagli yuppies. A Porto Rotondo, in quel microcosmo costruito quasi quindici anni prima da due imprenditori veneziani, i fratelli Donà, si riunisce così tutta la Roma dei Parioli, in una sorta di traslazione del quartiere bene della capitale, che per qualche mese l’anno si trova a vivere a pochi chilometri di distanza dal Golfo degli Aranci. Proprio da qui, il 17 agosto, salpano tre barche, tra cui quella di Giovanni Malagò – futuro Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano –, con a bordo una numerosa compagnia di quasi-trentenni annoiati dal ritmo dilatato della località di mare. Sono pronti a esplorare l’Isola di Cavallo, luogo tanto amato in passato dal grande architetto Jacques Couelle, che possono intravedere a occhio nudo dal bagnasciuga sardo, come un pungolo di sabbia e scogli che li spinge a fantasticare sulle vacanze della famiglia Savoia, abituata a trascorrerle lì. Nella comitiva di Malagò, tra gli altri, ci sono anche Nicky Pende, medico chirurgo e archetipo del Dongiovanni, con alle spalle un precedente matrimonio con Stefania Sandrelli; e Birgit Hamer, Miss Germania 1976, approdata poi al grande schermo con il film Amo non amo di Armenia Balducci. Per ottenere dal padre, il medico tedesco Ryke Geerd Hamer, il permesso di partecipare all’escursione, Birgit ha però dovuto accettare di farsi accompagnare da suo fratello Dirk, di qualche anno più piccolo.
Tre barche, una compagnia di pariolini e un diciannovenne tedesco unitosi per caso al loro gruppo, sono gli elementi che compongono l’antefatto di uno dei casi più torbidi della storia italiana recente, in cui la commistione di arroganza e potere ha generato effetti a lungo termine, arrivati sino ai giorni nostri, sia per le ripercussioni sull’esistenza delle persone direttamente coinvolte, che per l’indelebile influenza che la vicenda ha avuto sulla realtà socio-culturale e politica del nostro Paese. Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1978, infatti, Vittorio Emanuele di Savoia, “le prince” – o meglio le prince tireur (il “principe tiratore”) come verrà ribattezzato dalla stampa francese in quell’occasione –, si troverà in una circostanza che darà il via al primo processo a un membro della famiglia reale dai tempi della Rivoluzione Francese, ma che a oggi rimane ancora del tutto impunito. Un fatto sproporzionato, scaturito forse da decenni di risentimento, dal titolo mancato, dal declino di una dinastia reale e della visione del mondo a cui si rifaceva, dall’esilio: fattori che hanno contribuito a trasformare, agli occhi del principe, anche un gruppo di giovani italiani in vacanza in pericolosi invasori.
Come raccontato anche dalla recente serie Netflix Il principe, diretta da Beatrice Borromeo Casiraghi, la mezzanotte è passata ormai da ore quando il sonno della compagnia, accampatasi sulle barche perché incapace di ritornare a Porto Rotondo a causa dell’alta marea, viene bruscamente interrotto da tre colpi. I primi due sono chiaramente spari, il terzo è invece un razzo lanciato da una delle imbarcazioni vicine, nel tentativo di illuminare la scena per capire cosa stia accadendo. Nicky Pende, uscito dalla cabina di prua, sta litigando con una figura a bordo di un gommone, che impugna una carabina. Temendo che spari di nuovo, si abbassa d’istinto per schivare un eventuale proiettile, che arriva soltanto pochi istanti dopo, passandogli qualche centimetro sopra la testa. Sul momento non è chiaro chi sia stato a sparare, ma proprio mentre tutta l’isola accorre verso le barche, l’uomo sul gommone sta tornando a riva, come in un frame alla Godfellas. A scendere da esso, però, non è uno dei gangster di Scorsese, ma il principe Vittorio Emanuele in persona ancora in stato di shock, con un’arma nella mano destra. Chi è rimasto sul ponte dell’imbarcazione insieme a Nicky Pende, nello stesso esatto momento, sta invece cercando di soccorrere Dirk Hamer, rimasto ferito alla gamba da uno dei proiettili.
Se giornalisti, opinionisti e redattori dei notiziari non hanno a disposizione la verità dei fatti, spesso coltivano posizioni alimentate dalla supposizione, seguendo la teoria più probabile, quando non quella più affine alla loro linea editoriale, e lasciandola poi alimentare dalla risposta dell’opinione pubblica. Non è questo il caso della sparatoria a Cavallo. A partire dal giorno seguente, dopo l’interrogatorio del principe, i telegiornali sia italiani che francesi affermano senza dubbi la sua colpevolezza, apparentemente riscontrata, da lì a breve, anche da un primo ritrovamento dei bossoli di fucile militare sul fondo del mare della Corsica. La gendarmerie in poche ore trasferisce Vittorio Emanuele nel carcere di Ajaccio. Seguendo la narrazione della serie, è la fine di agosto quando Vittorio Emanuele, in seguito a un confronto con Nicky Pende, firma una dichiarazione di riconoscimento della sua responsabilità civile per i fatti accaduti a Dirk Hamer. Ed è per questo che sua sorella Birgit, nel corso della strenua battaglia combattuta negli anni successivi per rendere giustizia a Dirk, continuerà a chiedersi “come una persona possa di colpo diventare innocente”.
Il 6 ottobre del 1978, con il primo dei passi che hanno iniziato a corrodere la precedente accusa, a Vittorio Emanuele viene concessa la libertà provvisoria. Due mesi dopo, il 7 dicembre, mentre Birgit si trova da un’amica a Milano, viene raggiunta da una telefonata della madre: dopo 19 operazioni chirurgiche, tra cui l’amputazione della gamba ferita e quattro mesi di agonia in ospedale, Dirk è morto. Il trauma sconvolge per sempre la famiglia Hamer, colpita poi dall’ulteriore lutto per la morte della madre di Dirk e Birgit, avvenuta pochi anni dopo quella del figlio; e dalle vicende professionali del padre, che negli anni successivi formula un metodo di cura da lui ritenuto “alternativo” per il cancro, consistente nel trattare la patologia come la conseguenza fisiologica di un forte shock emotivo irrisolto – la cosiddetta “sindrome di Dirk Hamer”. Nonostante questo metodo sia stato ritenuto privo di valore scientifico ha avuto diverso seguito, portando alla morte di migliaia di malati.
Quando si parla di censura, gli studi di semiotica ne prendono generalmente in considerazione due tipi: quella più classica e nota, che avviene per diretta cancellazione di una notizia o di un fatto; e quella che invece procede per accumulazione, facendo scomparire un elemento di importanza cruciale sotto una montagna di dettagli irrilevanti, parziali, spesso addirittura inventati, che servono a confondere il quadro dell’analisi. In questo senso, dopo la morte di Dirk Hamer, le accuse mosse a Vittorio Emanuele sono state letteralmente cancellate seguendo questo secondo meccanismo, grazie a un sistema di potere articolato e capillare, che ha condizionato le indagini continuando ad aggiungervi degli elementi sovrabbondanti e non utili all’accertamento dei fatti, con lo scopo di farne scomparire altri, invece fondamentali. La pallottola ripescata in Corsica, ora troppo deformata per essere identificata; la pistola 38 special a tamburo trovata in una delle barche partite da Porto Rotondo; il dubbio sul numero dei colpi uditi per la successione delle detonazioni e il lancio di razzi da un’altra imbarcazione; la possibilità che ci fosse una terza figura, che avrebbe potuto sparare senza essere vista né dal principe né da Nicky Pende; la misteriosa fine del documento con la dichiarazione di responsabilità dello stesso agosto 1978, insieme al frammento di proiettile estratto dall’arteria femorale di Dirk, che non sono mai più stati citati. A completare l’opera di offuscamento del fatto storico da giudicarsi è stata la narrazione che opponeva l’erede di casa Savoia a niente più che una banda di giovani viziati in vacanza in Sardegna, o al massimo a qualche giornalista tra i più coraggiosi – che sono stati comunque costretti a cedere in poco tempo a causa della scomparsa dei loro articoli sul caso, o di intimidazioni, come viene raccontato nella serie tv dalla giornalista Stefania Pende, cugina di Nicky.
Solo tre anni dopo, nel 1982, quando Vittorio Emanuele viene intervistato da Enzo Biagi durante una trasmissione televisiva, afferma di non sapere realmente se il colpevole del caso Hamer fosse proprio lui e di non credere di esserlo. Come se dei nuovi ricordi, diversi dagli originali, si fossero formati nella sua mente con il passare del tempo. Questa mutata rappresentazione degli eventi di Cavallo, che da più parti si è tentato di sostituire alle evidenze degli elementi emersi nell’immediatezza, rappresenta il risultato di una vera e propria opera di revisionismo, avvallata da meccanismi di potere sotterranei che hanno operato simultaneamente nel tentativo di renderla non soltanto credibile, ma addirittura reale – per quanto gli era possibile.
Nella vicenda personale del principe, come viene testimoniato dai diversi personaggi intervistati durante la serie, paiono infatti esserci dei legami con diverse figure appartenenti a un territorio ambiguo, ai limiti della legalità, che partono da molto lontano. Il suo ruolo di intermediario tra l’imprenditore Corrado Agusta, proprietario dell’omonima azienda produttrice di armi e di elicotteri da guerra, e lo scià di Persia, che era stato suo testimone in occasione delle nozze con Marina Doria, gli avrebbe permesso di fare affari anche con Paesi a cui l’Italia non avrebbe potuto vendere armamenti. O la sua accertata adesione alla loggia P2 di Licio Gelli, che in quegli anni stava ancora provando a “cambiare l’Italia, ma a modo suo”, in cui aveva acquisito il titolo di Maestro, con la tessera 1621 – come testimoniato dalla scoperta e dalla diffusione delle liste massoniche. Una rete di rapporti, amicizie, dubbie vicinanze, che aggiungendosi ai legami di parentela con tutti i reali d’Europa gli hanno dato la possibilità di disattivare alcuni dei dispositivi propri della democrazia e di muoversi in certi casi al di sopra dello stato di diritto, penetrando le maglie della giustizia attraverso una serie di sostegni che gli venivano forniti ad ogni livello. Birgit Hamer in diverse interviste parlerà di un “muro” di immunità costruito ad hoc, che sembrava impossibile da valicare.
Devono trascorrere quasi 13 anni perché questa barriera inizi a mostrare le prime crepe, dopo una lunga e anomala attesa del processo. È il 1991, l’età dell’oro degli anni Ottanta in Italia si è ormai esaurita insieme alle sue illusioni, al cinema si va per vedere Benigni con Johnny Stecchino. Birgit Hamer, con l’ennesima petizione supportata dai suoi avvocati, raggiunge un risultato storico: Vittorio Emanuele verrà finalmente processato alla Corte delle Assise di Parigi. Non saranno però nemmeno le cinque giornate in tribunale a fare giustizia sulla morte di Dirk. Nessuna delle persone presenti a Cavallo verrà infatti chiamata a deporre (fatta eccezione per Birgit e Nicky Pende), mentre per Vittorio Emanuele sfileranno una serie di cosiddetti “testimoni morali” – ambasciatori italiani, oceanografi e anche la scrittrice francese Edmonde Charles-Roux – pronti a garantire la sua innocenza non certo sulla base dei fatti, a cui non hanno assistito, ma della loro stima nei confronti dell’imputato, fondata su un legame di tipo personale. Vittorio Emanuele viene condannato a cinque mesi – con condizionale – per il possesso illecito di un fucile militare, ma assolto dall’accusa di omicidio volontario.
Sullo sfondo, il dibattito sulla possibile abrogazione della norma transitoria della Costituzione repubblicana che impediva agli eredi maschi di casa Savoia di fare ritorno in Italia non era mai cessato, e la sua cancellazione arriva nel luglio del 2002, diventando, se guardata a posteriori, una sorta di punto d’innesco per un effetto domino fatto di eventi pressocché casuali, che ha restituito la verità a Birgit Hamer, nonostante essa non le sia mai stata riconosciuta da una sentenza.
Nel 2003 Vittorio Emanuele torna in Italia con la sua famiglia e nel 2006 viene accusato di associazione a delinquere insieme a quelli che erano i suoi presunti correi: Rocco Migliardi e Ugo Bonazza, entrambi commercianti sospettati di essere vicini ad ambienti mafiosi. Anche in questo caso, il principe verrà assolto, ma è proprio durante la settimana trascorsa in carcere a Potenza che emergono le reminiscenze – autentiche – dei fatti di Cavallo. Ignaro di essere registrato e ripreso, Vittorio Emanuele confessa la sua colpevolezza mentre parla con i compagni di cella. Nel video lo si sente mimare il gesto della sparatoria, ammettere che uno dei colpi da lui sparati abbia colpito Dirk e dichiarare di essere sfuggito alla giustizia francese: “Anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati”.
È stato dunque il caso, un momento accidentale di distrazione, a riabilitare la versione dei fatti di Birgit, nonostante Vittorio Emanuele abbia sempre smentito – anche fino all’ultimo episodio de Il principe – il valore e la portata delle dichiarazioni fatte a Potenza. L’iter processuale e umano degli Hamer, durato quasi quarant’anni, ha portato all’emersione di una realtà reticolare e parallela di relazioni, segreti e influenze, in grado di condizionare anche gli sviluppi della giustizia. Per questo, ancora oggi, rimane un evento indelebile nella memoria storica italiana, segnata da eventi eclatanti, ma anche dalle infinite correnti sotterranee che li accompagnano.