La risoluzione del Parlamento Europeo sull’“Importanza della memoria per il futuro dell’Europa”, votata il 19 settembre a Strasburgo, ha sollevato immediate polemiche in Italia – ben più che in altri Paesi europei. A indignare una parte dell’opinione pubblica sono stati principalmente due aspetti: da una parte, le valutazioni storiche contenute nel testo, e in particolare gli articoli che indicano nel patto nazi-sovietico del 1939 la causa diretta dello scoppio della Seconda guerra mondiale; dall’altra, una sostanziale equiparazione fra i regimi nazista e comunista rispetto al segno totalitario e alle sofferenze causate a milioni di vittime in tutto il continente europeo.
Tale equiparazione, in realtà, ha precedenti illustri e poco accusabili di revisionismo storico: a formularla in maniera compiuta, organica e approfondita fu infatti Hannah Arendt, nel suo saggio Le origini del totalitarismo. Fu proprio lei a spiegare che nei regimi totalitari non è tanto l’essenza, il contenuto dell’ideologia a fare la differenza, quanto la sua funzione oppressiva, di integrazione con il terrore e di occupazione ipertrofica dello spazio pubblico. Ma nell’opinione pubblica in tanti, in particolare fra chi ancora oggi si riconosce a vario titolo nell’ideologia comunista, hanno reputato ingiusto e antistorico l’accostamento fra i due regimi operato a Strasburgo, considerando che nella Seconda guerra mondiale il comunismo è stato avversario del nazifascismo e ha contribuito a sconfiggerlo.
Leggendo attentamente il documento, l’intenzione risulta abbastanza chiara, fin dal titolo: usare la memoria in chiave strumentale, a scopo politico e in relazione al futuro. In particolare, per stigmatizzare la minaccia rappresentata dalla politica di Putin. Il leader russo è infatti percepito sempre più come un avversario malintenzionato delle democrazie liberali, che di recente ha definito “obsolete” al Financial Times. Le paure europee non sono infondate: al di là della famigerata fabbrica dei troll, le inchieste che dimostrano l’intento della leadership russa di intervenire sulla politica europea coinvolgono anche l’Italia, come sappiamo. L’intento sembra essere, secondo alcuni, alimentare il caos politico negli Stati dell’Unione Europea, con una strategia che, nella maggior parte dei casi, è volta a distruggere senza creare.
Tuttavia, l’uso che i politici del Parlamento europeo hanno scelto di fare della Storia per stigmatizzare la minaccia russa è come minimo spregiudicato e si presta alle stesse accuse di “distorcere i fatti” rivolte nel documento allo Stato putiniano. Secondo la risoluzione, infatti, “la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d’Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come Patto Molotov-Ribbentrop e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l’obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l’Europa in due zone d’influenza”.
L’esistenza di questi protocolli segreti è stata ammessa dall’Unione Sovietica nel 1988. I testi furono pubblicati nel 1990 e sono una prova documentale del fatto che Stalin fosse tutt’altro che disinteressato alla conquista territoriale dell’Europa. Ma il concatenamento di eventi che portò allo scoppio della guerra fu talmente intricato che cercarne in un solo evento la causa immediata suona grottesco, e offre molte sponde a interpretazioni faziose e interessate – che infatti, in questi giorni, sono spuntate specialmente tra i rossobruni.
Nella sua Storia delle relazioni internazionali il politologo Ennio Di Nolfo traccia una mappa dettagliata degli interessi geopolitici che esplose nel 1939 con la Guerra mondiale, ma che affondava le radici nel ventennio precedente. L’ascesa del nazismo avvenne in una fase di crisi di tutte le altre potenze europee. “Nel 1939 la Germania era la sola effettiva grande potenza in Europa che non avesse ancora esaurito la sua carica egemonica continentale.” L’errore delle leadership russe, inglesi, francesi fu sottovalutare tale spinta e pensare di potersene servire per i propri scopi.
La verità, scrive Di Nolfo, è che nessuno Stato europeo si contrappose al nazismo per amore della libertà. Non lo fece l’URSS, non lo fecero la Gran Bretagna e la Francia. Né tantomeno gli Stati Uniti, successivamente. La dimensione ideologica servì a ciascuno Stato per alimentare la propria propaganda, a sua volta necessaria per giustificare gli immensi sforzi che la guerra costava, in termini di vite umane e sofferenze. Ma nessuno combatté la guerra contro il nazismo per altruismo.
Al contrario: ciascun regime possedeva elementi di comunanza significativi con il nazismo. Il più importante era l’avversione condivisa per le forze sociali che minacciavano la stabilità dell’ordine costituito: i rivoluzionari, gli anarchici, gli ebrei. Lo storico inglese Paul Preston, ne La guerra civile spagnola racconta come per esempio, nella repressione della revolución social dal 1936 al 1939, le forze totalitarie e quelle liberali furono fattualmente alleate nell’assicurarsi il fallimento del sogno collettivista: Hitler a diretto sostegno dell’avanzata franchista; le democrazie nell’immobilismo rispetto alla difesa della Repubblica spagnola; e Stalin, come denunciò George Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna, perché le brigate internazionali, capeggiate dal delfino Palmiro Togliatti, avevano il compito diretto di reprimere le milizie anarchiche e trotskiste, e scongiurare in tutti i modi la vittoria della rivoluzione.
La falsa coscienza dell’Europa si estende fino al destino delle popolazioni ebraiche. Francia e Inghilterra non erano certo immuni all’antisemitismo: le peregrinazioni degli ebrei in fuga dalla Germania, le difficoltà a essere accolti nei Paesi democratici raccontate da Erich Maria Remarque nei suoi romanzi mostrano come a fare l’Europa furono per primi i profughi, gli ebrei e i dissidenti politici che passavano di frontiera in frontiera cercando di fuggire al regime, confidando nella solidarietà di chi incontravano, cercando di schivare le trappole dei razzisti e dei gendarmi. I germi del razzismo, della diversità da soffocare, la preoccupazione di sventare sul nascere ogni possibile soffio rivoluzionario nella società europea precedettero la Seconda guerra mondiale, e sopravvissero alla stessa. Il nazifascismo è uscito sconfitto dal conflitto bellico, sì, ma non è mai stato veramente estirpato.
Molti insorti contro la risoluzione, in questi giorni, si sono scandalizzati soprattutto perché l’equiparazione tra nazismo e comunismo farebbe riconsiderare il valore della Resistenza antifascista. Le proteste contro il Pd che ha votato a favore della risoluzione sono state sonore, al punto che alcuni eurodeputati come Pietro Bartolo hanno cambiato il proprio voto dichiarando l’errore. L’antifascismo della Resistenza è un motivo d’orgoglio identitario importante per una buona parte della società italiana. Molti partigiani erano comunisti e il Partito comunista contribuì in modo significativo alla Costituente repubblicana. Ma c’è un’altra verità con cui il popolo di sinistra fa molto malvolentieri i conti, ed è che nell’Italia democratica il virus fascista continuò a circolare impunito e ciò avvenne per volontà del Partito Comunista: l’“amnistia di Togliatti” fu un atto politico che causò molte delusioni. Tutto il modo in cui fu gestita la normalizzazione sociale del dopoguerra fu bruciante. In tanti aspiravano a proseguire la rivoluzione proletaria, ma Stalin e il suo emissario avevano tutt’altri interessi: l’ordine emerso da Yalta andava garantito e preservato.
Rivendicare un solo pezzetto di memoria, sganciandolo da tutti gli altri, significa però compiere un’operazione non troppo diversa da quella criticata al Parlamento europeo, che esalta l’integrazione europea e l’atlantismo quale modelli “di pace e riconciliazione” dimenticandosi dei genocidi nei Balcani. Affinché una memoria collettiva sia possibile, e con essa un futuro di effettiva pacificazione in Europa e anche nella società italiana, è necessario che ciascun soggetto collettivo faccia i conti con la propria falsa coscienza. Anche su questo la risoluzione Ue, in un passaggio, sfiora il grottesco: invitando “la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato”, rimuove clamorosamente la propria indisponibilità a questo stesso tipo di confronto.
Se davvero guardasse in faccia il passato, forse la leadership europea si renderebbe conto delle conseguenze tragiche a cui ha portato, nel secolo scorso, la chiusura verso i profughi e i diversi. Se la sinistra facesse altrettanto, si renderebbe conto che l’anticapitalismo in salsa rossobruna di oggi è pericoloso come lo erano le alleanze di ieri; se i liberali la finissero di considerarsi di default il migliore dei mondi possibili, ammetterebbero che le contraddizioni del capitalismo in quest’epoca non si possono più ignorare. Perché ciò avvenga, è indispensabile uscire dal recinto ipocrita e provinciale in cui abbiamo rinchiuso la Storia.