Un esperimento degli anni ‘60 ci spiega perché, spesso, ci sentiamo impotenti di fronte alla realtà - THE VISION

Gli psicologi non fanno che ripeterlo: la realtà di oggi è troppo faticosa da vivere e gestire, soprattutto per le nuove generazioni. Mentre proliferano ansia da prestazione e paura del fallimento, tra eco-ansia, prospettive future incerte e aspettative della società sempre più alte, facciamo sempre più fatica a stare bene, e aumenta sia il numero di persone in psicoterapia, sia il numero di quelle che assumono psicofarmaci. Nonostante le possibili cure e terapie psicologiche e psichiatriche – che comunque in tanti purtroppo faticano a permettersi – vivere in un mondo non alla portata delle nostre energie e possibilità ci procura un profondo senso di impotenza che rischia di diventare parte di noi e che è stato identificato dallo psicologo statunitense Martin Seligman come “impotenza appresa”. 

Secondo Seligman sarebbe quello stato mentale che ci affligge quando, trovandoci di fronte a un problema di varia natura o entità, ci sembra di non essere in grado di affrontare la situazione facendo affidamento solo sulle nostre risorse. E questo accadrebbe perché, in passato, siamo stati oggetto di stimoli avversi senza avere la possibilità di porvi rimedio autonomamente. Chi ha vissuto questo genere di esperienze, di fronte a una qualunque situazione problematica può avvertire stress e ansia eccessivamente acuti, convincendosi di aver sempre bisogno di qualcuno che risolva i problemi al posto suo.

Nel 1967, presso l’Università di Pennsylvania, Seligman – considerato il fondatore della moderna “psicologia positiva” – avviò un famoso studio a riguardo. Il suo intento era di indagare le cause dei disturbi depressivi, già notevolmente diffusi nella seconda metà del XX secolo. Nell’ambito di queste indagini – confluite nel libro Helplessness: On Depression, Development, and Death – Seligman effettuò il seguente esperimento: sottopose tre gruppi di cani a condizioni e stimoli diversi, osservando poi il comportamento che questi assumevano nella medesima circostanza. Ai cani del primo gruppo fu fatta indossare un’imbracatura, ma questi non ricevettero alcuna scossa elettrica e furono lasciati liberi poco tempo dopo. I cani del secondo gruppo, invece, ricevettero in momenti casuali delle scosse elettriche che essi potevano evitare, schiacciando un bottone che si trovava alla loro portata. Infine, i cani del terzo gruppo subirono le medesime scosse casuali del secondo gruppo, senza avere a disposizione alcuna leva per interromperle. Se i cani del secondo gruppo sperimentarono la condizione di controllo sulle scosse inflitte, quelli del terzo fecero esperienza dell’impossibilità di agire sulle scosse e sulla loro potenza.

Nella seconda fase dell’esperimento, gli stessi tre gruppi di cani furono posti all’interno di una scatola divisa in due scomparti da una barriera alta solo poche decine di centimetri e che tutti i cani avrebbero potuto facilmente oltrepassare saltando. Anche in questo caso, ai cani dei tre gruppi furono inflitte scosse elettriche, alle quali però, stavolta, tutti potevano sottrarsi semplicemente oltrepassando la barriera e rifugiandosi nell’altro scomparto della scatola. Il risultato dell’esperimento fu inequivocabile: se i cani del primo gruppo e del secondo gruppo imparavano facilmente a mettersi in salvo in autonomia, saltando la barriera, quelli del gruppo tre si sdraiavano inermi, subendo l’effetto delle scosse e attendendo soltanto che queste cessassero. Quei cani, si accorse Seligman, mostravano di aver ormai introiettato quel senso di impotenza sperimentato nella prima fase dell’esperimento; di conseguenza, pur potendo salvarsi, nella seconda fase dell’esperimento, anche autonomamente, non lo facevano e subivano, passivi, le scosse somministrate. Si erano rassegnati al disagio e alla sofferenza, persuasi di non avere alcun controllo sugli stessi, di non potervi porre fine in modo indipendente dall’operato o dalla volontà altrui.

Con questo esperimento, Martin Seligman arrivò a dimostrare così che le persone che sviluppano un senso di impotenza pervasivo e duraturo nel tempo, la cosiddetta “impotenza appresa”, sono accomunate dalla percezione che la causa degli eventi che li rendono impotenti sia, innanzitutto, sempre poco controllabile o gestibile, anche nelle circostanze in cui invece si potrebbe fare qualcosa per porvi fine o, almeno, attenuarne gli effetti. E ancora, chi è affetto da impotenza appresa pensa che la sofferenza avvertita sia stabile, e che dunque faticherà ad andare via o, qualora svanisse per un breve periodo, tenderà comunque a ripresentarsi nel tempo – facendo sprofondare il soggetto in un’ansia da malessere imminente che, anche quando non è presente, potrebbe comunque essere in agguato e pronto ad “attaccare”. Infine, il soggetto impotente percepisce la propria sofferenza come globale, ovvero capace di intaccare tutte le sfere dell’esistenza.

Successivamente, Seligman ha condotto esperimenti anche su un campione di studenti universitari, facendo confluire i risultati nell’articolo Generality of learned helplessness in man”, pubblicato nel 1975 sul Journal of Personality and Social Psychology. Alcuni studenti, divisi in due gruppi, dovevano tutti svolgere compiti per i quali necessitavano di concentrazione, ma con in sottofondo un rumore molesto. Se però gli studenti del primo gruppo avevano a disposizione un interruttore per interrompere, a loro piacimento, il fastidioso rumore, quelli del secondo gruppo erano costretti a subirlo passivamente. Ci si accorse che gli studenti del primo gruppo, sebbene utilizzassero solo di rado l’interruttore per fermare il rumore, ottenevano risultati decisamente migliori rispetto al secondo gruppo. Non era il rumore molesto in sé e per sé a inibire la prestazione degli studenti del secondo gruppo, quanto piuttosto la percezione di non avere alcun controllo su quel rumore e, dunque, di essere impotenti.

Uno ulteriore studio sugli animali, condotto nel 2011, ha dimostrato che quelli che percepivano di avere il controllo sulla sofferenza eteroinflitta, e quindi di poterla estinguere o attenuare, mostravano un grado diverso di eccitabilità dei neuroni della corteccia prefrontale, rispetto a quelli affetti da impotenza appresa. Questi ultimi, non presentavano questa eccitabilità dei neuroni, andando di conseguenza facilmente incontro a sintomi depressivi o di ansia sociale. Ne deriva che, chi nella vita dimostra minori capacità di problem solving, ha una diversa risposta neuronale di fronte al pericolo e alla sofferenza e ciò inibisce la sua effettiva capacità e possibilità di auto-soccorrersi. Se il fallimento in sé porta quindi a un fisiologico, e momentaneo, calo dell’umore, è sperimentare l’impotenza di fronte al dolore del fallimento che agisce negativamente sulle nostre prestazioni e sull’efficienza, non solo presenti ma anche future.  

Questi studi –  che attraversano il secolo scorso e arrivano ai giorni nostri – ci rimandano facilmente al senso di impotenza e frustrazione che stiamo sperimentando oggi, ma che sperimentano soprattutto le nuove generazioni. L’aumento di ansia sociale e depressione, è inevitabilmente influenzato da una realtà circostante che ci mette in costante contatto con l’impossibilità di far fronte all’enorme quantitativo di pericoli, aspettative altrui, impegni da onorare e stimoli da gestire. La pandemia di Covid, i conflitti in Ucraina e a Gaza, i pericoli della crisi climatica, dell’inflazione, uniti al costante bombardamento di stimoli, informazioni e alla pressione sociale e social, gettano le nuove generazioni in quella situazione di impotenza di cui, in base agli studi di Seligman, potrebbero non riuscire a liberarsi mai. Se cercano aiuto negli psicofarmaci, o si ripiegano sul proprio malessere senza provare a risollevarsi, è perché l’impotenza sperimentata potrebbe aver agito sulla loro risposta neuronale, inibendo la capacità di reagire e risolvere determinati problemi o disagi. Anche quelli più piccoli, infatti, potrebbero essere percepiti come insormontabili, proprio come i cani dell’esperimento di Seligman subivano inermi le scosse elettriche, anche quando ormai avevano la possibilità di oltrepassare la barriera e salvarsi.

Così come i cani dell’esperimento, anche le persone afflitte da impotenza appresa percepiranno, sempre, che la sofferenza e il senso di fallimento sono inevitabili, e si sentiranno quindi costrette a chiedere un aiuto esterno anche quando, forse, potrebbero darsi aiuto da sole e uscire dal proprio abbattimento. Dobbiamo avere presente tutto questo, ogni volta che accusiamo i più giovani di non darsi da fare, di non impegnarsi a sufficienza, di volere tutto e subito e non saper aspettare. E questa condizione di impotenza, quella sì, è del tutto indipendente dalla loro “buona volontà”, e i sintomi di malessere profondo che ne derivano per nulla facili da attenuare, anche se “fuori c’è il sole”, e anche se “c’è chi sta peggio e, nella vita, esistono mali peggiori”.

Segui Giulia su The Vision