La cultura del wellness doveva farci stare bene, invece si è trasformata nell’ennesima schiavitù - THE VISION

Una volta i proletari lavoravano fino ad ammazzarsi e i nobili non avevano una professione, facevano sgobbare qualcun altro al posto loro. Poi, è nata la borghesia, che ha fatto del lavoro uno strumento per arricchirsi, migliorare la propria posizione sociale e in certi casi avere la conferma del favore di Dio. Dopo la seconda guerra mondiale, con il boom economico, il lavoro aveva ormai acquisito un diverso valore simbolico e sociale, e tutti, anche i più ricchi, si sono sentiti sempre più chiamati a dedicarsi anima e corpo a un’occupazione – anche se ovviamente questi ultimi facevano lavori decisamente meno usuranti di chi un patrimonio non ce lo aveva. Nel dopoguerra, per essere persone rispettabili bisognava darsi da fare, impegnarsi in un campo, fare o migliorare la propria fortuna, a prescindere. In ogni caso, chi partiva da una base finanziaria più alta aveva più tempo e risorse da investire in divertimento, che un tempo significava fare molti sport, molti dei quali richiedevano la necessità di viaggiare, oppure attrezzature costose. Altrimenti, c’erano gli sport popolari, quelli che venivano sostenuti e diffusi a livello endemico nel Paese grazie alle parrocchie e alle prime associazioni sportive dilettantistiche: pallavolo, calcio, atletica leggera; attività che non necessitavano di quasi nulla, oltre se stessi, ovvero il proprio corpo e un po’ del proprio tempo, per essere praticati. E questo era il benessere.

Prima ancora di essere un modo per migliorare la propria forma fisica, questi sport erano semplici e piacevoli passatempi. Negli Stati Uniti, invece, il significato dell’esercizio fisico si era spostato già da diverso tempo – fin dalla fine dell’Ottocento – assumendo la forma del body building, del fitness e dello yoga – o almeno di ciò che veniva chiamato yoga ed era stato appena esportato dai primissimi guru-avventurieri, che dall’India erano arrivati in California e all’esposizione universale di Chicago del 1893. Queste pratiche arrivarono e si diffusero anche in Europa solo molto tempo dopo: per decenni avere un corpo elastico e muscoloso era qualcosa da riservare a chi lavorava sotto i tendoni del circo. Eppure, il germe di questa trasformazione somigliava a una spora, capace di restare sopito pur conservando il suo potenziale per molto tempo. Si arrivò così alla nascita e allo sviluppo di quella che viene chiamata fitness culture, che a ben vedere più che una cultura, è ormai una vera e propria religione, e al marketing del wellness.

La società dell’immagine – sbocciata con l’avvento della fotografia e dalla sua pretesa e promessa mendace di fornire uno sguardo oggettivo sul mondo – ha cambiato la nostra percezione del corpo e quindi della nostra figura, e di conseguenza l’uso che facciamo dello sport e di tutte quelle pratiche che riguardano il nostro corpo. L’avvento del wellness – il “benessere”, termine squisitamente generico che ben si presta a operazioni pubblicitarie e fraintendimenti di qualsiasi tipo – è stato una sua spontanea evoluzione, anche perché la “dittatura dell’immagine”, che non ammette contraddittorio proprio in virtù del suo essere apparentemente vera, ha portato con sé vari tipi di disforia, ovvero una percezione falsata di come appariamo e ci percepiamo.

Il vecchio adagio – ripreso pure da Mary Poppins – ci ripete di non credere mai alle apparenze, eppure oggi l’apparenza è tutto, o forse è tutto ciò che ci resta. Anche se fondata su un inganno – l’intenzione che determina la forma – ha ormai acquisito un valore indipendente. Ci siamo fatti involucro. A questo si mescola la credenza per cui in corpore sano risieda una mens sana – ampiamente smentita da tanti atleti contemporanei a partire da Andre Agassi per arrivare a Simone Biles. Eppure lo sappiamo bene, anche se fa comodo ignorarlo, magro non vuol dire energico, tonico non vuol dire felice, simmetrico non vuol dire saggio. Ma spingendoci un passo oltre, siamo sicuri che la bellezza e la salute siano davvero il fine a cui tendendere? E, soprattutto, che siano sinonimo di felicità, o meglio ancora, di libertà?

Andre Agassi, 1988
Simone Biles, 2020

In questo clima culturale, anche le innocue e rassicuranti vignette sul profilo Instagram Poorly Drawn Lines, disegnate da Reza Farazmand, nello scenario ipersensibile e malamente sensibilizzato sul tema finiscono per sembrare triggeranti: “You doing well? Taking care of yourself?”, chiede un uccelletto rosa. “More or less,” risponde un uccelletto giallo, “Usually less”. Fine della vignetta, tre semplici riquadri. Ma il finale sospeso di questa minuscola storia solleva un enorme e fastidioso non detto: non ci prendiamo sufficientemente cura di noi stessi. Lo sappiamo. E sentirselo dire infastidisce, ci turba. Curarsi è faticoso, soprattutto quando si sta male. Il benessere oggi è diventato un dovere, un onere, non più qualcosa che facciamo per stare bene, divertirci, rilassarci, ma qualcosa che facciamo perché per le più svariate ragioni – dalla salute all’idea che gli altri hanno di noi – sentiamo di essere costretti a fare. Anche essere sani, energici, resistenti in certi ambienti sembra essere diventato l’ennesimo obbligo sociale. Dobbiamo prenderci cura di noi stessi. Così, invece di rigenerarci, queste pratiche, ci esauriscono, confluendo nell’imbuto strozzato delle nostre infinite to do list.

Al di là delle varie possibili e di certo non univoche interpretazioni, questo trend sembra manifestare una diffusa e trasversale insoddisfazione da parte delle persone nei confronti della medicina allopatica, i cui sviluppi se da un lato sono stati estremamente significativi per quanto riguarda l’approccio a determinate patologie, dall’altro hanno abbandonato del tutto le persone a loro stesse. È il discorso sulla prevenzione: un tempo, in mancanza di cure efficaci, era ritenuta fondamentale, oggi, invece, viene considerata solo per quanto riguarda più o meno costosi esami di check up, spesso molto intrusivi e spesso in grado di intercettare le patologie solo in stadio molto avanzato. Questi esami di solito sembrano giovare più all’economia del sistema sanitario che all’effettiva salute a lungo termine dei cittadini. Il paziente, infatti, anche quando lamenta un malessere, finché non rientra in una chiara patologia viene ignorato, i casi più eclatanti sono stati quello dell’endometriosi, e poi della vulvodinia o della fibromialgia: quadri clinici tuttora considerati “inesistenti” e “invisibili” da molti medici e che sono stati riconosciuti solamente quando dopo molte lotte portate avanti dai pazienti – in questo caso letteralmente – sono riusciti a guadagnarsi l’etichetta di patologie e quindi il diritto a essere curate.

Siamo tutti alla ricerca del benessere, perché avvertiamo malessere e malesseri, a volte insostenibili, ma che la medicina ignora e in caso di mancanza di risposte pronte ci dice che sono “psicosomatici”, e chiusa lì. Prendi e porta a casa. D’altronde secondo alcuni neuroscienziati la cognizione si identificherebbe proprio nel nostro percepirci a disagio, in disequilibrio. Ma se la scienza medica, nella quale riponiamo tanta fiducia, ci delude e ci ignora, allora a chi dobbiamo rivolgerci? I vari santoni e santone emersi negli ultimi dieci anni come porcini nella macchia sarda con tutti i loro vari trademark hanno subito identificato questa voragine nel mercato della salute e ci si sono inseriti, facendo tutti i danni del caso, e questo è un peccato, perché la medicina, quella “vera”, convalidata, peer to peer, accademica, scientifica e dunque con un’autorità avrebbe a dire il vero tutti gli strumenti per dare risposte a queste domande, solo che volutamente non le riconosce, non le ascolta, non le vede, e al tempo stesso però critica duramente chi ci prova – con buone o cattive intenzioni. La medicina, purtroppo, è una scienza molto meno dura di quanto ci rassicura e ci fa comodo pensare, i medici sono i primi a riconoscerlo e per certi aspetti è anche il suo lato più affascinante.

Il sistema capitalista, dal canto suo, ci impedisce di stare male e di essere ammalati (basti pensare a quante persone pur di non prendersi un giorno di malattia vanno a lavoro con la febbre). La ricerca nevrotica del benessere nasce anche da questo: per evitare di ammalarci siamo portati ad arricchire la nostra dieta di costosi integratori, che non sempre è detto funzionino, o comunque non nel modo che a volte promettono o che ci aspettiamo. Così, non abbiamo mai tempo di riposarci e di rimetterci in forze, non ci concediamo tempo, ci imbottiamo di farmaci palliativi, che invece di guarirci silenziano semplicemente i nostri sintomi, per continuare ad andare, andare, andare finché qualcosa, a forza di tirare la corda, non si rompe. Parallelamente, in uno strano gioco sadico, più siamo esausti più ci sentiamo in dovere di star bene, come se fosse colpa nostra, e quindi di perseguire il mito del benessere.

Quella del benessere, però, è oggi una delle religioni “laiche” più esigenti, perché per prendersi cura di sé servono soldi, e tempo – molto tempo – che viene sottratto alla produttività e che in molti casi non abbiamo a disposizione, quindi anche questa tensione impossibile da soddisfare genera in noi stress e frustrazione. Come ha fatto notare Federico Squarcini nel suo Ex Oriente Lux, Luxus, Luxuria – titolo già di per sé molto evocativo – riprendendo il pensiero del “believing without belonging” della sociologa britannica Grace Davie, l’industria del benessere rientra a pieno titolo sugli scaffali del supermercato delle religioni. Il benessere oggi assume ormai i contorni di un’ossessione aspirazionale, e si oscilla tra la visione calvinista del riconoscimento divino – ho una vita sana, dunque sto bene, dunque sono nelle grazie della divinità (qualsiasi cosa significhi); alla meritocrazia più individualista: Dio non esiste, quindi posso contare solo su me stesso, sulle mie forze e sul mio impegno per avere una vita sana e più lunga possibile (e anche in questa visione la durata della vita ha valore a prescindere, sentimento che si mescola alla giusta paura di essere costretti a vivere una vita di dolore, anche a grazie dell’accanimento terapeutico proposto dall’attuale visione medica e contro cui in tanti si stanno battendo).

Il benessere, inteso in questo modo, dunque, invece che aumentare la nostra libertà, al pari di una dipendenza o una qualche “cattiva” abitudine, ce la toglie – è il caso di chi passa da una dieta “sana”, o meglio equilibrata, all’ortoressia, per cui ingerire anche solo per una volta qualcosa di “sbagliato”, suscita un profondo senso di colpa e viene considerato alla stregua del peccato. D’altronde, già le parole con cui indichiamo questi due stati – benessere e malessere – connotano una forte accezione morale. Ci si chiede quindi se sia più libero un fumatore incallito, che sceglie di farsi del male, di “buttarsi via”, o un fissato del fitness, che se sta un giorno senza andare in palestra – per avere un’ottima forma fisica – ha un attacco di panico, e magari a forza di sollevare bilancieri si fa venire tre ernie. Gli ultimi studi sulla storia dello yoga – pratica spesso strumentalizzata e fraintesa ormai diventata simbolo e presidio di questa corrente – mostrano proprio questo. Le prime persone che hanno iniziato a praticare yoga non l’hanno fatto per stare meglio, essere più toniche, elastiche, o felici per come lo intendiamo noi adesso, ma per mettersi alla prova, in condizioni fisiche e mentali estreme, e ritirarsi dal mondo, imparare a morire. Niente dunque a che vedere con le sexy modelle inguainate in costosissimi leggins di poliestere riciclato con disegnati sopra fiori di ibisco e foglie di monstera.

Ovviamente, un servizio o un oggetto che ci vengono venduti come “curativi” e “per il nostro bene”, nella condizione in cui versiamo oggi non possono far altro che attirare la nostra attenzione, andando a suscitare e a rispondere a un desiderio che evoca una sfera semantica rassicurante, coinvolgente, buona e giusta. Sto investendo nel mio benessere, non sto facendo shopping compulsivo su un sito di fast fashion, sto facendo bene e lo sto facendo per il mio bene. Win win. Se da un lato la paura per il futuro paralizza alcuni e fa rivendicare loro “il diritto di fare schifo”, dall’altro spinge altri a distrarsi occupandosi forsennatamente di sé. Ma la realtà è che siamo tutti stanchi, spaventati, preoccupati e in cerca di un soccorso e soprattutto aneliamo ancora a quella felicità che qualcuno ci ha fatto credere ci fosse stata data, tolta, promessa. Involontariamente, quella vecchia storia dell’Eden, della mela e della cacciata influenza la nostra visione della vita più di quanto crediamo. L’idea del benessere, infatti, è strettamente legata a una presunta condizione che prima avevamo e che ci è stata tolta o abbiamo perso, ma evidentemente questo accordo si fonda su un enorme fraintendimento di comodo, ovvero che il benessere di noi trentenni, quarantenni, cinquantenni, sessantenni (le fasce d’età che possono investire nel benessere perché guadagnano e non ne possono più del loro mestiere da cui di solito derivano molti dei loro fastidi psico-fisici), non potrà mai essere il benessere di quando eravamo bambini, o adolescenti, e nemmeno giovani adulti. 

Questo marketing, come abbiamo visto, si fonda, al pari di tanti altri, su una falsa promessa – la solita vecchia promessa delle religioni. Il benessere estende la nostra illusione di avere controllo sulle nostre vite – in un momento di totale incertezza geo-politica. E se sicuramente certe abitudini hanno un peso non indifferente sul nostro corpo è anche vero che, per quando ci impegneremo non è detto che avremo la garanzia di essere salvati, è su questo baratro che dobbiamo trovare il coraggio di sporgerci per cercare di stare bene davvero e magari essere liberi, ovvero “salvi”.

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