Il mondo dell’agonismo sportivo è pieno di abusi di cui non parla nessuno

Tra i modi migliori per sviluppare competenze sociali, senso della spazialità, coordinazione e un rapporto positivo con il proprio corpo, ma anche la capacità di perdere e di impegnarsi per raggiungere un obiettivo, c’è lo sport. Talvolta, però, soprattutto ad alti livelli, la competizione può essere estrema, mentre in altri casi il rapporto tra allievi e allenatore può sfociare in dinamiche al limite del patologico o persino penalmente rilevanti. Se è vero che non si può generalizzare – quello dello sport è e resta un mondo positivo – è anche vero che i casi di abuso di vario tipo sono molti, e parlarne aiuterebbe a ripulire quegli ambienti in cui la trasparenza e l’etica non sono sempre garantite.

La cronaca recente – con un’inchiesta da parte di una commissione ad hoc istituita dal ministero dello Sport francese – ha fatto esplodere lo scandalo sugli abusi sessuali nel pattinaggio su ghiaccio d’oltralpe, a seguito di un libro di denuncia firmato dall’ex campionessa Sarah Abitbol, che ha raccontato le violenze subite da adolescente da parte dell’ex allenatore Gilles Beyer, il quale ha riconosciuto di aver avuto “relazioni intime” e “inappropriate” con Abitbol, chiedendole scusa. L’omertà ha impedito che la situazione venisse a galla fino a ora, quando un’indagine ha fatto finire sotto inchiesta ben 21 tecnici, di cui 12 accusati di molestie sessuali, altri di abusi fisici e verbali e persino di aver segregato delle atlete per punirle a causa di errori o comportamenti “sbagliati”.

Gilles Beyer

La Fédération des Sports de Glace ora è accusata di non aver fatto abbastanza per proteggere le giovani atlete dai predatori. Le vittime, infatti, sono spesso adolescenti. Queste ragazze, avviate a sport molto difficili e dalla disciplina ferrea, si ritrovano nella fase più delicata della crescita e l’allenatore – con cui trascorrono molto tempo – diventa un punto di riferimento, anche idealizzato. Questo può essere un bene, ma anche un male, nel caso decida di approfittarne, dato che si crea una situazione di sudditanza psicologica che può dar luogo a ricatti. Come spiega Francesca Lauria, comandante della sezione “Atti Persecutori” del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche, “Sul campo il coach decide se gioco o meno, se sono bravo o meno, se posso o non posso partire in trasferta. Può vanificare le mie aspettative o esaltarle. E se ha scopi perversi e incontra un soggetto fragile, il suo potere di ricatto è enorme”.

Le federazioni non hanno una normativa specifica per prevenire queste situazioni: e così, un allenatore di rugby, condannato nel 2015 per molestie su sei giovani giocatori, non ha subito processi da parte dell’ente sportivo e potrebbe tornare ad allenare. Mentre la giustizia sportiva sanziona lo sputo contro avversari e arbitro, non ha nemmeno un comma per punire esplicitamente gli atti di pedofilia e molestie, che pure non sono infrequenti. Tra il 2014 e il 2017 la Procura del Coni ha rilevato 44 casi in diverse federazioni, poi costrette a processare i loro tecnici sotto accusa, e ha sollecitato quella del basket ad affrontare gli episodi avvenuti tra 2014 e 2016 in varie città italiane. L’autunno scorso poi sono emersi abusi sessuali e molestie ai danni di sette allieve di un maneggio di Caserta, grazie alla denuncia al Telefono Azzurro di una delle vittime, che aveva già provato, invano, a raccontare l’accaduto nel maneggio stesso. Cristina Varano, Procuratore federale del judo, ha spiegato al Corriere che allontanare un’adolescente da un coach è difficile, perché “attorno a certi allenatori si costituisce un harem competitivo e pericoloso”, come una sorta di setta. “Tutti (o almeno tanti) sanno tutto, nessuno vuole rovinare la carriera di tecnici o atleti promettenti”, perché a rimetterci sono i risultati della stessa federazione. “E così la rete di protezione attorno ai ragazzi si sfalda”.

Per evitarlo, nel 2014 fu introdotto l’obbligo del certificato antipedofilia, ma di fronte alle proteste il ministero esentò i volontari e gli assunti dello sport dilettantistico, cioè la quasi totalità degli allenatori che operano con bambini e minorenni. Ecco perché nessuno sapeva che un allenatore di calcio, poi arrestato nel 2017 per molestie sui giovani calciatori di sei diverse squadre, aveva tre condanne per possesso di materiale pedopornografico e atti osceni su minori. Ed ecco perché probabilmente esistono, in Italia e nel mondo, situazioni simili alla “cultura della paura” instaurata dal medico sportivo Larry Nassar, accusato di aver molestato più di 250 giovani ginnaste statunitensi, in uno dei più grandi scandali della storia sportiva, raccontato anche dal documentario Athlete A. Nel 2018, d’altronde, una ricerca dell’Università di Manchester rivelò che oltre 100 calciatrici professioniste dichiararono di aver subito abusi sessuali, 40 delle quali dai propri allenatori e 22 dai dirigenti della squadra.

Larry Nassar
Larissa Boyce e Alexis Alvarado, entrambe vittime di abusi da parte di Larry Nassar, si abbracciano durante il processo a suo carico, Michigan, USA, 2018

Un’altra forma di abuso è quella rappresentata dalle violenze psicologiche per il controllo del peso, attuate sistematicamente da molti coach. In Regno Unito è stata recentemente sospesa la coach Claire Barbieri a causa di questo genere di torture: l’ex ginnasta Nicole Pavier ha raccontato di essere diventata bulimica a causa di ansia, digiuno forzato e punizioni dettate dalla coach. Ma gli esempi sono tantissimi. A febbraio di quest’anno anche Aleksandra Soldatova, campionessa russa di ginnastica ritmica, ha annunciato una pausa per risolvere la bulimia. I disturbi alimentari legati a certe discipline sono un problema frequente. La leggerezza è fondamentale in molti sport, ma la situazione può sfuggire di mano. Accadde alla ginnasta Christy Henrich, che nel 1994 morì per anoressia a 22 anni, dopo un calvario scatenato dai commenti di un giudice secondo il quale era “troppo grassa”: quando le persone attorno a lei si accorsero del problema, ormai era troppo tardi. Non è lo sport in sé a provocare i disturbi, ma lo stress, i riflettori puntati sul corpo, il perfezionismo e la competizione estrema.

Succede anche nella danza, ambiente di cui si è parlato spesso dopo il licenziamento dalla Scalaper giusta causa” di Mariafrancesca Garritano, “colpevole” di aver rilasciato un’intervista all’Observer in cui la ballerina descriveva come tossico l’ambiente del teatro. Le polemiche sembrano dimostrare che sollevare il problema è ancora difficile, ma i consensi alla denuncia di Garritano non mancano. Elena Delmastro, ballerina e insegnante, sottolinea che questa disciplina può solo far emergere un disagio latente, ma ammette: “Mi è capitato di vedere colleghe di corso costrette a salire ogni giorno sulla bilancia, davanti alle altre”. Se, come sembra, fu il coreografo George Balanchine a chiedere per primo ai ballerini di fargli contare le costole, la situazione precipitò negli anni Novanta, con l’apertura dell’ex Unione Sovietica e l’arrivo nei teatri occidentali delle danzatrici russe, caratterizzate dalla costituzione sottile, la cui tecnica raggiungeva vette incredibili, grazie alla disciplina ferrea a cui dovevano sottostare.

La magrezza è necessaria nel balletto, ma nessuno insegna a mantenerla in modo sano, e anzi, spesso viene sfruttata come arma di sottomissione psicologica. Lo sottolinea anche Benedicta Boccoli, ex danzatrice: “Le ballerine dovrebbero essere seguite da staff di specialisti, proprio come avviene nel calcio”. Negli Usa, in effetti, quando Heidi Guenther, dopo gli inviti a “perdere qualche chilo”, morì nel 1997 di anoressia, il Boston Ballet e altre istituzioni avviarono programmi preventivi con psicologi e nutrizionisti.

Qualche mese fa l’allenatrice della squadra olimpica di ginnastica, Usa Maggie Haney, è stata sospesa: bullizzava le allieve e le costringeva ad allenarsi anche infortunate. Se il fine è una medaglia, ogni mezzo è lecito, e gli atleti sono strumenti di propaganda, anche a prezzo della loro salute. Fu così per tante vittime del doping di Stato nella DDR, a cui – spesso inconsapevolmente – furono somministrate dosi esorbitanti di Oral-Turinabol, uno steroide che fa crescere i muscoli e abbrevia il tempo di riposo necessario tra gli allenamenti, ma alla lunga causa tumori, calcificazioni cardiache, blocchi renali, danni epatici, problemi scheletrici, aborti, alterazioni metaboliche e, nelle donne, il doloroso e rapido ingrossamento della clitoride e, spesso, l’abbassamento della voce. Se quei livelli sono (si spera) inarrivabili, la somministrazione di farmaci ad atleti inconsapevoli non è rara: in passato erano diffusi quelli per inibire lo sviluppo, usati in alternativa alla falsificazione dei passaporti per superare i limiti d’età. Proprio per evitare le situazioni pericolose, Bruno Grandi, ex dirigente del Coni ed ex presidente della Federazione Internazionale di Ginnastica, si batté per alzare dai 15 ai 18 anni l’età minima per partecipare alle Olimpiadi, ma la proposta non fu approvata. Oggi è 16 anni, che però rimane un periodo fragile della crescita, esposto ai potenziali problemi che comportano la competizione e la durezza degli allenamenti e dei regimi alimentari.

L’età adulta, comunque, non mette al riparo da abusi e discriminazioni in cui anche gli atleti più affermati possono incappare. Perché, quando non è la politica a sfruttare i campioni a proprio piacimento, usandoli e gettandoli via per convenienza, lo fanno gli sponsor, come denunciato l’anno scorso dalla velocista Allyson Felix, che ha dichiarato sul New York Times: “Se abbiamo dei figli, rischiamo tagli ai nostri guadagni da parte degli sponsor durante e dopo la gravidanza. Questo è un esempio di un’industria le cui regole sono fatte in gran parte per e dagli uomini”. Stando a quanto riporta l’atleta, Felix subì la pressione di tornare alla forma fisica pre-gravidanza subito dopo la nascita della figlia, nel 2018, nonostante il cesareo d’emergenza, e chiese la garanzia contrattuale che non sarebbe stata penalizzata in caso di mancata vittoria nei mesi subito dopo il parto, ma lo sponsor Nike – che a detta sua avrebbe voluto pagarla il 70% meno di prima – rifiutò. L’atleta, spiega, aveva scelto proprio quell’azienda per l’iniziativa Girl Effect, a sostegno delle donne.

In seguito, diversi marchi hanno annunciato garanzie contrattuali per le donne con figli e, poco dopo, anche Nike si è adattata a questa linea. Segno, ancora una volta, che delle problematiche nascoste dietro alle medaglie e agli applausi si parla troppo poco, ma è necessario farlo. Denunciare gli abusi e aprire un dibattito aiuterebbe a restituire allo sport la sua dimensione migliore e a evitare gli scandali di cui ogni volta fingiamo di stupirci.

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