L’eutanasia ha sempre fatto parte della tradizione italiana. È tempo che diventi legge.
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Oggi si lotta per permettere ai malati terminali di scegliere di interrompere le proprie sofferenze con la morte, come già si fa in molti altri Paesi che risentono meno delle influenze della Chiesa. Domani quella persona potrebbe essere tua nonna, tuo figlio, tua sorella: è il messaggio allarmista e fuorviante lanciato da una recente campagna pubblicitaria diventata virale, firmata dagli ultracattolici della Pro Vita & Famiglia, già famosi per i legami assodati con l’estrema destra italiana e ora impegnati nell’ennesima battaglia contro una possibile legge progressista. I volti che fissano lo spettatore dal video ideato da ProVita sono quelli di un giovane diciottenne bullizzato, una donna caduta in depressione per il tradimento del marito, un uomo disoccupato, un’anziana a cui è stato diagnosticato un tumore. Tutte persone che, secondo l’associazione, potrebbero finire per richiedere l’eutanasia se l’Italia, dopo decenni di titubanze, decidesse di legalizzarla.

La premessa, naturalmente, è illogica. L’eutanasia – la pratica con cui un medico procura anticipatamente la morte di un malato consenziente per alleviarne le sofferenze – è infatti limitata a casi in cui la persona che ne fa richiesta soffra di una malattia terminale che provochi una profonda sofferenza a cui non esiste cura. È così in Belgio, dove la procedura è legale fin dal 2002, così come in tutti gli altri Paesi che la praticano: Canada, Colombia, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Potrebbe essere così anche in Italia a seguito alla sentenza della Corte costituzionale di ieri che afferma che “a determinate condizioni” non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

La sentenza ha messo in imbarazzo una politica che è rimasta immobile a guardare mentre il ramo giudiziario faceva il suo lavoro e che ora sarà obbligata a legiferare in merito. Se in moltissimi ora esultano, però, altri sono già sul piede di guerra: i 4mila medici aderenti all’Associazione Medici Cattolici Italiani, ad esempio, hanno già annunciato che si opporranno fortemente alla sentenza, praticando l’obiezione di coscienza. E Papa Francesco, da parte sua, ha chiamato l’eutanasia “falsa compassione”.

Ciò che rimane, tra i fuorvianti manifesti di ProVita e alle costanti interferenze delle associazioni cattoliche, è il messaggio nascosto tra le righe di ogni discorso che si oppone all’eutanasia. Un messaggio che attinge a piene mani da secoli di valori cattolici, e che può essere diviso in due punti essenziali: il primo corrisponde alla convinzione che la vita non ci appartenga, ma che sia invece un dono di Dio – o meglio, un prestito, visto che non possiamo disporne liberamente – e che dobbiamo curarlo e rispettarlo, a differenza dei maglioni improbabili che ci arrivano dai nostri famigliari per Natale; il secondo è che riconoscere di essere i proprietari, invece dei custodi, della nostra vita significhi soccombere a una modernità senza Dio e senza, di conseguenza, veri valori.

La narrazione portata avanti dalla Chiesa che vede la morte volontaria dei malati terminali come il culmine di una cultura moderna investita dal nichilismo e dall’individualismo, però, è già stata contestata in passato da numerosi esempi che emergono dalla storia europea. Tra questi uno arriva dalla Sardegna, terra controllata da regnanti cattolici fin dal 1297 ma erede di una civilizzazione autoctona fiera e plurimillenaria di cui rimangono ancora usanze, tradizioni e leggende. Una di queste è legata a una figura mistica e discussa, macabra ma allo stesso tempo circondata da un’aura di gratitudine: la femmina accabadora, o s’agabbadóra – probabilmente dallo spagnolo “acabar”, porre fine, derivato da “cabo”, capo, ovvero dall’idea di estremo (finale).

Le ricostruzioni del Museo Etnografico Galluras di Luras, nell’entroterra sassarese, ci restituiscono l’immagine di una donna che sembra emergere direttamente dall’incubo più archetipico dei bambini. L’accabadora è, infatti, un personaggio vestito di nero da capo a piedi, con il viso coperto, che brandisce tipicamente “su mazzolu”, un bastone d’olivo o una sorta di grosso martello di legno. Secondo la tradizione orale sarda, in particolare nelle regioni di Marghine, Planargia e Gallura, questo “angelo della morte” era incaricato di portare la morte a persone in una situazione di dolore e malattia tale da spingere la vittima o i suoi familiari a chiederla. L’accabadora veniva chiamata dalla famiglia del malato e di notte, una volta lasciata sola con lui, poneva fine alle sue sofferenze con un colpo secco alla testa, strangolandolo o soffocandolo con un cuscino.

La figura viene descritta per la prima volta in un Dizionario compilato da un abate piemontese e ripresa da un giornalista poi diventato politico, Vittorio Angius. Redatto nel 1835, il Dizionario raccontava che nella zona di Bosa, sulla costa occidentale dell’isola, girava voce dell’esistenza di donne “speciali” il cui ruolo era quello di provocare la morte, veloce e indolore, di malati terminali o in grande agonia. La sua effettiva esistenza, al di fuori della leggenda, è ampiamente contestata. Secondo Italo Bussa, celebre scrittore sardo autore di L’accabadora immaginaria, queste donne sarebbero state, più che delle storiche precorritrici dell’eutanasia che svolgevano un importante ruolo di “assassine umanitarie”, donne esperte di rituali magici che abbreviavano l’agonia del malato. Altri sostengono invece che alcune donne che operavano allo stesso tempo come levatrici e come accabadore avrebbero agito fino agli anni Quaranta del Novecento nella Sardegna profonda. Le testimonianze orali riportano di almeno due casi recenti: uno avvenuto a Luras nel 1929, e uno nel 1952, a Orgosolo. La figura è traspirata anche nella cultura pop, con il primo romanzo di Michela Murgia, Accabadora, e l’omonimo film del 2015 diretto da Enrico Pau.

dal film “Accabadora” (2015)

Che siano davvero esistite donne incaricate di eseguire questa forma rudimentale di eutanasia per le loro comunità o meno, la storia di s’agabbadóra illustra come una concezione meno conflittuale e drammatica della morte rispetto a quella cattolica (e di gran parte delle religioni abramitiche) fosse possibile all’interno di società, come quelle che popolavano l’entroterra sardo da migliaia di anni prima della nascita di Cristo, che sarebbe impossibile accusare di nichilismo e individualismo, in quanto basate su un senso condiviso di comunità e appartenenza, in cui porre fine al tormento dei malati non era certo ritenuto un peccato, ma soltanto la lecita fine di terribili sofferenze.

Non a caso, figure simili a quella dell’accabadora spuntano qui e là in diverse culture rurali del Mediterraneo – dalle majare siciliane a cui i più poveri si rivolgevano per cercare rimedi, guarigione ma anche liberazione da una condizione endemica di sofferenza, alle herbariae presenti già nel diritto dell’Antica Roma come donne esperte nell’uso di erbe e piante che alleviavano la sofferenza legata al parto e alle malattie con metodi naturali, e bruciate più tardi come streghe  ai tempi dell’Inquisizione. Un altro esempio arriva dal Salento, dove ancora nell’Ottocento era usanza arrecare la morte degli anziani malati per soffocamento, in un rituale altamente simbolico durante il quale si appoggiava un pesante giogo, di quelli utilizzati per manovrare i buoi, sul petto del malato.

In un Paese come l’Italia, dove la Chiesa Cattolica ha ancora una fortissima presa sul discorso pubblico e sulla politica benché, come mostrano i dati raccolti dal Pew Reserarch Center, soltanto il 26% della popolazione sia certa di credere in Dio e solo il 21% ritenga importante la religione nella propria vita, rivalutare il peso di determinate posizioni oscurantiste – sostenute da forti lobby – diventa centrale. Al di là della retorica della “cultura della morte nella società contemporanea” contro cui ammoniva Papa Giovanni Paolo II, o della caratterizzazione dell’eutanasia come “affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita”, come descritta da Papa Francesco, esiste tutto un mondo che, almeno fin dai tempi di antichi greci e romani, riconosce il fatto che in particolari casi la morte sia semplicemente preferibile alla vita.

Esistono altre filosofie morali, oltre a quella cristiana, e non credere nel Dio dei Vangeli non significa necessariamente essere nichilisti, cosa che comunque viene stigmatizzata come una “colpa” solo all’interno di un certo tipo di visione moralista e nel Grande Lebowski. L’Europa è erede sì di secoli di cristianesimo, ma anche di millenni di altre culture, sostenute da valori che in certi casi sembrano essere molto più evoluti dei nostri e che non andrebbero dimenticati.

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