Il proibizionismo è la peggiore risposta alle droghe, favorisce narcotraffico e tossicodipendenza - THE VISION

Quasi tutti fanno uso di droga, solo che alcuni lo ammettono – e chiedono che questo mercato venga legalizzato, per aumentare la sicurezza dei consumatori ed evitare che sia uno dei tanti terreni di scontro ideologico che vira rapidamente al qualunquismo delle opinioni sbraitate nei talk show, oltre che regalare enormi capitali alla criminalità organizzata; e altri non solo mentono, ma si accaniscono contro chi proprio come loro ne fa uso, neanche fosse una proiezione esterna dei loro irrisolti. Di solito questi ultimi condividono l’appartenenza a gruppi politici di destra, ma anche di centro-sinistra (dato che ormai dal PD in poi vale tutto), con persone che si impegnano a distruggere, smantellandoli un colpo alla volta, anche quei pochi diritti faticosamente raggiunti, come l’interruzione volontaria di gravidanza, o la libertà di amare chi si vuole e avere la possibilità di veder riconosciuta la propria unione e gli eventuali figli che ne scaturiscono. Evidentemente, però, alla maggioranza degli italiani non interessa che un politico sostenga un valore e poi nella vita di tutti i giorni si comporti esattamente all’opposto. È il caso di tanti divorziati che si battono per l’incolumità della “famiglia tradizionale”, a loro avviso costantemente aggredita. E forse a quella stessa maggioranza di italiani sembra non interessare neppure l’ipocrisia per cui la libertà di non conformarsi alle leggi esistenti non venga sostenuta nell’ambito delle battaglie civili o delle proposte di riforma, ma solo, al bisogno, quale mero argomento di apologia individuale. Come nel caso dell’ex senatore e deputato di Forza Italia Gianfranco Miccichè, che a quanto è emerso da una recente indagine secondo gli investigatori avrebbe acquistato coca dallo chef Mario di Ferro, oggi ai domiciliari, che la vendeva a una selezionata clientela. Dalle immagini acquisite dagli inquirenti risulterebbe che il politico andasse a ritirala anche a bordo delle auto blu della Regione Sicilia. Miccichè ha però negato tutto, pur ammettendo di aver fatto uso di coca in passato, e si è rifiutato di fare il test antidroga.

Gianfranco Miccichè

Durante il suo intervento in occasione della “Giornata mondiale contro le droghe”, la premier Giorgia Meloni – neanche a dirlo – ha invocato uno “stop al lassismo” che confonde la liberalizzazione delle droghe con una forma di libertà, aggiungendo che “[le droghe] fanno male tutte, senza distinzioni”, peccato che la comunità scientifica la pensi molto diversamente, e non certo per il desiderio di ingannarci. Il problema è che, come al solito, la situazione è ben più complessa, anche se molti politici e cittadini italiani faticano a capirlo, mossi spesso da emozioni negative trascinanti, ridotte conoscenze e analfabetismo funzionale. Con buona pace di ciò che afferma Meloni, infatti, dopo un secolo abbondante di tentativi di normare e punire il consumo di droghe, è ormai globalmente riconosciuta l’inefficacia del proibizionismo, che invece alimenta le tossicodipendenze e il narcotraffico. Inoltre, la cannabis nel 2020 è stata eliminata dalla lista delle “sostanze dannose” dopo una valutazione dell’Onu, ed è infine evidente la strumentalizzazione del tema, dato che i nostri governanti dal pugno di ferro sembrano dimenticarsi che anche l’alcool, il tabacco, il caffè, il sale e lo zucchero danno dipendenza, e il loro abuso può avere gravi effetti collaterali.

Giorgia Meloni

Di fronte all’incontestabile fallimento dell’approccio repressivo, molti Paesi hanno infatti optato per depenalizzare sempre di più il consumo, la coltivazione e la vendita di droghe, in particolare quelle leggere, sostenendo politiche di sensibilizzazione e informazione sul loro uso e i loro potenziali effetti collaterali, per prevenire il rischio di abuso. Invece, noi trattiamo ancora il tema in maniera medievale, con toni da caccia alle streghe, del tutto irragionevoli e illogici, oltre che antiscientifici e irresponsabili. Come riportano i dati Espad presentati dall’Iss, il consumo di stupefacenti – a differenza dei primi decenni del Novecento – è tutt’altro che marginale nel nostro Paese e nulla lascia pensare lo diventerà in futuro, nonostante le politiche di stampo proibizionista, solo che invece di riconoscerlo e agire per liberarlo dallo stato di tabù, viene ripetutamente diffusa una disinformazione strategica su questo tema.

In Italia si sono susseguiti nel tempo quattro interventi legislativi maggiori in materia di stupefacenti. Il primo di epoca fascista risale al 1923 e rispondeva all’obbligo di adeguare la legislazione nazionale al “Trattato dell’Aia” sul commercio degli stupefacenti, che in realtà in Italia era rivolto soprattutto all’uso terapeutico. Il secondo, del 1954, entrò in vigore sulla scia delle pressioni internazionali a inasprire il regime delle sanzioni – anche perché in seguito alle due guerre mondiali i consumi avevano iniziato a espandersi, in particolare tra i soldati e i reduci, vittime dall’allora ancora ignota sindrome da stress post traumatico. Così si passò alla carcerazione preventiva in caso di semplice possesso di una canna, e gli stessi medici furono dissuasi – per paura di incorrere in severe sanzioni – dal prescrivere oppiacei, anche nei casi estremi di dolore oncologico. Queste rigidissime misure, però, come è noto non si rivelarono efficaci nell’evitare l’esplosione esponenziale dell’epidemia di eroina degli anni Settanta. Da cui scaturì la disciplina del 1975 – periodo di importanti riforme socio-sanitarie, tra cui l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale – che inasprì le pene per gli spacciatori e sviluppò percorsi di recupero socio-sanitario per i consumatori, distinguendo tra droghe pesanti e leggere, oltre ad aggiungere il concetto di “modiche quantità”, ovvero minimi quantitativi di droga per uso ricreativo personale depenalizzati. Il 2 ottobre del 1979 esce come copertina di Panorama una foto di Emma Bonino, allora deputata, mentre si accende uno spinello e il titolo: “Marijuana libera, eroina sconfitta? Io fumo per te”. La radicale da allora non ha mai messo da parte il suo impegno per la liberalizzazione della cannabis.

Nel 1990, con la legge Jervolino-Vassalli (scritta in collaborazione con la comunità di San Patrignano), si cercò poi un compromesso tra il proibizionismo degli anni Cinquanta e l’assistenzialismo successivo al ‘68, riportando il consumo di stupefacenti nell’ambito penale solo nel caso in cui la quantità detenuta fosse superiore alla dose media giornaliera stabilita dalle apposite tabelle. Questo inasprimento fu oggetto del quesito referendario sulle droghe leggere del 1993, la cui abrogazione fu approvata con una maggioranza del 55% dei votanti. L’illiceità della detenzione finalizzata all’uso personale tornò così ad essere sanzionata esclusivamente a livello amministrativo. Andò invece delusa l’aspettativa che l’esito referendario conducesse a un intervento legislativo più ampio e organico. E quando nel 2006 questo avvenne – con la Fini-Giovanardi, dichiarata dopo otto anni incostituzionale – si andò in totale contrapposizione con lo spirito e il desiderio di liberalizzazione che aveva portato al referendum, che vide la popolazione Italiana divisa in due sul tema. Dopo una serie  di interventi legislativi frammentari, nell’estate 2021, era poi emerso un nuovo quesito referendario indirizzato ad abrogare la proibizione della coltivazione della cannabis, ma lo stesso è stato giudicato inammissibile dalla Corte costituzionale nel febbraio 2022, con la motivazione  per cui poteva interpretarsi come esteso ad altre piante psicotrope, in violazione degli accordi internazionali. E, diversamente da quanto ci si sarebbe aspettati, a seguito di questa bocciatura per questioni formali, il  legislatore non ha ritenuto di intervenire per dare un seguito all’adesione raccolta dall’iniziativa popolare, condannando il panorama normativo italiano in materia all’immobilismo e all’anacronismo. Secondo l’economista Ferdinando Ofria, professore dell’Università di Messina, solo la legalizzazione della cannabis porterebbe allo stato circa 10 miliardi di euro.

A quanto pare, in Italia, però, la residua fetta di opinione pubblica, già di per sé poco consapevole rispetto alle droghe, è sempre stata facile da influenzare negativamente attraverso l’uso selettivo di evidenze, demagogia spicciola, e dati poco rappresentativi, e quindi nemmeno l’esercizio della democrazia diretta ha portato a un cambiamento rispetto al consumo non terapeutico di stupefacenti, anche se per poco. Anche se ormai da anni realtà come megliolegale.it e Associazione Luca Coscioni stanno facendo un lavoro di sensibilizzazione importante. Nemmeno negli Stati Uniti la morale perbenista ha avuto così tanto peso. In America, infatti, la democrazia diretta ha rappresentato un fattore determinante per legalizzare il consumo ricreativo e terapeutico della cannabis, attivando un fenomeno che è stato definito come “defiant innovation” (innovazione provocatoria), perché in netto contrasto con la legislazione federale.

Da sempre le droghe hanno tracciato la storia socio-economica delle civiltà, per millenni e tuttora in lingua inglese la parola farmaco (rimedio, cura per uno stato di sofferenza, afflizione) e droga sono sovrapposte, e non solo a livello linguistico, ma concreto. La storia di alcune aree geografiche del mondo è stata per vari motivi ampiamente influenzata da quelle che oggi genericamente chiamiamo droghe, ovvero le sostanze stupefacenti (oppiacei, stimolanti, cannabis e derivati), basti pensare al Messico, all’Afghanistan, ma anche alla stessa Italia per quanto riguarda lo smistamento delle sostanze e l’esportazione verso altre mete, in particolare gli Stati Uniti, in mano alle organizzazioni criminali. Gli esseri umani, fin dagli albori della storia, hanno consumato, cercato e sperimentato diversi tipi di droghe, è il caso dell’ayahuasca e della mescalina, oggi ammantate di un alone esotico ed esoterico, come strumenti di ricerca per psiconauti, ma anche della coca sempre in Sudamerica, o del betel in India, la noce di areca. Già nell’antica grecia e nell’antica Roma venivano ampiamente consumate sostanze stupefacenti, da parte dei famosi oracoli, o per officiare riti collettivi, basti pensare ai baccanali, ma anche per curarsi, come nel caso dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, che su consiglio di Galeno, il famoso medico, consumava costantemente oppio.

L’uso spirituale, al pari delle tempistiche di raccolta e preparazione, normava il consumo di queste sostanze, inserendole in un contesto pubblico, in cui il “viaggio” del singolo era accompagnato dal viaggio del gruppo, guidato e indirizzato, sia a livello di significati e immagini, che di tempistiche e ritmi (canti e percussioni), che aiutavano “a non perdersi” e a integrare quell’esperienza eccezionale all’interno del proprio percorso di vita. Il consumo di droghe era quindi associato a riti religiosi, e in alcuni casi il loro uso è stato preservato e difeso fino a oggi proprio grazie a questa caratteristica, come nel caso della Chiesa nativa americana, che mescolava i riti collettivi legati al peyote alla mistica cristiana e che fu duramente osteggiata dalla DEA (Drug Enforcement Administration). Il consumo del peyote – o del San Pedro, un altro tipo di cactus presente in Sud e Centro America con effetti simili e già usato dagli Aztechi e dai Maya, insieme al pulque, al tabacco, alla coca e ai funghi contenenti psilocibina – permise infatti alle comunità native di ricostruire una propria identità, e di difenderla, anche dopo le guerre sioux, una volta obbligati alla cattività delle riserve.

Come sostennero molti ricercatori, scienziati e antropologi, l’ingestione di questi cactus essiccati non aveva effetti collaterali, anzi, poteva avere importanti benefici sulla salute, a differenza dell’alcol, altra droga, che non siamo abituati a considerare tale – anche se è noto sia cancerogeno – esclusivamente per via di equilibri socio-economico-politici. Fu proprio l’alcol – già duramente osteggiato negli Stati Uniti con le politiche proibizioniste – a devastare tante comunità di indiani d’America. E tuttora è l’alcol a procurare crisi d’astinenza che possono portare alla morte, peggio ancora dell’eroina, ed è sempre l’alcol a essere la sostanza che scandisce l’esistenza un numero sempre in crescita di persone, in particolare giovani ma non solo, soprattutto da dopo la pandemia. Però, nel nostro Paese, tra i maggiori produttori del mondo, un bicchiere di vino viene ammesso anche durante la gravidanza da molti ginecologi, fingiamo che gli alcolisti siano solo quelli che tornano a casa sbronzi e menino moglie e figli, non i tanti coetanei che ci stanno intorno e che superano abbondantemente le dosi giornaliere raccomandate anche solo durante un aperitivo e poi magari guidano: ma d’altronde il vino sta alla base della nostra convivialità. Non a caso, il contrasto all’alcolismo (esploso in seguito alla prima industrializzazione all’inurbamento), a differenza della droga incontrò molta più resistenza, sia per ragioni economiche che culturali, e in Italia non fu mai presa in considerazione una seria virata proibizionista. Lo stesso fascismo, cercò sì “per difendere la stirpe” di riportare gli italiani verso una maggior sobrietà, ma non arrivò mai a punire l’uso di alcolici.

Nel tempo, in occidente, la relazione tra rito e uso di sostanze stupefacenti è stata spazzata via, in particolare dalla Chiesa Cattolica anche se ha continuato a esistere come filone sotterraneo, ravvivato in particolar modo da alcuni elementi della comunità scientifica (e a cavallo di otto e novecento dalle stesse case farmaceutiche che speravano di scoprire nuove aree per i loro business e quindi finanziavano progetti di ricerca ante litteram e abbastanza rocamboleschi). Nella società moderna occidentale, sempre più “illuminata”, atomizzata e materialista, la trama psicologica del rito collettivo è andata via via a disgregarsi, lasciando sempre più spazio all’abuso e alla fruizione individuale, prima all’interno di alcuni gruppi elitari, nobili ed artisti, e poi come dicevamo tra i soldati durante le guerre, infine col boom economico, valicando frontiere sociali e generazionali, con l’arrivo sui mercati negli anni Settanta dell’eroina (sintetizzata per la seconda volta nel 1897 da Felix Hoffmann, finanziato dalla casa farmaceutica Bayer), che in particolar modo in Italia, sedò, placò e falcidiò la generazione dei più giovani, quella che avrebbe dovuto concretizzare le lotte del ‘68.

Tra la fine degli anni Ottanta, fino all’inizio degli anni Novanta, si registravano ancora centinaia di morti ogni anno per overdose da eroina, e la percezione collettiva dell’emergenza fuori controllo innescò una potente reazione popolare, proprio da parte di quella generazione che era stata completamente distrutta dalla tossicodipendenza e che nel 1989 lanciò lo slogan “Né eroina né polizia” durante il famoso “Festival dei tre giorni” al Parco Lambro di Milano, a rimarcare quanto fossero inutili le politiche proibizioniste. Chiunque, nato negli anni Ottanta si ricorderà dei racconti tremendi dei propri genitori, per cui trovare un amico morto in un bagno pubblico, o forarsi con una siringa infetta poteva essere la normalità, ma anche farsi, ed essere riusciti faticosamente a uscirne. Ricordo i racconti di mia mamma della pineta di Lido di Classe, in cui all’epoca si trovavano le siringhe conficcate nei tronchi dei pini marittimi, e le narrazioni urbane delle grandi città come Milano dove se ne trovavano a tappeti. Un contesto di emarginazione sociale in netto contrasto con l’immagine illusoria ed edonista che nel senso comune ha caratterizzato gli anni Ottanta.

Oggi, però, il terrore legato all’eroina e alla paura di contrarre l’AIDS, che serviva come una sorta di prevenzione tramandata nell’immaginario collettivo, si è allentato, anche a causa del taglio, nel 2005, delle lezioni sugli stupefacenti che gli operatori delle ASL tenevano nelle scuole, e che ha fatto sì che la droga tornasse a diventare un tabù (insieme alla sessualità), un mondo sommerso, attraente e sconosciuto e quindi potenzialmente molto rischioso, tant’è che molti ragazzi affermano di aver provato delle droghe senza nemmeno sapere che cosa fossero. Ciò ha permesso alla malavita di tornare ad alimentare questo segmento di mercato. Ma a parte lo scalpore suscitato di tanto in tanto da qualche inchiesta giornalistica, le istituzioni fanno finta di niente, e invece che attuare protocolli per far fronte al problema accusano le vittime, spingendole nella grande e generica categoria dei “deviati”, come ha definito Sallusti i tossicodipendenti, facendo confusione al massimo con i “comportamenti devianti” di cui parla di solito l’Arma dei Carabinieri. Nei primi nove mesi del 2020, in piena pandemia di Covid, nel nostro Paese sono morti 40 ragazzi di overdose, la maggior parte dei quali Millennial (75%) e i restanti parte della Gen Z. Negli ultimi anni, infatti, l’Italia è stata invasa dall’eroina a basso costo, che ha riportato le nuove generazioni nel buco nero degli anni Ottanta. E se per alcuni può sembrare quasi una leggenda metropolitana, in alcune regioni – tra cui Emilia, Toscana, Sardegna e Calabria, ma non solo – molte famiglie vivono quotidianamente questo incubo, anche in contesti apparentemente sicuri. L’unico modo per evitare che l’Italia torni a sprofondare nella tossicodipendenza è l’informazione, la conoscenza, la divulgazione, non l’oscurantismo, la persecuzione e la colpevolizzazione: queste sono solo armi retoriche.

Quello che finge di ignorare la nostra premier, e lo diceva già Teofrasto Paracelso all’inizio del 1500, è che “È la dose che fa la droga”. E soprattutto le droghe non sono entità, ma sostanze che agiscono in maniera molto varia sui nostri corpi, come avevano già notato Ippocrate, e parallelamente i medici arabi, ma forse chiunque abbia occhi e orecchie in grado di ricevere il mondo, invece che ridurlo a ideologie oscurantiste e dannose per paura di perdere il potere. Nella Lex Cornelia, emanata da Lucio Cornelio Silla nell’81 a.C. droga “è una parola neutra, che comprende sia ciò che serve a uccidere sia ciò che serve a curare, […] ma questa legge condanna solo ciò che viene usato per uccidere qualcuno”. Il problema è che la droga causa molte più vittime quando illegale.

Fu il Cristianesimo che, per condensarsi in forma di potere politico, oltre a richiamare letteralmente all’ordine gli eremiti erranti, tacciò le droghe psicoattive di condurre a “falsi dei”, distogliendo la fede dall’unico vero Dio. Per capirlo basta aprire il Vecchio Testamento – non certo dettato da qualche divinità dalla voce tonante e la barba bianca, ma più probabilmente da un complesso sistema di potere – in cui si trovano passaggi che sembrano stati scritti per contenere un grave abuso da parte della popolazione dell’epoca, o forse costumi e abitudini eccessivamente “libere” per essere normate e soggiogate, e che richiedevano quindi una rigida educazione attraverso un divieto autorevole.

Nel Medioevo, con la persecuzione delle curatrici, accusate di essere streghe, l’uso e la conoscenza delle droghe, anche quando usate con dosi farmaceutiche, entrarono a pieno titolo tra le fila dei peccati. Fu a partire dal XVI secolo, con l’apertura delle rotte navali tra i continenti, che la droga divenne un vero e proprio mercato globale, e gli embrioni della medicina moderna, della chimica e della farmacologia la liberarono almeno in apparenza da etichette religiose, promuovendone il consumo in qualità di medicine potentissime. Il malessere diventò così uno dei primi territori dell’economia contemporanea, dato che l’essere umano soffre per costituzione, e poi muore, e tutto ciò che desidera non è altro che non soffrire e illudersi di poter non morire mai, o di rimandare a una data molto lontana da immaginare la propria morte. Il commercio delle prime droghe sintetiche promise agli esseri umani di poter risolvere il proprio dolore facilmente e immediatamente. Solo che le cose non andarono davvero così, e non solo a causa delle droghe – estirpate dal loro contesto – ma ancora una volta per via delle dinamiche di dominio sociale, le stesse che oggi ci fanno combattere guerre retoriche e legali sul filo dell’ideologia, e ancora una volta a scapito dei nostri diritti e della nostra salute.

La droga, qualsiasi cosa dica e pensi Meloni, può essere un mezzo per scoprire uno stato cognitivo di profonda libertà e comunione col mondo, ma può diventare anche un giogo, la nostra peggior prigione. Lo diventa, però, non perché è uno strumento del demonio, ma perché né la società e né le religioni sono più in grado di offrirci un soddisfacente scenario esistenziale di senso. Dio è morto, e non è stato sostituito da nulla, e in questo ultimo secolo, distratti dai media e anestetizzati dal consumismo, non siamo stati in grado di sviluppare gli strumenti umani necessari per sopravvivere all’assenza di significati superiori. L’abuso di droga non si risolve vietandone il consumo con una stretta autoritaria, cosa che corrisponde a lasciarla in mano alle mafie, ma dando alle persone un ambiente in cui poter prosperare: non è certo quello che si sta delineando con il governo Meloni.

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