Beviamo troppo. In Italia sono circa 8,7 milioni le persone a esagerare con l’alcol per quantità o frequenza e, tra queste, la fascia di popolazione più in crescita è quella delle giovani donne, in particolare minorenni; i dati degli ultimi anni hanno evidenziato soprattutto il binge drinking, che consiste nel consumare grandi quantità di alcolici e superalcolici fuori pasto nel giro di poco tempo, solitamente nel fine settimana, e che coinvolge fasce consistenti della popolazione italiana tra i 18 e i 34 anni. L’aumento del consumo di alcolici è indice di un disagio inascoltato, una correlazione palese se si pensa che negli ultimi anni è cresciuto in particolare durante i lockdown. Addirittura, secondo uno studio dell’Università di Sheffield, nella regione inglese dello Yorkshire, in Inghilterra, nello scenario peggiore – in cui, cioè, la popolazione inglese continuasse a bere agli stessi livelli del lockdown – si potrebbe arrivare fino a 25mila morti in più del solito nei prossimi vent’anni, causate delle abitudini di consumo che sono cambiate – in peggio – proprio durante la pandemia, quando i decessi connessi al consumo di alcol hanno raggiunto nel Regno Unito i livelli più alti dal 2001. Correlati a questi dati ci sarebbero poi quasi un milione di ricoveri ospedalieri in più e un costo per il sistema sanitario di oltre 5 miliardi di sterline aggiuntivi. Paradossalmente, mentre chi beveva già moderatamente sembra aver ridotto il suo consumo di alcol durante il primo lockdown del marzo 2020 – probabilmente perché associava gli alcolici alla vita sociale – molti di coloro che avevano una relazione già più rilassata con la bottiglia hanno iniziato a bere di più. Un dato particolarmente netto è il raddoppio del numero di donne che in quel periodo hanno preso l’abitudine di bere quattro o più volte alla settimana, in particolare tra le madri di bambini tra i due e i 12 anni per le quali un bicchiere di vino, non potendo più uscire, diventava un modo di scandire la giornata. Il problema, ovviamente, si è dimostrato tanto più grave quanto più si è instaurata l’abitudine, o addirittura la dipendenza, mantenuta anche dopo la fine delle restrizioni: ancora nel 2022, per esempio, tornati un po’ alla volta alla vita di sempre, secondo i dati del governo, otto milioni di persone in Inghilterra bevono così tanto vino, birra o superalcolici da mettere a rischio la propria salute.
Una ricerca sostiene che nei prossimi anni si assisterà a un aumento di oltre il 22% dei decessi per malattie epatiche associate all’alcol, in particolare tra le persone di età compresa tra 25 e 44 anni e, complessivamente, l’aumento dei decessi legati al consumo di alcolici ai livelli della pandemia è quantificabile in un +20%. Se è vero che l’aumento del consumo di alcol in età precoce è particolarmente preoccupante, coloro che sembrano più a rischio di dipendenza sono in realtà i bevitori di mezza età. Tra chi ha più di 55 anni nel Regno Unito negli ultimi 15 anni si è infatti registrato un aumento dei casi di dipendenza da alcol di oltre il 200%, così come per altre sostanze – come oppioidi, coca, crack e anfetamine – una tendenza che si propone anche a livello europeo. Le spiegazioni di questo fenomeno potrebbero essere molteplici e comprendere la maggior esposizione di questa fascia della popolazione alla pubblicità di alcolici in giovane età e la scarsa consapevolezza dei danni causati da queste sostanze.
Nonostante i politici italiani e le autorità di settore parlino di attacco al Made in Italy ogni volta che qualcuno punta l’attenzione sulla pericolosità degli alcolici, che questi siano dannosi per la salute è risaputo, ma forse non è diffusa la consapevolezza di quanto lo siano, anche a dosi moderate; proprio per questo la sezione europea dell’Oms, lo scorso settembre, ha adottato un documento chiamato “European framework for action on alcohol 2022-2025”, che fissa per il 2025 obiettivi di riduzione del consumo di alcol del 10% pro-capite rispetto ai livelli del 2010; in linea con questa strategia, l’Irlanda ha di recente stabilito di apporre sulle bottiglie chiare etichette in proposito, decisione “casualmente” avversata da Italia, Francia e Spagna, i maggiori produttori europei di vini e distillati.
In effetti, l’alcol intossica gli organi e danneggia il DNA mitocondriale, mentre il sistema immunitario, nel tentativo di contrastarne gli effetti, produce un aumento dello stato di infiammazione che a sua volta, sul lungo termine, contribuisce a problemi di salute tra cui il diabete, problemi cardiovascolari e tumori – tra le più diffuse e mortali patologie della nostra epoca. Anche a bassi livelli di consumo, come un bicchiere al giorno, il rischio di tumore della mammella può aumentare del 5%, mentre tre bicchieri al giorno o più possono accrescere il rischio anche del 40-50%, tanto che proprio l’alcool è direttamente responsabile di circa il 5% di tutti i casi di tumore al seno in Nord Europa e Nord America, e fino al 10% in Paesi dove il consumo è molto diffuso anche tra le donne, come l’Italia e la Francia; ma l’alcol è anche una delle concause di tanti altri tumori, da quello del fegato a quello di bocca, laringe, faringe ed esofago, fino al colon-retto, che tutti assieme rappresentano a livello globale oltre 6 milioni di diagnosi. Prima si inizia a bere, poi, più aumentano i problemi di salute e le probabilità di sviluppare una vera e propria dipendenza nel tempo, così come problemi psichici o psichiatrici, motivo per cui è importante fare attenzione in particolare ai più giovani.
Pur lodevole negli intenti, comunque, l’European framework for action propone strategie migliorabili, come quella dell’aumento dei prezzi, una politica che in realtà spesso ha effetti diversi da quelli sperati, soprattutto se il problema non è un rapporto un po’ troppo spensierato con gli alcolici, ma una vera e propria situazione di alcolismo; lo dimostra il caso della Scozia, dove l’imposizione di un prezzo minimo sugli alcolici non ha incoraggiato i bevitori problematici a ridurre i consumi, ma ha spinto molti a tagliare le spese per cibo o riscaldamento pur di continuare a bere. Per altre categorie di consumatori, in particolare i giovani, invece, i prezzi più elevati possono funzionare come deterrente o almeno possono indurre a posticipare il primo bicchiere più avanti negli anni, analogamente a tabacco e sigarette, per i quali si è stimato che un aumento del prezzo del 10% (e quindi portare il costo medio di un pacchetto di sigarette a 10 euro, come richiesto dalla Fondazione Veronesi) porterebbe a una diminuzione dei consumi del 4%, facendo vendere 800 milioni di confezioni in meno.
Nessuna politica di riduzione del consumo, comunque, può essere davvero efficace senza azioni a più ampio raggio, culturali e sociali. Ne è una dimostrazione storica estrema il Volstead Act, approvato nell’autunno del 1919 dal Senato degli Stati Uniti. La legge, in vigore per tredici anni, vietava la produzione e la vendita di alcolici: un’iniziativa che avrebbe segnato l’epoca che oggi ricordiamo come Proibizionismo e che, lontana dal risolvere la piaga sociale dell’alcolismo e della violenza che spesso questo portava con sé, ebbe effetti disastrosi come l’aumento a dismisura del contrabbando e quindi della criminalità e il dilagare di patologie e menomazioni provocate da bevande alcoliche non solo di scarsa qualità, ma spesso estremamente tossiche, prodotte illegalmente con mezzi di fortuna. Ancora oggi, d’altronde, i bevitori non sono scoraggiati dalle limitazioni legali, basti pensare al livello preoccupante di consumo di alcolici nella fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni negli Stati Uniti, dove il divieto di vendita e consumo per i minorenni è – almeno sulla carta – molto rigido, ma in realtà avere accesso agli alcolici in casa o ottenerne da fratelli e amici più grandi è facile, come risulta dai dati del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism. Che i divieti – soprattutto se non associati a politiche di sensibilizzazione e all’informazione – non siano molto efficaci, quando addirittura dannosi, lo dimostra d’altronde anche il dilagare delle sostanze stupefacenti, il cui traffico illegale va ad arricchire la criminalità organizzata.
L’abuso di alcol non è sintomo di una morale decadente, ma di un disagio, che il proibizionismo non può certo risolvere con un colpo di bacchetta magica: possono sì servire le tassazioni e le campagne di sensibilizzazione – un po’ come nei confronti del tabacco – ma servono anche interventi sociali di sostegno. Sono poi fondamentali le cure mediche, l’assistenza psicologica e il supporto della comunità. Un esempio virtuoso di come funzioni questo meccanismo è fornito dal successo della strategia islandese di lotta alla tossicodipendenza e all’alcolismo giovanile, non fatta di divieti ma di spazi di aggregazione a misura dei ragazzi e passioni da coltivare, dalla musica alla danza. L’alcol, in fin dei conti, è solo una sostanza come un’altra che può dare dipendenza. Parlarne sarebbe un primo passo per risolvere i problemi che comporta il suo uso e abuso; il divieto, al contrario, rischia di creare un’aura di silenzio attorno al tema e, quindi, trasformarlo in un tabù, cosa che non aiuta certo. Per questo potrebbe essere efficace, a fianco di altre strategie, puntare anche su una cultura del bere moderatamente e in associazione alla socialità, per lo più al pasto, con la consapevolezza che si tratta comunque di una sostanza nociva; questa modalità di consumo, tipicamente italiana, si sta però perdendo anche qui, in favore di quella nordica di ricerca dello stordimento.
Tra le motivazioni principali che spingono a infilare un drink dietro l’altro nel fine settimana, infatti, c’è la caccia a quel seducente senso di sollievo e leggerezza che l’alcol ci garantisce, per sciogliersi quando si è in compagnia, avere una conversazione più spigliata, rilassarsi e sentirsi a proprio agio o magari indugiare in una sorta di autolesionismo. Si è sempre fatto, certo, ma adesso il fenomeno è in crescita e forse proprio perché – vuoi lo stile di vita attuale, vuoi il filtro dei social, vuoi la pandemia che ci ha privato dell’abitudine e, quindi, della capacità di interagire spontaneamente di persona – stare in società oggi equivale a uscire dalla zona di comfort, una situazione in cui ci scopriamo incapaci, privi di strumenti, ansiosi, e allora ecco che l’aiuto di un bicchiere di vino in più diventa prezioso. Ubriacarsi, poi, è un modo per disattivare il cervello, veder scomparire ciò che ci angoscia almeno per qualche ora. È in questo tipo di disagio, allora, che dovremmo guardare quando parliamo di abuso di alcol.