L’abuso di alcol tra i giovani durante il lockdown è specchio di una società che li ha abbandonati - THE VISION

Uno degli effetti più gravi e prolungati dei lockdown dell’ultimo anno è l’aumento del consumo di alcolici tra le fasce della popolazione più a rischio, in particolare tra i soggetti con un passato di dipendenze e i minorenni. Il trend è lo specchio del forte disagio psicologico e sociale acuito e cronicizzato dal Covid-19. Concludendo l’ultimo rapporto annuale su Epidemiologia e monitoraggio alcol-correlato in Italia e nelle Regioni, di giugno 2020, l’Istituto superiore di sanità ha messo in guardia su come, già dal primo lockdown del marzo scorso, i canali di vendita online e di home delivery di bevande alcoliche registrassero “incrementi percentuali a tre cifre in tutto il mondo (+180-250%)”, assicurando così “grandi quantità consegnate direttamente nelle case degli italiani” e “incrementando verosimilmente l’esposizione a consumi dannosi e rischiosi di alcol”. “Abitudini”, secondo gli esperti, “che hanno potuto avere tempo e ragioni per consolidarsi in oltre 60 giorni di isolamento”. Da allora in Italia crescono anche le chiamate al numero verde dell’Iss per le dipendenze da alcol, droghe e gioco d’azzardo: gli operatori sanitari dei territori segnalano un disagio in aumento e maggiori richieste di aiuto e di sostegno durante la pandemia.

Da febbraio viviamo in uno stato di ansia e di insicurezza costanti. I nostri contatti sociali sono stati quasi azzerati e l’alcol si è rivelato come uno degli psicofarmaci più accessibili. Così, anche in modo inconsapevole, si è iniziato a bere la sera come surrogato di convivialità, ma l’aperitivo fai da te è diventato presto un appuntamento irrinunciabile per trovare la spinta per lavorare in  smart-working il giorno dopo, o per le lezioni di scuola a distanza. I dipartimenti Asl e gli osservatori delle regioni raccolgono sempre più spesso confessioni di abitudini che sono diventate dipendenze: a ottobre la Società italiana di Alcologia (Sia) ha lanciato l’allarme sul 20% circa degli alcolisti vittime di una “una ricaduta” tra febbraio e giugno, e sull’“aumento del 15% di nuovi dipendenti da alcol”. Fabrizio Fanella, membro dell’Osservatorio regionale del Lazio sul gioco d’azzardo patologico, denuncia come la solitudine di questi mesi provochi “peggioramenti nelle condizioni di persone dipendenti dal gioco o dalla droga. E un incremento esponenziale del consumo di alcol”. Si percepisce “un’accentuazione di disagio, ansia, aggressività, nonché il moltiplicarsi e l’aggravarsi di tensioni familiari latenti. Situazioni magari anche preesistenti al Covid-19”, ma “scoppiate con le restrizioni”.

Il direttore della Sia Gianni Testino, coordinatore del Centro alcologico regionale della Liguria, sa bene come, a maggior ragione durante la pandemia, l’illusione del bere per anestetizzare si dimostri una formidabile arma a doppio taglio contro se stessi: “L’etanolo”, fa presente, “distrugge le giunzioni cellulari in sede alveolare polmonare e favorisce la sovrapposizione batterica, nonché lo tsunami citochinico”, cioè l’accumulo di liquidi nei polmoni che è tra le principali cause dell’intubazione dei malati di Covid-19 e della loro morte. La Sia ricorda come l’”aumento del consumo di alcolici nella popolazione generale con relativi danni psico-fisici”, a lungo termine, esponga le persone dipendenti dall’alcol a un “maggior rischio di contrarre il Covid-19”, e in caso di infezione “di svilupparne sintomatologia severa”. L’abuso di alcol può di conseguenza provocare una maggior incidenza di forme gravi di Covid-19 anche tra i gli under 20, una delle fasce della popolazione dove, anche in Italia, cresce il ricorso all’alcol per “evadere” dal lockdown. Questo trend va ad aggravare una situazione già critica: nella relazione annuale dell’Iss sull’alcolismo, i dati che fanno ancora riferimento al 2018 fotografano una “prevalenza dei consumatori a rischio” di quasi “8,7 milioni di individui (il 23,4% degli uomini e l’8,9% delle donne di età superiore a 11 anni, ndr) che non si sono attenuti alle indicazioni di salute pubblica”: tra loro la parte più esposta sono proprio i “16-17enni, seguita dagli anziani ultra 65enni”. Il ministero della Salute calcola che già due anni fa “circa 800mila minorenni e 2,7 milioni di ultra 65enni” fossero a rischio di “patologie e problematiche alcol-correlate”, “verosimilmente a causa di una carente conoscenza o consapevolezza dei rischi che l’alcol causa alla salute”.

Già nel 2018 si era consolidato “l’aumento del consumo occasionale di alcol (passato dal 44% al 46%)”, in particolare fuori pasto (dal 29% al 30%)”, cioè il fenomeno del binge drinking che ha interessato “17,2% dei giovani tra i 18 e i 24 anni di età”. Anche “nella fascia di età tra gli 11 e i 24 anni”, precisa l’Iss, è ormai “diffusa la consuetudine di bere alcolici fuori dai pasti, con una frequenza anche infrasettimanale e non solo nel weekend”. Gli indicatori sull’alcolismo del 2018 sono stati diffusi solo ora per una serie di complicazioni del ministero della Salute, ma sono in fase di completamento quelli relativi al 2019 e i segnali dai territori per il 2020 non tranquillizzano. La Società italiana di Alcologia calcola che in Italia, nei mesi della pandemia, i soggetti a rischio dipendenza dall’alcol abbiano raggiunto quota 10 milioni di persone, un milione dei quali minorenni: per la Sia il binge drinking coinvolge ormai il 22,6% dei ragazzi e l’11,1% delle ragazze tra i 18 e i 24 anni, e il 10,7% dei teenager e il 5,2% delle teenager tra i 16 e i 17 anni. A causa della forte emulazione dei comportamenti, tra i minorenni è anche molto più facile sviluppare dipendenze dall’alcol: in un’intervista a Repubblica, Testino ricorda come chi inizia a bere prima dei 20 anni diventi dipendente “nel 35-40% dei casi”, percentuale che scende al 10% quando si comincia a 25 anni. La Sia stima di conseguenza che oltre il 40% dei ragazzi possa farsi influenzare da comportamenti sbagliati.

L’attenzione sul legame tra alcolismo e pandemia è alta perché l’Italia è in linea con quanto accade in altri grandi Paesi del mondo: ovunque si moltiplicano i casi di depressione a causa dell’isolamento e della paura per il futuro, mentre crescono le fragilità e il ricorso agli psicofarmaci e all’alcol come rimedio. L’aumento con il Covid-19 del binge drinking tra i maggiorenni negli Stati Uniti è confermato da un nuovo studio dell’Università del Texas, pubblicato a dicembre sull’American Journal of Drug and Alcohol Abuse. Sempre negli Stati Uniti, un’indagine a campione compiuta tra aprile e giugno 2020 della Rand Corporation ha individuato un drastico incremento nei consumi di alcolici, rispetto alla primavera del 2019, nel 19% degli intervistati tra i 30 e 59 anni, in particolare tra le donne (+17%). Negli stessi mesi la società di analisi dei mercati Nielsen rilevava un boom negli Stati Uniti fino al +477% delle vendite online di alcolici, “il comparto dell’e-commerce più in crescita tra i beni di largo consumo”. Nel Regno Unito, dove una ricerca su Lancet di agosto ha sottolineato che il lockdown nel Paese è “un fattore di rischio per l’aumento del consumo di alcol in soggetti con problemi di alcolismo o di ritorno a bere per gli ex dipendenti”, le chiamate di alcolisti al numero verde British Liver Trust hanno registrato un’impennata del 500%. In Australia, le interviste a campione della Alcohol and Drug Foundation hanno rivelato che, durante il secondo lockdown di agosto, quasi il 20% della popolazione aveva iniziato a bere più alcolici del solito; il 12% tra loro addirittura tutti i giorni.

Molti dei nuovi alcolisti contattati sono 20enni e 30enni anglosassoni che dichiarano il desiderio di smettere, ma l’incapacità di riuscirci. In Canada un’indagine della Nanos research e del Canadian Centre on Substance Use and Addiction ha mostrato in modo documentato e approfondito il legame tra confinamento in casa, stato di stress o di noia accresciuto dalla pandemia e aumento nel consumo di alcol tra le mura domestiche. Oltre 9 canadesi su 10 hanno raccontato di essere rimasti in casa più che in passato per le restrizioni del Covid-19 nello scorso aprile, la gran parte di loro per più di 15 giorni; tra questi due su dieci hanno confidato di aver preso l’abitudine a bere più del solito durante l’isolamento – il 25% tra gli intervistati tra i 35 e i 54 anni, e il 21% tra gli intervistati tra i 18 e i 34 anni.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha avvertito i governi sul pericolo di abuso di alcolici durante la pandemia, sia per la probabilità maggiore degli alcolisti di morire per il virus, sia per le generazioni presenti e future compromesse dal binge drinking e dal rischio di dipendenza. Emanuele Scafato, tra gli estensori del rapporto annuale dell’Iss e capo del centro dell’Oms per la Ricerca e la Promozione della Salute sull’Alcol e le problematiche Alcolcorrelate, ritiene che con il Covid-19 anche in Italia stia crescendo in modo significativo l’abuso di alcolici e superalcolici, vuoi perché in “molti hanno trovato nell’alcol il ‘farmaco’ per rilassarsi e per allontanarsi da una realtà che non volevano vivere”, vuoi perché le “persone che avevano a che fare con altre dipendenze, come quelle da sostanza, una volta perso il canale preferenziale dello spacciatore si sono rivolte all’alcol”.

La responsabilità di chi cede o torna all’alcolismo non sta nell’inconsapevolezza di chi, come i giovani e gli adolescenti, non è ancora abbastanza maturo e informato sui pericoli della dipendenza. Tanto meno va ricercata nelle fragilità di chi in questi mesi ha perso il lavoro e la vicinanza degli affetti, o soffriva da anni di depressione e di altre dipendenze. Con Testino e altri esperti sul campo, Scafato ricorda – nello Speciale sul Covid-19 della rivista della Società italiana di Alcologia – la “prevenzione che manca” e la “necessità e l’urgenza di rinnovamento organizzativo e funzionale della rete di cura del sistema sanitario nazionale”. Il vuoto di chi cerca rifugio nelle dipendenze è innanzitutto il vuoto nella “preparazione del sistema”, dei servizi territoriali che Scafato vorrebbe “pronti”, “dotati di sistemi digitali di consulenza e di supporto, linee verdi, telefoni verdi e videochat”. Invece, anche durante la seconda ondata del Covid-19, gli ambulatori e gli sportelli sanitari sono rimasti spesso chiusi, mentre  i loro numeri verdi risultavano quasi sempre occupati. Troppe persone – malate e sane – vengono lasciate sole in questa pandemia, dimostrando ancora una volta il fallimento delle autorità italiane nel mettere al centro della loro azione, non solo in ambito sanitario, le parole prevenzione e informazione.

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