Quando, qualche mese fa, Reddit e Twitter sono stati invasi da un ritratto di Papa Bergoglio avvolto in un piumino bianco Balenciaga, diventato virale nel giro di poche ore, sono stata tra le molte persone pronte a credere che quelle immagini fossero reali. Prima di scoprire la verità sul capo incriminato, che si è rivelato essere la creazione di un software di intelligenza artificiale, infatti, buona parte degli utenti di internet è stata contagiata da un effetto simile alla sospensione dell’incredulità, convincendosi dell’esistenza di un capo d’abbigliamento che, in realtà, era tutt’altro che allineato con gli standard del guardaroba papale, ma che è risultato perfettamente credibile all’interno della foto, con tanto di brand. Queste immagini, per qualche ora, hanno rappresentato una sorta di inganno collettivo, seguito dalla tipica delusione che si prova quando si apprende di essere stati truffati, per di più a causa della propria scarsa attenzione – dato che per non avere dubbi sulla loro origine sarebbe bastato accorgersi delle mani deformi che il programma non era riuscito a riprodurre fedelmente.
Anche se l’esperienza dell’inganno, in questo caso, si è risolta senza lasciare dietro di sé alcuna conseguenza traumatica, finendo per sgonfiarsi in tempi brevissimi insieme alla sua bolla virale, essa dimostra come i deepfake siano solo uno dei molti elementi che hanno reso la nostra realtà – dentro e fuori dalla rete – un ambiente attraversato da un’enorme quantità di trappole, insidie e potenziali truffe, che ci fanno sentire inquieti. L’ultima volta me ne sono resa conto mentre cercavo una stanza in affitto a Milano, quando scorrendo gli annunci, alla mia difficoltà nel trovare casa – tra i costi sempre più alti e la grande richiesta di immobili che rende così complicata la scelta di trasferirsi in questa città – si è aggiunto come un pensiero intrusivo il timore di cadere nella classica truffa del proprietario disonesto, pronto a sparire nel nulla subito dopo il versamento della caparra. L’idea di trovarmi proiettata nei racconti di alcune mie amiche, che hanno dovuto improvvisare un tour degli ostelli in città come Parigi o Berlino dopo aver scoperto di aver firmato un contratto falso, rimanendo quindi senza stanza e senza i soldi anticipati per affittarla, era diventata una delle costanti della mia ricerca, nonostante a Milano questo problema sia decisamente meno diffuso rispetto ad altre capitali europee.
Diversi studi di psicologia, infatti, hanno sottolineato come a causa della presenza pervasiva e martellante di fattori che ci fanno sentire vulnerabili a ogni tipo d’imbroglio – dal costante aumento delle truffe online, all’idea di fondo che ci sia sempre qualcuno pronto a “rubarci” il lavoro, l’identità, o altro di ciò che possediamo (cosa peraltro possibile, purtroppo) –, stiamo assistendo a un’erosione progressiva della nostra capacità di riporre fiducia nel mondo, con dirette conseguenze sui legami che stringiamo con gli altri. Gli psicologi, nello specifico, parlano di una fobia sociale propria della contemporaneità, la “suckerofobia”, che ha la sua origine nella sensazione – spesso non veritiera – che qualcuno si stia approfittando di noi, che stia agendo a nostre spese in modo disonesto. Nell’innescare questo sospetto, la suckerofobia ci porta a diffidare di chi ci circonda, creando così una coltre di sfiducia collettiva sempre più opprimente e difficile da lacerare.
Il fenomeno delle truffe, di per sé, non rappresenta certo qualcosa di nuovo, e nemmeno di strettamente connesso con la realtà online, dato che questi tentativi di frode esistono da sempre e si sono evolute insieme ai media, cercando di ritagliarsi al loro interno nuove modalità di trasmissione – basta pensare all’impero televisivo delle televendite di Wanna Marchi, o ai vari schemi Ponzi inviati a catena nelle chat di gruppo, già da prima dell’arrivo di Whatsapp. La mia impressione, però, è che negli ultimi anni la paura di passare per dei “suckers” – quindi per persone poco sveglie e credulone – si sia diffusa come una vera e propria epidemia, perché alimentata dai più recenti sviluppi della digitalizzazione, ma soprattutto da fattori propri del nostro contesto sociale, dove la possibilità di essere ingannati è associata a una condizione di victim blaming, che tende a colpevolizzare la vittima, invece che comprenderla, per la sua incapacità di difendersi dal disegno del truffatore.
Da un lato, infatti, il progresso tecnologico repentino degli ultimi decenni ha indubbiamente contribuito a modificare il nostro rapporto con la realtà, rendendolo in un certo senso più precario e instabile, perché abbiamo visto moltiplicarsi le occasioni in cui non disponiamo di tutti gli strumenti necessari per verificare le interpretazioni – e le potenziali manipolazioni – che ne vengono date, prima che essa ci venga presentata attraverso il filtro dei nostri dispositivi elettronici. Tentando di adattarci, per sopravvivere all’era della “post-verità”, abbiamo dovuto affinare le strategie che ci permettono di affrontare questo pericoloso scollamento dal reale e dai suoi eventi, che per raggiungerci, oggi, devono attraversare una tempesta di informazioni alterate, fake-news e immagini falsificate ad arte. Questo andamento inaffidabile dell’informazione, ci ha abituato ad accogliere ciascuna delle notizie in cui ci imbattiamo con un certo scetticismo, accompagnato dall’impressione che ci sia sempre qualcuno che vuole mentirci, a prescindere dalla quantità di fonti a cui riusciremo ad attingere.
Il risultato è una sensazione disturbante, che ricalca l’atmosfera di “inganno personale” che George Orwell descriveva in 1984, e che quindi ci porta a vivere ciascuna delle possibili truffe che viaggiano sui media come una trappola messa lì per aspettare proprio noi, approfittando di ogni nostra minima distrazione. Non è un caso, infatti, che al lancio di una nuova innovazione tecnologica, al di là del dibattito sulle sue potenzialità rivoluzionarie, segua l’immancabile domanda, spesso frutto di teorie vagamente complottiste, sul gruppo sociale che ne verrà sfavorito, diventando più facile da truffare grazie al suo utilizzo – così com’è stato per ChatGPT, che doveva aiutare gli studenti a ingannare insegnanti di lettere inconsapevoli; per lo smart working, che avrebbe dovuto permettere ai dipendenti di rallentare il loro ritmo produttivo a discapito dei datori di lavoro; e per le app di dating, che colleghiamo spontaneamente al catfishing.
La prima conseguenza di questa forma mentis, prodotta da un contesto sociale individualista e iper-competitivo, che ci ha insegnato a vedere gli altri come dei nemici, e non come dei potenziali alleati, è che la nostra capacità di coltivare dei rapporti di fiducia si sta progressivamente atrofizzando. Nel momento in cui l’ossessione per le truffe ci porta a voler scongiurare a ogni costo l’eventualità di cadere vittime degli inganni altrui, la soluzione sarà diffidare di qualsiasi loro azione o affermazione, per evitare che queste possano in qualche modo danneggiarci, ma anche per non essere risucchiati dalla spirale di auto-recriminazione che tende a innescarsi quando ci rendiamo conto di essere stati imbrogliati. Mi capitava all’università, quando uno studente iscritto ai miei stessi corsi mi negava di poter copiare i suoi appunti, e subito pensavo che le scuse sulla sua pessima grafia non fossero altro che un modo per ritardare la mia preparazione del prossimo esame; e mi succede ancora, quando al terzo rinvio di un appuntamento fissato, inizio a sospettare che la persona che devo incontrare non sia affatto presa da molti impegni, ma semplicemente non abbia intenzione di vedermi. In entrambi i casi, la percezione di un possibile inganno mi ha portato ad avere la stessa reazione: evitare un ulteriore scambio con chi mi aveva presumibilmente mentito.
Un altro effetto sociale della paura di essere ingannati, intuito già dagli psicologi Jim Sidanius e Felicia Pratto nel loro saggio Social Dominance del 1999, è che essa mina alla radice qualunque forma di cooperazione, di collaborazione solidale, avvallando dinamiche di potere inique che, oltre ad allontanarci gli uni dagli altri, tendono a legittimare le ghettizzazioni sociali, spingendoci a sospettare della disonestà di determinati individui o gruppi – generalmente riconducibili a minoranze –, quando questi lamentano un trattamento ingiusto. Stando alle ricerche, questo meccanismo vale sia per le discriminazioni razziste, sia per quelle basate sul genere, e scaturisce da un pregiudizio che ci porta a minimizzare le rivendicazioni delle minoranze, inserendole in una narrazione per cui queste starebbero esagerando nel descrivere la loro condizione di svantaggio e dunque anche nel muovere le loro richieste di modificazione dello status quo, in quello che percepiamo come un vero e proprio tentativo di truffa. Questo pregiudizio, nato dalla paura di cadere vittime di un inganno e di offrire un “trattamento di favore” a un gruppo sociale che invece non ne ha bisogno o non lo merita, si fonda sulla reazione automatica e irrazionale tipica delle fobie: riconoscere una truffa, ripudiare i truffatori. Se i membri di una comunità emarginata sono visti come persone che fingono di volere l’uguaglianza, tentando invece di ottenere un privilegio, infatti, il timore di rimanere vittime del loro imbroglio diventa già di per sé un buon motivo per rifiutarne le richieste a priori, acuendo delle iniquità che hanno ripercussioni sull’intero tessuto sociale.
Se siamo abituati a pensare alle truffe solo come azioni di phishing, messaggi di bot che appaiono sulle nostre chat, o spot televisivi di chiromanti con il numero esposto in sovraimpressione, la realtà attuale ci impone di imparare a riconoscere anche altre distorsioni altrettanto ingannevoli, che fanno leva sulle nostre paure per dividerci dagli altri. La suckerofobia, infatti, più che difenderci dalle frodi in cui rischiamo di imbatterci, contribuisce a farci sentire sempre più distanti da chi ci circonda, e più isolati, perché incapaci di individuare qualcuno che meriti la nostra fiducia in un mondo fatto solo di truffatori – pronti a portarsi via tutto ciò che riescono a estorcerci – e di altre potenziali vittime – che mancando quanto noi degli strumenti per difendersi adeguatamente da un imbroglio, di certo non sapranno come aiutarci.
Il principale inganno della nostra società, probabilmente, è proprio l’averci fatto credere che affidarci agli altri sia sempre un gioco a perdere, in cui quando non veniamo concretamente derubati di qualcosa, spendiamo comunque troppo tempo o energie che avremmo potuto risparmiare, per evitare di doverci pentire dello sforzo fatto – magari in favore di qualcuno che pur lamentandosi, in realtà non stava poi così male. Al contrario, l’impegno più significativo e più appagante che possiamo prenderci, per migliorare in modo tangibile la nostra vita, è proprio quello di stabilire e coltivare relazioni profonde, che offrendo un reale supporto a chi ci circonda aumentino la percezione dell’effetto positivo che le nostre azioni possono avere sul mondo e sulla nostra stessa felicità. Per questo, in un contesto sociale che è ormai pervaso da una vera e propria crisi di fiducia collettiva, dobbiamo prestare grande attenzione a come distribuiamo le nostre etichette di “truffatori” e “truffati”, perché la paura, esattamente come accade quando si insinua nella sfera dell’informazione, non può che deviarci, portandoci lontano dalla verità.