Ci sono delle parole composte della lingua tedesca che racchiudono in un solo termine il significato di sensazioni complesse, traducibili in italiano soltanto con intere frasi. Il vocabolo “Fremdschämen”, per esempio, indica l’imbarazzo che si prova per contagio quando si assiste a un comportamento goffo o impacciato di un amico; “Vorfreude” – letteralmente “pre-felicità” – restituisce il classico stato d’animo da primo appuntamento, quella piacevole forma di agitazione che accompagna i preparativi di un’occasione che sappiamo di voler cogliere; il concetto racchiuso nel termine “Schadenfreude”, invece, può essere reso in italiano con locuzioni come “gioia maligna” o “soddisfazione cinica” e descrive il sottile compiacimento che tutti abbiamo provato almeno una volta – anche se non ci piace ammetterlo – di fronte alle disgrazie altrui, quando osservando le sfortune e i fallimenti degli altri troviamo un motivo per mitigare l’insoddisfazione nei confronti della nostra vita, o per sentirci meno miseri e soli nella nostra fragilità.
Nonostante un giornalista del settimanale The Spectator nel 1926 abbia provato a spiegare l’intraducibilità della parola Schadenfreude in molte lingue tra cui la propria, l’inglese, giustificando la sua assenza nel dizionario con una presunta estraneità del popolo britannico a questo sentimento poco nobile, la verità è che essa non fa riferimento a una disposizione culturale, ma a un atomo di malignità umana, a un’inclinazione sotterranea che ci appartiene a prescindere dal luogo in cui siamo nati e che è profondamente attiva nella nostra società, anche se tendiamo a negarla per la vergogna che ci procura. Guardando Triangle of Sadness, l’ultimo film del regista svedese Ruben Östlund che si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, infatti, il trionfo della Schadenfreude diventa accettabile, soltanto perché si consuma al buio, nascosto nell’oscurità di una sala cinematografica.
Triangle of Sadness è una commedia in tre atti che racconta la superficialità del fashion system e di certi ambienti particolarmente ricchi, giocando abilmente con le dinamiche della serialità. La suddivisione della trama in capitoli, infatti, dà vita a una struttura triangolare dove i segmenti del racconto sembrano ricalcare la scansione in puntate tipica delle serie tv, perché essi rappresentano una frazione dell’insieme, ma, al contempo, anche degli episodi narrativamente significanti in se stessi. Inoltre, il lungometraggio fissa l’ultimo vertice di un triangolo tematico con cui Östlund, a partire da Forza maggiore – uscito nel 2014 – e poi con The Square – anch’esso premiato con la Palma d’Oro nel 2017 – si dedica all’esplorazione della vulnerabilità umana, indagata nella sua forma di precarietà morale, ma, in certi frangenti, anche come potenziale denominatore comune capace di innescare tentativi di comprensione reciproca tra individui.
In Triangle of Sadness viene ripreso il tema dell’evento imprevisto come fattore scatenante dello stesso egoismo primordiale, istintivo e vile che segna la trama di Forza maggiore, quando il protagonista scappa dalla valanga che minaccia lui e la sua famiglia senza aiutare moglie e figli; e viene applicata la stessa capacità di osservazione che in The Square consente a Östlund di decostruire il mondo dell’arte contemporanea passando per una critica feroce della natura umana. Ciò che cambia, nell’ultimo film del regista svedese, è il taglio della satira sociale, che vede alleggerirsi la sua componente dissacrante, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da sé i personaggi, così da farlo riflettere su quanto il suo divertimento sia ambiguo, perché mosso, a tratti, proprio dalla Schadenfreude.
I protagonisti del film sono una coppia di modelli che si piacciono molto, ma non sembrano amarsi un granché. Carl è impegnato in diversi casting per delle campagne pubblicitarie di brand di lusso, ma spesso viene rifiutato perché non è più sufficientemente giovane – è il “triangolo della tristezza”, ovvero l’insieme di rughe d’espressione che si formano fra un sopracciglio e l’altro, a svelare i suoi 24 anni compiuti – e vorrebbe che la sua ragazza ogni tanto pagasse la cena, dato che guadagna molto più di lui. Yaya, infatti, è un’influencer di grande successo, un volto della moda concettuale – quella che “non è soltanto apparenza, ma anche interiorità”, come afferma lo stilista intento a provinare Carl in una delle prime scene del film – e si divide fra shooting da postare su Instagram e sfilate dedicate a questo o a quel tema filosofico, che viene sviscerato passando in rassegna i capi di una collezione primavera-estate.
Grazie alla popolarità di Yaya, i due vengono invitati a trascorrere una crociera su uno yacht insieme ad altri ospiti ultraricchi, tra cui un oligarca russo che vende fertilizzanti naturali e che per questo si fa chiamare “the king of shit”, una tedesca che dopo essere stata colpita da un ictus riesce a dire soltanto “In den Wolken” (“Tra le nuvole”) e una coppia di produttori di armi inglesi, che descrivono le bombe a mano della loro azienda con i sorrisi inteneriti che di solito si riservano alle gif con i cuccioli. Il gruppo è assistito da un equipaggio estremamente meticoloso, pronto a esaudire ogni capriccio dei suoi facoltosi clienti – anche quello di “lavare le vele” espresso da una vecchina ignara di stare viaggiando su una barca a motore – nei confronti dei quali nutrono una sorta di timore reverenziale.
La prima parte del film è una galleria di manie e stranezze di questi ospiti, che serve a stabilire la gerarchia fra loro e il personale di bordo, suggerendo allo spettatore l’origine di un processo di decostruzione della categoria sociale dei ricchi, che non passa per la critica violenta ma per la derisione della loro inettitudine. In questo caso la Schadenfreude che il pubblico prova assistendo alle gaffe dei personaggi deriva da un sentimento di rivalsa, dal desiderio di ristabilire una situazione di equilibrio compromessa da dei privilegi immeritati – la ricchezza, la bellezza, il successo – che sono capitati agli altri. Ridere, dunque, permette di regolare i conti, facendoci sentire per un attimo superiori e appagando così un senso di giustizia personale, perché deviato da un complesso di inferiorità.
Con un espediente narrativo caratteristico del suo cinema, Östlund dà agli imprevisti e non alla volontà dei personaggi il potere di spingere fino in fondo la mortificazione della ricchezza. L’apice della decostruzione delle gerarchie sociali, infatti, è rappresentato dalla scena centrale: una cena a base di champagne e crudità di pesce che si conclude, a causa del mare mosso, in fiumi di vomito e diarrea – una situazione simile alla falsa narrazione sul pranzo a Gubbio, diventata virale qualche settimana fa – che scorrono per un tempo lunghissimo davanti agli occhi dello spettatore mettendolo di fronte al contrasto fra l’eleganza degli ospiti e le deiezioni con cui imbrattano i loro abiti da migliaia di dollari, un accostamento disturbante – fatto di immagini di cessi che esplodono sulle note di “New Noise” dei Refused, mentre il capitano tiene un discorso sulle contraddizioni del sistema capitalistico citando, fra gli altri, Karl Marx e Noam Chomsky – che sembra voler rinvenire, proprio nei momenti più bassi, quelli in cui siamo tutti ugualmente sporchi, indifesi e disgustati da noi stessi, la speranza di un riscatto sociale.
Ma al primo avvenimento inatteso ne segue un secondo, ancora più tragico, ovvero il naufragio dello yacht, che costringe i sopravvissuti – tra cui Carl e Yaya – a riparare su un’isola, dove sarà Abigail, una donna delle pulizie dell’equipaggio, a conquistare il potere sulla piccola comunità di naufraghi, perché è l’unica a saper pescare, cucinare e accendere un fuoco. È qui che la critica del regista si rivela più ampia, capace di coinvolgere anche lo stesso spettatore, che mentre osserva i personaggi fare di tutto per massimizzare la propria utilità all’interno del nuovo assetto di potere, si ritrova a provare un certo sollievo quando Abigail si dimostra identica a tutti gli altri: non un capo giusto, ma un individuo mediocre come i suoi compagni ricchi, che una volta conquistati dei privilegi farebbe di tutto pur di non lasciarseli sfuggire.
In Triangle of Sadness, dunque, non c’è spazio per un abbattimento delle gerarchie orientato all’uguaglianza (nemmeno quando si toccano i punti più bassi, quindi più autentici della propria umanità), ma soltanto per un desiderio di sopraffazione che lascia poco spazio agli scrupoli. La soddisfazione compiaciuta che deriva dall’osservare la morale mercenaria che accomuna tutti i personaggi – Abigail compresa – svela infatti l’altra faccia della nostra Schadenfreude, che non è legata soltanto un sentimento di rivalsa (più o meno giustificato), ma a una profonda forma di invidia che ci assale tutte le volte in cui sospettiamo che qualcuno possa condurre un’esistenza più desiderabile della nostra, o essere migliore di noi. I protagonisti del film, manifestando la loro corruttibilità – il cui simbolo, sull’isola, è rappresentato dai furti di salatini di cui i naufraghi si nutrono – e della loro fallibilità in ogni scena, tolgono lo spettatore dall’ansia della competizione, consegnandogli una vittoria a tavolino e permettendogli, così, di pensare al reale oggetto del suo divertimento, a cosa lo stia facendo ridere così di gusto.
Sullo yacht di lusso del suo film, Ruben Östlund inscena un processo di osservazione simile, per molti aspetti, a quello portato avanti da David Foster Wallace durante la crociera descritta nel suo libro del 1997 Una cosa divertente che non farò mai più, perché racconta i retroscena della società del privilegio, in cui vivono sia i personaggi, sia il pubblico: una condizione caratterizzata, nella contemporaneità, da una crescente insoddisfazione per la propria vita, dalla continua competizione con gli altri e dalla brama di acquisire sempre più potere, successo e denaro. In questo scenario, dove nemmeno l’imprevisto ci può salvare, Östlund ci indirizza oltre il suo film per trovare un motivo abbastanza forte da farci impegnare per ottenere una trasformazione della Schadenfreude, arrivando a un sentimento che ci permetta di ridere delle sfortune, sia nostre che altrui, senza affermare la nostra superiorità sugli altri, ma per sentirli più vicini, più simili, alle prese con una vulnerabilità che è di tutti.