Il 2023 è stato un anno di grandi transizioni per le serie tv. Il catalogo delle piattaforme streaming si è spesso ampliato guardando al settore dei videogiochi, mentre venivano introdotti nuovi limiti alla condivisione dei profili, e grandi show tra i più acclamati degli ultimi anni – come Succession e Ted Lasso, per citarne alcuni – sono arrivati al loro capitolo finale. A cercare una sintesi, verrebbe da dire che le serie migliori dell’ultimo periodo lo siano state soprattutto per la capacità di parlare, tra le righe, di ciò che più ci preme nel presente: il rapporto con la tecnologia, la cura, l’assenza di confronto, e poi la rabbia, il cibo, la FOMO, la maternità. Queste sono le dieci migliori – tra novità e conferme – uscite in Italia quest’anno secondo noi.
A Murder at the End of the World (Disney+)
Nell’epoca della sovraesposizione – alle informazioni, alle immagini, ai dettagli sulle vite di chi ci circonda –, è come se una certa eredità culturale inscritta nei nostri geni ci spingesse a un ritorno all’oscuro, al desiderio di percorrere un’altra via. D’altronde, non è un caso se ultimamente sono rifioriti in maniera preoccupante i complotti, come se dopo la spinta razionale e razionalista impressa dall’Illuminismo stessimo ora ridiscendendo una parabola verso “il sonno della ragione”. Eppure, come insegna la filosofia stessa e molti miti da cui sono originate le grandi civiltà umane, questa ciclicità è necessaria, così come l’equilibrio degli opposti. La fede, la poesia, l’arte e tutto ciò che si collega alla creatività e all’inconscio, con il fascino e la magia che porta con sé, si trova proprio a quel bivio. Sta a noi riuscire a maneggiare questo desiderio verso la distruzione o la rinascita.
La serie A Murder at the End of the World – riprendendo un tema caro a The OA, creata dagli stessi autori, Brit Marling e Zal Batmanglij – ruota attorno proprio a questa dialettica tra razionale e irrazionale, che vediamo avvicendarsi di continuo, anche nella nostra realtà presente, quando si discute sulla possibile fine del mondo che conosciamo e delle alternative che ci aspettano in futuro. Il convegno a cui viene invitata la hacker Darby – interpretata da Emma Corrin – mira infatti a raccogliere diverse figure dalle qualità intellettive eccezionali per cercare una soluzione alle tante problematiche che stanno spingendo l’umanità verso l’Apocalisse climatica ed economica. Quando il congresso si trasforma nel teatro di un omicidio, la serie sovrascrive al ritmo del racconto crime delle potenti metafore sulla nostra società, toccando il tema dell’intelligenza artificiale, così come quello di una nuova collocazione dell’essere umano rispetto all’ambiente.
A Murder at the End of the World è una di quelle serie che è difficile cogliere con certezza nella loro identità, ma che non possono non catturare l’attenzione, affascinare, donare qualcosa di assolutamente distante dal già visto e già sentito, perché è in grado di raccontare uno degli sforzi che oggi facciamo più fatica a fare: immaginare una nuova prospettiva di futuro, a partire dagli eventi e dalle chiavi di lettura che ci vengono forniti nel presente.
The Curse (Paramount+)
Tra dirette Instagram e reality show, siamo ormai abituati alla galleria di pose – alcune del tutto sgraziate, altre vagamente più composte – che ha ridefinito il concetto di privato nella nostra epoca, esasperandone qualsiasi manifestazione per esigenze di scena e offrendole poi in pasto al pubblico. Anche la coppia di ricchi wasp Whitney (Emma Stone) e Asher (Nathan Fielder), protagonisti della serie The Curse, subisce il contagio di questa perversione esibizionista, sfogata da entrambi attraverso la partecipazione a Flipanthropy, un programma televisivo in stile Extreme Makeover – Home Edition, che celebra la bontà e l’altruismo tramite la spettacolarizzazione delle campagne di beneficienza e le iniziative umanitarie in cui i due si impegnano.
L’auto-narrazione di filantropi impegnati nel sociale stride però con la realtà delle loro personalità e della relazione che li lega, dal momento che oltre a essere rimasti incastrati in un rapporto del tutto disfunzionale, l’aura di santità, generosità e dedizione al prossimo che tentano di cucirsi addosso altro non è che un modo per assecondare l’ossessiva necessità di sentirsi amati, alimentata da un’avidità di visibilità che li divora. Questa compulsione, vissuta in modo più intenso da Whitney, diventa il centro di un costante lavoro che i protagonisti fanno per vendere agli altri la migliore immagine di sé (nonché la più falsata), rendendo la loro intera vita una sorta di canale di comunicazione di massa, uno schermo attraverso cui ricevere la maggior quota di approvazione possibile.
Partendo dalle derive estreme della FOMO artistica e culturale, che spinge Whitney a partecipare a ognuna delle esposizioni stereotipate o delle performance cliché a cui dice di essere appassionata; per arrivare al paradosso della capitalizzazione del mercato green (di cui lo stesso Filanthrophy è un’efficace metafora), la serie sottolinea le contraddizioni di un umanesimo postmoderno tutto recitato e “temporary”, perché mosso dal mercato e non da principi realmente sentiti.
Succession – Quarta stagione (Sky Atlantic)
Nessuno sa ferirci meglio della nostra famiglia. Se è vero, infatti, come scriveva Tolstoj, che ogni famiglia felice si assomiglia mentre quelle infelici lo sono ognuna a modo proprio, i nostri genitori, fratelli, figli e cugini non conoscono solo la specifica peculiarità dell’infelicità che ci contraddistingue, ma anche come farla aumentare al meglio, rendendocela insopportabile.
Lo sa bene la famiglia Roy, tenuta insieme dal patriarca Logan, miliardario a capo del conglomerato mediatico Waystar Royco. Personaggi che hanno il mondo a portata di mano e vedono tutto – comprese le loro relazioni e la vita familiare – come una questione d’affari: alcuni giorni si vince alla grande; altri, si fallisce miseramente. La serie parla notoriamente di persone malvagie che fanno le peggio cose, cercando sempre di ottenere più soldi e più potere. Questa quarta stagione, però, sembra insistere sul dubitare del netto dualismo tra bene e male: una persona cattiva è ancora tale se soffre? Possiamo essere assolti dai nostri peccati? La risposta non è chiara. Succession continua così ad alzare la posta in gioco per Roman, Shiv, Kendall e Connor, spingendoli a confrontarsi non solo con situazioni terribili e gli uni con gli altri, ma anche con l’aspettativa e il desiderio di quale posto occupare nel mondo.
Più divertente di molte commedie recenti, stressante come il thriller più intenso, la quarta stagione di Succession trasforma le verità più sgradevoli del capitalismo – ormai sotto gli occhi di tutti – in un intrattenimento irrinunciabile. Concludendo la storia della famiglia Roy – avida, ambiziosa e ricchissima – mentre è vittima di lotte intestine per il potere aziendale, l’ultima stagione contiene praticamente tutto ciò che serviva a renderla un cult: trame, insulti, doppi sensi, dark humor. In un momento in cui ci sembra di essere davanti a una grande epoca di riciclo, dove quasi tutto, per avere successo, sembra dover essere un reboot o un remake, o ancora viene sviluppato all’inverosimile perdendo spesso di mordente e qualità, Succession si ferma, volontariamente, proprio là dove dovrebbe, quando dovrebbe, e lo fa in uno dei migliori modi possibili.
The Bear – Seconda stagione (Disney+)
In un’epoca di iperproduzione di contenuti, il cibo ha assunto un ruolo primario come oggetto di racconto del nostro tempo. Sembra che meno tempo abbiamo a disposizione per sceglierlo, prepararlo, condividerlo, più ne passiamo a fotografarlo, immaginarlo. D’altronde, è normale che sia un punto fermo dei nostri pensieri, dato che tocca inevitabilmente corde profonde: non solo sensoriali, ma anche emozionali. Così, il cibo e il mangiare si eleva in alcuni casi a forma di pensiero, raccontando di noi e trasmettendo la nostra idea di mondo, proprio come accade con la seconda stagione di The Bear.
Se la prima, uscita l’anno scorso, aveva ottenuto il plauso unanime di pubblico e critica, soprattutto per il modo in cui la storia veniva raccontata, la seconda cambia forma, procedendo a due velocità: da un lato quella che porta i personaggi a urlarsi addosso, sovrapponendosi e rendendo quasi incomprensibile il dialogo; dall’altro quella più quieta e meditativa, poco abituale se confrontata alla prima stagione, che permette però di ampliare la narrazione, andando oltre i confini per certi aspetti claustrofobici della cucina e dando maggior respiro alla storia. Serve espandere gli orizzonti per poter far meglio: sembra questo che si ripromette di fare la serie, sostenuta da una scrittura brillante, agile e sempre spontanea.
A tenere insieme le storie di Carmen, Sidney, Marcus, Tina e degli altri membri dello staff del ristorante è la dimostrazione che il talento non è strettamente un’impresa individuale. Cresciamo con l’idea che per avere successo serva essere indipendenti e contare solo su di sé: il naturale bisogno di appartenenza reciproca viene negato, sminuito, ridotto, trasformato in una debolezza. Se pensi di aver bisogno degli altri, allora la tua vittoria vale meno. Per crescere serve invece far parte di una comunità, e contribuire ad alimentarla.
Se con la prima stagione The Bear lasciava confluire nei discorsi sul cibo anche l’elaborazione dei traumi personali, il venire a patti con la perdita e il compito per certi aspetti ancora più lento e doloroso di espiare una colpa, nella seconda, sembra aprirsi alla speranza, facendo perno su un tema portante della società attuale: la capacità di imparare a mettere la cura al centro dell’agire, diventando persone migliori, per noi stessi e per gli altri.
Dead Ringers – Inseparabili (Prime Video)
Quando, nel 1988, Inseparabili uscì nelle sale, David Cronenberg era reduce da una lunga serie di rifiuti, apparentemente dovuti al poco interesse dei produttori alle sue sceneggiature horror concentrate sulla mutazione dei corpi. Forse è stato proprio questo a permettergli di sperimentare, attraverso la storia dei gemelli Elliot e Beverly Mantle, una nuova cifra espressiva più introspettiva, che parte da una particolare attrazione per le anomalie – sia fisiche, ma anche psicologiche – e si spinge oltre i limiti del possibile, assicurandosi di non escludere dalla sua osservazione nemmeno le derive più assurde o socialmente ripudiate. L’’omonimo remake a puntate di questo cult cinematografico sembra raccogliere proprio questa intenzione, esplorando l’universo psichico di due gemelle identiche – interpretate da Rachel Weisz – e legate da un rapporto simbiotico, a tratti parassitario, che non si limita al corredo genetico, ma ha una profonda radice esistenziale.
Come i gemelli Mantle, anche le protagoniste della serie condividono le sembianze fisiche e i successi professionali nel campo della medicina, ma sono persone diverse per caratteristiche, inclinazioni e perversioni. Le loro personalità però non possono nemmeno essere incasellate in un dualismo stretto. Al contrario, il legame che le fa sentire intere, complete e sane solo quando sono unite rappresenta un ampliamento della dimensione narrativa del sosia, che elimina la figura del gemello cattivo, perché introiettata da ciascuna delle due e si manifesta costantemente, senza bisogno di sdoppiamenti o metamorfosi. La declinazione femminile di questi personaggi, inoltre, permette di soffermarsi su temi come l’autonomia del corpo, la salute fisica e psicologica, i diritti riproduttivi, la dipendenza affettiva, e su come tutti questi elementi influiscano sull’identità, mostrandoli da una prospettiva che ha iniziato a essere usata solo di recente.
Oltre a rappresentare una riflessione sulla hybris, che le gemelle manifestano durante i loro esperimenti sui corpi, Dead Ringers – Inseparabili è una riflessione sul futuro della maternità – quindi dell’umanità – e soprattutto un tentativo di mettere in scena il rimosso della società del benessere, sottolineando quanto ci renda spesso incapaci di assecondare le nostre perversioni, esplorando fino in fondo fantasie e desideri considerati immorali.
You – Quarta stagione (Netflix)
La meta perfetta in cui andare dopo aver finto la propria morte, essersi tagliati due dita del piede e aver lasciato il corpo della propria moglie bruciare in un incendio? Londra, almeno secondo l’ultima stagione di You. E con un nuovo luogo, arriva una nuova identità per il suo protagonista: Joe Quinn-Goldberg è ora Jonathan Moore, professore americano in una illustre università londinese. Uno degli aspetti più complessi – e controversi, secondo alcune critiche – di You è proprio lui, e la conciliazione tra i suoi più lati contraddittori: da un lato, Joe è super sensibile, un gran lettore, pronto anche ad aiutare chi ha bisogno; dall’altro perseguita e uccide le donne da cui è ossessionato, e tutte le persone che lo intralciano.
Il piacere di guardare la nuova stagione – nonostante, forse, come il suo protagonista, anche per la serie sembra essere arrivato il momento di tagliare la corda – deriva da due aspetti principali: il suo lato satirico, passato dalla intellettualissima New York, allo spiritualismo ultracapitalista fino alla borghesia inglese; dall’altro, la capacità di inserire più colpi di scena nella trama di un solo episodio. Non c’è bisogno di aspettare che succeda qualcosa. Tutto ciò che Joe deve fare è guardare una donna fuori dalla finestra e si scatena l’inferno. Eppure, nonostante in alcuni momenti le possibilità che Joe sopravviva, non venga arrestato e continui a farla franca siano nettamente inferiori allo zero, smettendo – forse da tempo – di essere credibili, è proprio il fatto che ogni volta sia l’assurdo ad avere la meglio a costituire uno degli elementi di forza della serie. Inoltre, mentre le prime due stagioni si concludevano cercando di sovvertire le nostre aspettative sulle commedie romantiche e sul privilegio maschile, già la terza, ma in particolar modo la quarta, sembrano essersi liberate dalla necessità di “voler dire qualcosa”, mostrandosi come il risultato di quelle che sono probabilmente ore di gran divertimento e sfida nella sala autori.
Divisa in due parti, come ormai spesso Netflix sceglie di procedere con le serie più di successo, per mantenere alta l’attenzione nei loro confronti, la quarta stagione di You merita di essere vista anche solo perché metà del divertimento deriva dal cercare di individuare i colpevoli tra sfacciati influencer e aristocratici superficiali.
Loki – Seconda stagione (Disney+)
Nonostante sia uno degli elementi che più determinano la nostra vita e che per primo conosciamo venendo al mondo, il nostro vocabolario e le competenze più comuni sono inadeguate a parlare del tempo, quando non si tratta di chiedere che ore sono. Assistiamo facilmente ai suoi effetti più visibili, eppure se dovessimo descriverne la natura e il funzionamento, per molti di noi il modo migliore sarebbe quello di Doctor Who, nella serie cult andata in onda negli anni Sessanta, quando diceva che “da un punto di vista non lineare e non soggettivo, [il tempo] è più una grossa palla di traballante e traballosa… roba… temporaleggiante”. Una frase che ben si adatta a comprendere anche le dinamiche della seconda stagione di Loki, un prodotto di rara qualità – dall’estetica inconfondibile alla colonna sonora – tra quelli dell’ultima fase del Marvel Comic Universe, privi di qualunque complessità.
Alla fine della prima stagione, Sylvie, una delle numerose varianti di Loki, aveva appena ucciso Colui che resta, architetto e burattinaio, scegliendo di riporre la propria fiducia nella possibilità del libero arbitrio a prescindere dal rischio di una guerra multiversale, invece di continuare a sottomettersi ai capricci della Time Variance Authority, l’organizzazione che protegge e preserva il corretto flusso della “Sacra Linea Temporale”. (Sì, probabilmente questo recap non avrà senso per chi non ha visto la prima stagione; no, non è uno spoiler se non può essere pienamente compreso). La nuova serie di episodi si apre con la TVA alle prese con le conseguenze delle azioni di Sylvie, mentre Loki si trova all’improvviso continuamente sbalzato avanti e indietro nel tempo, in un modo che Mobius, impiegato nel controllo sulle violazioni delle leggi della TVA, descrive come “nascere o morire o fare entrambi nello stesso momento”.
Tra telai temporali, varianti, chi arriva e chi scompare, inseguimenti e lotte, la seconda stagione di Loki è una serie fortemente introspettiva, la cui essenza si sostanzia soprattutto nei dialoghi, nel rafforzamento dell’amicizia tra Loki e Moebius, e nella separazione dei destini del fratello di Thor e della sua controparte femminile, Sylvie. È la seconda metà di stagione, in particolare, ad essere un continuo climax emotivo, in cui i protagonisti sono impegnati nello sforzo disperato di evitare quello che sembra un esito inevitabile. Alternando riflessioni sul libero arbitrio e il determinismo a una struttura quasi da thriller, in cui ricomporre le informazioni scoperte dal dio dell’inganno nei suoi continui sbalzi temporali, Loki si conferma come una delle migliori serie del MCU.
Beef – Lo scontro (Netflix)
Negli ultimi tempi, sembra che gli atteggiamenti aggressivi e violenti stiano diventando sempre più frequenti e tangibili. L’impressione, infatti, è che per buona parte della popolazione sia sempre più difficile contenere un profondo sentimento di rabbia. Se molte persone hanno iniziato a sfogare la loro negatività sugli sconosciuti che si trovano accanto è anche perché il bisogno di far sentire la nostra voce si fa sempre più forte, costi quel che costi. In Beef – Lo scontro, basta rischiare un tamponamento per mettere in moto un crescendo di eventi capaci di mescolare ironia e meschinità.
Amy (Ali Wong) e Danny (Steven Yeun) hanno solo due cose in comune: sono al limite, nelle loro vite, e si trovano nel parcheggio dello stesso supermercato. Lui sta facendo retromarcia, lei sta correndo a casa. Rischiano di scontrarsi. Lei si attacca al clacson, lui fa lo stesso, poi Amy frena di colpo, abbassa il finestrino e gli fa dito medio. Nessuno dei due riesce a lasciar perdere, così quel pomeriggio finisce per cambiare le loro vite per sempre, dedicandole a un unico obiettivo: distruggere l’altro. Potrebbero ricorrere alla violenza, ferirsi fisicamente, ma è quasi troppo semplice: vogliono di più, vogliono la peggior vendetta, vogliono ferire la persona a cui l’altro tiene di più, e lasciandosi travolgere da questa ossessione finiscono come da copione per rendere inestricabili le loro vite.
Ciò che rende Beef tanto interessante non è però solo la capacità di affrontare ed esplorare in profondità cosa significhi ferire qualcuno, ma anche la sua capacità di inscrivere nella vendetta una satira della guerra di classe e di come ricchezza ed etnia negli Stati Uniti si intersechino, raccontate attraverso una lente distintamente asiatico-americana, che mostra l’esperienza della comunità come tutt’altro che monolitica. Tuttavia, alla fine emerge l’idea che la rabbia possa essere anche liberatoria.
Only Murders in the Building – Terza stagione (Disney+)
Mai come in questi anni, potremmo condensare l’intrattenimento di successo in due contenuti: i podcast e il true crime, meglio se podcast di true crime. Non è quindi una sorpresa che Only Murders in the Building, la serie che parodizza questa grande passione che forse ci sta ormai sfuggendo un po’ di mano, abbia ottenuto negli anni il successo che ha, grazie anche a una scrittura perfettamente comica e a un trio irresistibile. Per renderla ancora più divertente mancava una sola cosa: renderla un musical. In parte, almeno.
Se nelle prime stagioni Only Murders in The Building era caratterizzata soprattutto da un’incompetenza dei protagonisti al limite del comico e dell’umoristico, quasi fosse ciò che li teneva legati, nella terza stagione ognuno di loro si trova a fare i conti con se stesso e con ciò che lo separa dall’altro, in un arco di presa di coscienza che avviene per ciascuno in un momento diverso. Così, se Mabel si trova a doversi confrontare con l’idea di cosa diventare da grande, Oliver e Martin devono farlo non solo con gli insuccessi lavorativi e i cambiamenti della loro vita privata, ma anche con l’allontanamento temporaneo della ragazza, sempre più distante per la sensazione che ai suoi compagni non interessi più molto scoprire chi sia l’assassino.
La seconda stagione si era infatti conclusa con una morte – all’apparenza naturale – su uno dei palchi più famosi d’America, quello di Broadway, ed è da lì che riprendono i nuovi episodi. Non che il successo dello spettacolo fosse comunque assicurato, considerata la tendenza di Oliver a rendere ogni elemento il più assurdo possibile: un’opera intitolata Death Rattle (Rantolo di morte), ambientata in un faro in Nuova Scozia e dove l’unico testimone di un crimine è un bambino. Mentre Oliver, Martin e Mabel si trovano così a risolvere un nuovo omicidio, a spiccare nel nuovo cast è soprattutto l’aggiunta di Meryl Streep, che interpreta il personaggio di Loretta in maniera prodigiosa, centrando l’essenza di una donna che pur avendo vissuto una vita di rifiuti ha mantenuto vivi i propri sogni.
Con la terza stagione, Only Murders in the Building non ha più bisogno di dimostrare di poter proseguire il proprio successo. In questa commedia satirica, brillante e anche un po’ macabra, infatti, si ritrova qualcosa di molto più profondo e commovente di un semplice intento parodistico: un’indagine sull’amicizia, sul dolore e sul rimpianto, su chi vogliamo essere.
The Last of Us (Sky, Now TV)
Il rapporto tra gaming, serialità e cinema è sempre stato particolarmente controverso, se non per qualche rara eccezione. Ciò che accade nella maggior parte degli adattamenti, infatti, è che o si esagera, aggiungendo magari passaggi posticci a uno snodo della storia minore che magari nel videogioco si sviluppa per pochi minuti (perché per le restanti otto ore devi combattere, sparare, saltare, trovare munizioni, cercare dei medicamenti, e semplicemente capire come andare avanti); o si riprende l’ossatura narrativa del gioco senza alcun cambiamento, creando un film di due ore e mezza il cui unico intento è fare soldi. The Last of Us, la serie tv prodotta da HBO a partire dall’omonimo videogioco, sembra essere riuscita finalmente a fare qualcosa di diverso.
La trama potrebbe sembrare banale e ripetitiva, raffigurando un mondo post-apocalittico dove un fungo parassita del genere cordyceps ha infettato gli esseri umani, prendendone il controllo e trasformandoli in creature mostruose. Come accade per le storie migliori, però, non è tanto il cosa a fare la differenza, quanto il come. La serie è infatti al contempo una storia molto più piccola e più grande del disastro globale in cui esiste: invece di lavorare sullo stereotipo dell’eroe, supera la dicotomia tra bene e male, mettendo in scena degli esseri umani che non devono solo sopravvivere all’infezione da funghi o ai nemici, ma anche fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni, portandoci a chiedere, alla fine, se i personaggi che abbiamo tanto imparato ad amare siano davvero meritevoli di quell’affetto, e come e si possa giustificare tanta violenza, sollevando dubbi etici sulle scelte fatte, o non fatte.
Tutto ciò che accade in The Last of Us torna prepotentemente al significato più intenso di us, cioè noi. Un termine che non denota genericamente una specie – quella umana – o una condizione – quella di superstiti –, ma che richiama la vicinanza, la condivisione, la famiglia. “Cosa sogni di fare quando tutto questo sarà finito?”. Qualunque cosa sia, la farò con te, è la risposta che sembra aleggiare continuamente nell’aria. Questo “noi” condensa tutta la fatica, l’egoismo, la contentezza e la commozione che servono per salvaguardarlo, perché quando attorno a noi ogni cosa sembra essere destinata alla distruzione, l’importanza dei nostri gesti si riduce a “prenderci cura”, costi quel che costi.