Siamo sempre più arrabbiati, sempre più violenti. E anche più divisi. - THE VISION
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A qualche settimana dalla fine del primo lockdown, nell’estate del 2020, sui social ha iniziato a girare il video di un viaggio in treno, in cui una donna, accorgendosi che un altro passeggero seduto poco distante da lei non stava indossando la mascherina, si volta per redarguirlo verbalmente, dando il via a una lite che viene interrotta dal controllore giusto un attimo prima di diventare una scazzottata in piena regola. Nonostante la protagonista del filmato avesse indubbiamente ragione a pretendere che il suo vicino rispettasse le restrizioni previste in quel periodo per contenere i contagi, ciò che colpì la maggior parte degli utenti – me compresa –, rendendo questa scena un meme, è stata la reazione del tutto priva di freni inibitori manifestata dalla donna di fronte a quel comportamento scorretto. L’esplosione violenta della sua rabbia, per quanto mossa da un valido motivo, ai miei occhi è sembrata quasi il risultato di una sorta di amnesia, capace di far dimenticare in un istante a una persona i codici sociali generalmente riconosciuti anche in termini di prudenza, e di rinunciare per un attimo al controllo sulle sue emozioni.

Allora, potevamo imputare l’origine di questo carico di frustrazione e risentimento, tanto impetuoso da riuscire a valicare le convenzioni sociali e pronto a essere sfogato – a torto o a ragione sulle persone attorno a noi, alla centrifuga di emozioni negative e stranianti accumulate dall’inizio della pandemia, al lungo periodo di digiuno dalle interazioni vis-à-vis che ci era stato imposto per mesi, o alla difficoltà di ripristinare una versione relativamente normale delle nostre vite, riadattandole allo spazio del mondo esterno – anche dopo esserci accorti, in alcuni casi, che non eravamo più così interessati a farne parte. Per questo, nel definire la crescita dell’aggressività nei comportamenti delle persone osservata a ridosso dei vari lockdown, diverse ricerche hanno parlato proprio di Post-pandemic rudeness.

Negli ultimi tempi, però, sembra che gli atteggiamenti aggressivi e violenti non solo non si siano ridimensionati, diminuendo spontaneamente la loro incidenza nella nostra esperienza sociale, come ci si sarebbe aspettato dopo oltre tre anni dall’inizio della pandemia; al contrario, essi sono diventati sempre più frequenti e tangibili nei loro effetti, dal momento che si stanno manifestando principalmente nelle occasioni d’incontro collettive o durante gli eventi che riuniscono un gran numero di persone. Lo testimoniano i molteplici casi di rissa al cinema, avvenuti nel corso di un’estate con l’affluenza in sala più alta degli ultimi anni – anche grazie alla campagna di biglietti a 3.50 euro; o quelli dei cantanti colpiti da oggetti lanciati sul palco durante i loro concerti estivi, come è accaduto, in Italia, a Baby K, che è stata costretta ad annullare le altre date del tour a causa delle ferite riportate. 

L’impressione, infatti, è che per buona parte della popolazione sia sempre più difficile contenere un profondo sentimento di rabbia, che trova negli eventi collettivi una sorta di palcoscenico su cui esprimersi e le cui origini non possono essere ridotte a uno strascico del periodo pandemico – dato che a questo, successivamente, si sono aggiunti altri motivi di preoccupazione altrettanto gravi come la guerra, l’impennata dell’inflazione e i segnali di una crisi ambientale tanto distruttiva da non poter più essere negata. In questo scenario, i momenti eccezionali di svago e divertimento a cui partecipiamo nel tempo libero sono diventati una valvola di sfogo a tutti gli effetti, un’occasione per sottrarci a una routine di malcontento vissuta in apnea, dove le nostre emozioni negative finiscono per rimanere compresse dentro di noi, un po’ perché evitiamo di affrontarle nel tentativo di sopravvivere a un periodo di crisi che sembra non finire mai, un po’ perché anche se le proviamo da tempo, non hanno ancora smesso di farci paura. 

Se molte persone hanno iniziato a sfogare la loro negatività sui passeggeri accanto a cui si trovano seduti in aereo, per poi continuare a litigare anche in vacanza; a prendersela con gli altri spettatori quando vanno al cinema o a un festival; e a fare rissa durante la coda per accedere alle attrazioni nei resort come Disneyland dove a causa dell’aumento dei casi di violenza registrato lo scorso anno, l’amministrazione del parco ha dovuto aggiornare le ammonizioni sulla cortesia del sito web, rendendole più stringenti –, non è soltanto perché il lockdown ha interrotto per un certo periodo di tempo il nostro allenamento alla socialità, indebolendo in un certo senso la nostra capacità di stare con gli altri, e di riconoscere la corretta etichetta di comportamento da adottare in determinate circostanze sociali. I filtri che ci permettono di limitare le nostre esternazioni non sono affatto stati dimenticati, semplicemente sembra che non ci interessi più così tanto utilizzarli, anche nel caso in cui alcuni dei nostri atteggiamenti possano arrecare danno a chi ci circonda, perché ciò che ci preme maggiormente è dare sfogo a un malessere che negli ultimi tre anni non ha fatto che diventare più pressante e che continuiamo a percepire come inascoltato. Il bisogno di farci sentire, di porci al di sopra del rumore del mondo costi quel che costi, anche se nel farlo agiamo a discapito degli altri, durante gli eventi collettivi si somma poi all’adrenalina del momento, spingendoci ad agire in maniera irrazionale e a lasciarci andare a pulsioni emotive fuori controllo, che tendono a riversarsi sulla realtà sotto forma di gesti estremi come dimostra, appunto, la tendenza del lancio di oggetti ai cantanti che sembra rappresentare una preoccupante “nuova normalità” degli spettacoli musicali.

Il problema di questi episodi, oltre al fatto di essere estremamente spiacevoli per chi vi si trova coinvolto, è che gli sfoghi manifestati durante un concerto o la proiezione di un film non rappresentano niente più che gesti esasperati, ben lontani dalle occasioni in cui invece la rabbia sociale si è incanalata in moti sovversivi, che hanno determinato un’effettiva trasformazione della realtà – potenzialità che questo sentimento può avere solo quando dosato e utilizzato con consapevolezza. Più che il segnale di una possibile rivoluzione, di un movimento capace di sovvertire lo status quo, questi comportamenti rappresentano infatti un sintomo di assoluta disillusione, assumendo tutte le caratteristiche del fenomeno che lo psicologo statunitense Martin Seligman ha definito ’impotenza appresa”: un processo di “adattamento alla peggiore eventualità” che stando ai suoi studi si innesca quando ci rendiamo conto che le nostre reazioni a ciò che accade, anche le più impetuose e sentite, nei fatti non sembrano portare mai ad alcun risultato positivo concreto. In questo senso, l’aggressività dilagante a cui stiamo assistendo di recente è una richiesta di ascolto mal posta, che si risolve nella ricerca di un piccolo momento di sfogo da cui però, in cuor nostro, sappiamo bene di non poter ottenere il cambiamento che desideriamo – e forse nemmeno una qualche sensazione di sollievo dal nostro malessere.

Questo genere di atteggiamenti violenti, soprattutto, va a danneggiare chi in realtà si trova nella stessa posizione dell’aggressore, non solo come spettatore, passeggero o fan di un determinato artista, ma soprattutto come individuo che probabilmente condivide il suo stato emotivo e le sue difficoltà. L’istinto di porre la propria voce arrabbiata al di sopra di quelle degli altri, sfruttando un gesto violento in grado di relegarli a una posizione subalterna, è infatti profondamente distruttivo dal punto di vista della coesione sociale, perché crea una cesura tra persone che invece sarebbero molto simili tra loro, almeno per ciò che sentono, dato che gli avvenimenti impattanti susseguitisi negli ultimi anni, oltre a segnarci a livello psicologico individuale, lo hanno fatto anche sul piano collettivo. Riscoprire una condizione di uguaglianza al di sotto dello strato di rabbia, frustrazione e insicurezza che sembra essersi calcificato sulla nostra intera esperienza è dunque il primo passo da fare per imparare a incanalare le nostre emozioni negative in azioni produttive, che abbiano una reale presa sulla realtà, come accade, per esempio, con la manifestazione collettiva del dissenso, ma soprattutto per ricordarci che possiamo condividere con chi ci circonda anche quelle positive.

Per questo, anche se sembra paradossale, una possibile terapia per l’aggressività sociale può nascere proprio dai luoghi in cui essa si sta manifestando maggiormente: quelli dell’incontro, della socialità e della condivisione. Le ritualità collettive come il cinema e ancor di più gli eventi come concerti e festival, che raccolgono una grande mole di persone attorno a un interesse o a una sensibilità comune, rappresentano infatti un potente connettore emotivo, perché ci danno la sensazione di condividere qualcosa di importante – dalla passione per un artista o per un certo tipo di musica, al coinvolgimento in una causa che riteniamo particolarmente urgente – con tutti coloro che hanno deciso di parteciparvi. Queste circostanze, infatti, sono in grado di legare le persone attraverso una sorta di “amicizia istantanea”, una meccanismo di compartecipazione in cui gli altri sono indispensabili al nostro divertimento e alla nostra felicità, così come noi lo siamo per la loro.

Ciò che dobbiamo impegnarci a recuperare per invertire la crescita della violenza, non è tanto un’etichetta comportamentale o un capitolo del galateo dimenticato a causa del lockdown, si tratta di riaccendere nelle persone la consapevolezza che la positività della nostra esperienza sociale – che si tratti di un evento o di qualsiasi situazione vissuta insieme ad altre persone – dipende necessariamente anche dal benessere di chi ci circonda. Misurare le nostre emozioni e i gesti che ne scaturiscono su un metro che va oltre i nostri bisogni personali è dunque fondamentale, non solo per una questione di rispetto degli altri, che già di per sé dovrebbe essere percepita come irrinunciabile, ma soprattutto perché ci aiuta a costruire esperienze in cui la nostra sensazione di felicità viene amplificata dall’atmosfera in cui siamo immersi, e che abbiamo contribuito ad alimentare.

Ciò permetterà di vedere le occasioni sociali non come una valvola di sfogo, dove assecondare senza freni la propria rabbia, ma come uno spazio in cui essa viene mitigata o addirittura sostituita da emozioni positive, nel momento in cui ci impegniamo a coltivarle in noi stessi e in chi ci sta attorno. Per questo, anche se nelle situazioni di crisi gli eventi culturali e di intrattenimento che permettono alle persone di godere di un tempo libero di qualità sono i primi ad essere sacrificati –  spesso a causa di politiche tutt’altro che lungimiranti – è essenziale che questi momenti vengano invece valorizzati con adeguati programmi di investimento, senza essere considerati un surplus a cui si può rinunciare senza troppi scrupoli, perché essi hanno un’importante funzione collettiva: educarci alle relazioni con gli altri, e all’idea che la felicità e il benessere non sono mai un traguardo del singolo. Acquisire questa consapevolezza e tenerla ben salda è forse l’unico modo per riuscire davvero a fare rumore, insieme, qualsiasi sia l’emozione che vogliamo esprimere.

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