A metà degli anni Sessanta, negli Stati Uniti, nacque l’American Society for Cybernetics, una società dedicata allo studio di una delle discipline antenate dell’intelligenza artificiale, la cibernetica. Questo ramo della scienza applicata si occupava, in particolare, dell’ideazione e della realizzazione di dispositivi e macchine in grado di simulare le funzioni del cervello umano, muovendo i primi passi verso un’opportunità di ricerca di cui oggi stiamo vendendo i risultati più sofisticati e sorprendenti. Nonostante il contesto sociale e la situazione politica di allora fossero molto distanti da quelle attuali, questo organo era stato creato per rispondere a un timore che anche oggi ricompare nel dibattito sul progresso dell’IA, ovvero quello legato alle sue potenziali conseguenze incontrollabili, che ci porta a immaginare più o meno giustificatamente una serie di scenari distopici, in cui tecnologie ben più intelligenti di quanto può esserlo un essere umano dettano i ritmi delle nostre vite, finendo inevitabilmente per disumanizzarle – una paura che all’epoca era alimentata anche dal potere crescente che le forze sovietiche stavano acquisendo in campo tecnologico e informatico, rischiando di minacciare gli Stati Uniti in un momento di forte contrasto ideologico.
Proprio all’interno dell’American Society of Cybernetics, però, alcuni scienziati e studiosi sostenevano che la visione distopica delle tecnologie informatiche derivasse da una prospettiva limitante, che metteva da parte la capacità di scelta e l’azione umana, sia a livello di padronanza che di responsabilità, descrivendoci come pedine in balia del progresso tecnologico invece che come autori e motori dello stesso. Sulla scia di questo ragionamento, sorsero dunque gruppi di ricerca clandestini che puntavano a rimettere l’essere umano al centro del progresso tecnologico, vedendo macchine e computer non come una forza aliena e spaventosa da tenere sotto controllo per evitare di farsela sfuggire di mano, ma come un prolungamento e potenziamento delle nostre facoltà e della nostra intelligenza, quindi come uno strumento alleato con cui imparare a lavorare insieme. L’obiettivo che questi collettivi si ponevano, quasi un decennio prima che Steve Jobs e Steve Wozniak di Apple avessero la stessa idea, era infatti quello di “personalizzare” l’informatica, modellando le sue potenzialità su scopi e bisogni umani, dai più banali ai più complessi.
Ogni nuova tecnologia porta con sé un bagaglio di sfide che ne determinano il successo o il fallimento, e nonostante gli enormi progressi fatti negli ultimi anni non possiamo ancora dire di avere a disposizione sistemi tecnologici e informatici in grado di valorizzare a pieno le attività e gli scopi umani. Un esempio lampante è quello delle smart cities, che stanno trovando diversi ostacoli al loro sviluppo non tanto dal punto di vista dell’implementazione di tecnologie abbastanza innovative e potenti da sostenere la complessità di un tale progetto di ridefinizione urbana e ripensamento della vita in città. La maggiore criticità, al contrario, riguarda proprio la mancata capacità di questi centri urbani intelligenti di mantenere al centro il benessere dei cittadini. Sono numerosi, infatti, i casi in cui progetti che dovevano segnare una svolta – come Songdo, in Corea del Sud, Masdar City, negli Emirati Arabi, e PlanIT Valley, in Portogallo – si sono invece rivelati una delusione nell’arco di pochi anni, trasformandosi in luoghi fantasma o dando corpo, in parte, alle fantasie distopiche che tanto temiamo. Il filo conduttore di questi fallimenti ha a che fare con i criteri che le persone utilizzano per valutare il proprio benessere e la propria felicità – sulle base di diversi bisogni, capacità finanziarie, ambiente culturale e aspirazioni – che andrebbero messi al centro della pianificazione delle smart cities, invece di guardare soltanto alle potenzialità dell’apparato tecnologico. Ridurre le città smart all’efficienza di quest’ultimo è infatti un’idea sbagliata, che ne tradisce l’intenzione principale: aumentare la qualità della vita delle persone che le abitano.
Le principali cause all’origine dell’abbandono di questo modello urbano sono quindi strettamente legate a fattori in base ai quali le persone valutano la propria qualità della vita, in particolare ai costi eccessivamente alti, alla bassa attrattiva culturale e a una programmazione tecnologica disomogenea, per nulla personalizzata e attenta alle richieste e ai bisogni dei cittadini. Non a caso l’Happy City Index – che valuta la percezione di benessere delle persone in varie città del mondo – classifica i centri urbani in base alla loro capacità di adattarsi a chi vi abita, assecondando interventi che contribuiscono a coltivare la felicità e l’appagamento individuale; e premia città dove le soluzioni attuate nei più svariati ambiti – dalla mobilità all’economia, dalla protezione ambientale all’istruzione – perseguono questo ambizioso obiettivo. Per far sì che le smart cities non si svuotino in poco tempo, trasformandosi nelle cosiddette ghost cities, occorre dunque adottare lo stesso principio, puntando su tecnologie realmente personalizzate, ovvero capaci di valorizzare il capitale umano.
Uno degli aspetti più problematici di queste città, per esempio, diventa evidente sul piano sociale nel momento in cui queste tendono a fare dell’evoluzione tecnologica un elemento che acuisce – invece di contribuire ad appianarla – la disparità tra pochi ricchi che possono permettersi di vivere in spazi iper-tecnologici e adatti a tutte le loro esigenze personali, e una maggioranza sempre più ampia di persone che non vi ha accesso a causa della propria situazione finanziaria. Da questo punto di vista, occorrerebbe prevedere a priori in fase di progettazione degli spazi smart una serie di politiche abitative che favoriscano l’inclusione sociale, per evitare di rendere queste città delle mere esperienze di lusso. Garantire sul piano economico l’accessibilità all’innovazione – tramite agevolazioni per le fasce di reddito più basse, una precisa regolamentazione del mercato immobiliare e un lavoro a tappeto sulle inevitabili discontinuità territoriali a livello di avanzamento digitale – è infatti fondamentale per generare una transizione con un impatto concreto sulle vite di tutti, sventando il rischio di creare dei macro quartieri altamente tecnologici ma abitati da soli ricchi, e da cui la maggior parte delle persone rimarrebbe esclusa.
Allo stesso modo, oltre alla tecnologizzazione dei servizi che hanno un effetto diretto sul miglioramento della vita urbana – come la mobilità smart o i sistemi digitalizzati di tracciamento per la raccolta dei rifiuti –, anche nella progettazione di città intelligenti serve dare la giusta attenzione all’offerta culturale, all’intrattenimento e a tutte quelle occupazioni a cui i cittadini si dedicano per piacere personale o divertimento. L’estrema funzionalità tecnologica di questi ambienti, pur facilitando potenzialmente molte delle nostre attività quotidiane, non può infatti compensare in alcun modo la siccità culturale – come si definisce il fenomeno di rarefazione delle occasioni di incontro legate alla cultura, che determina per forza di cose una scarsa partecipazione dei cittadini ad attività come convegni, spettacoli teatrali o cinematografici, mostre d’arte. Essendo stato dimostrato da più parti quanto la cultura incida positivamente sulla salute e sul benessere individuale, la pianificazione delle future città non può prescindere dal prevedere qualche forma di welfare culturale, dal momento che – anche se il sistema in cui viviamo tende a convincerci del contrario – la nostra felicità non dipende certo dalla possibilità di diventare massimamente efficaci ed efficienti, ma da quella di ritagliarci degli spazi da dedicare a noi stessi e a ciò che ci fa stare bene.
Il modo in cui le smart cities potrebbero rivoluzionare la mobilità, il lavoro, i servizi e le varie attività di svago offerte dalle nostre città convalida l’idea tutt’altro che scontata per cui la qualità della nostra vita, così come il benessere collettivo, sono fortemente determinati dal luogo in cui viviamo. Allo stato attuale, però, ci troviamo ancora divisi tra la teoria secondo cui le tecnologie digitali possono migliorare la vita delle persone, fornendo un livello più ampio di accesso a diverse informazioni e servizi a costi ridotti, e dei risultati pratici che spesso tradiscono le premesse, mostrando i gravi rischi di disparità e disuguaglianza sociale, quelli legati all’inaridimento culturale, e tutte le problematiche a cui si andrebbe incontro se la progettazione degli ambienti smart dimenticasse il suo centro: il benessere e la felicità delle persone.
Tenere presente che una città smart, per essere più vivibile, non deve soltanto disporre di una sofisticata dotazione tecnologica, ma soprattutto risultare più “umana”, cioè attenta e adatta a rispondere alle richieste e ai desideri dei suoi cittadini, è dunque fondamentale per sventare i rischi di una deriva distopica della transizione verso un nuovo modo di vivere i centri urbani. Ci troviamo infatti in un momento storico in cui la dotazione tecnologica di cui disponiamo potrebbe davvero renderci l’unità di misura dello spazio in cui viviamo, personalizzando dispositivi e software fino ad accordarli perfettamente al nostro ritmo di vita e alle nostre esigenze. Per farlo, però, dobbiamo ricordare che è la tecnologia a doversi adattare a noi, e non il contrario. Come avevano già intuito alcuni scienziati dell’American Society of Cybernetics quasi sessant’anni fa, l’utilizzo e il destino delle nuove tecnologie dipende dai noi, così come l’opportunità di immaginare, grazie ad esse, un miglioramento futuro che ci sarebbe invece stato precluso, se non avessimo imparato a lavorarci insieme. Nessun traguardo nel progresso tecnologico deve però farci perdere di vista quello che è il fine ultimo sul piano sociale, ovvero una reale democratizzazione del benessere, a cui ogni innovazione dovrebbe essere orientata.
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