È ormai innegabile che la questione ecologica e le disuguaglianze economiche e sociali siano strettamente legate. Secondo le stime di Oxfam, tra il 1990 e il 2015 la metà più povera della popolazione ha prodotto il 7% delle emissioni totali di CO2, mentre l’1% più ricco ne ha causate più del doppio, il 15%. La ragione risiede nelle diverse abitudini di consumo: uno studio pubblicato nel 2019 da alcuni ricercatori statunitensi evidenzia come il consumo di alcuni beni di lusso – super case, yacht, jet privati – nei soli Stati Uniti può arrivare a generare tanta CO2 quanto quella prodotta da alcune nazioni. Dall’altra parte, sarebbe fuorviante e deresponsabilizzante accusare le élite globali di essere le uniche responsabili della crisi climatica. Il problema è più complesso e si gioca sul rapporto tra come i singoli individui possono influenzare le persone intorno a sé e le stesse istituzioni. In realtà, almeno in apparenza, non sembriamo essere mai stati così preoccupati per la crisi climatica.
Secondo una ricerca condotta dall’Università di Oxford e dalle Nazioni Unite, il 64% della popolazione globale afferma che il cambiamento climatico sia un’emergenza. Un sondaggio svolto dal Pew Research Center all’interno di 17 economie avanzate ha evidenziato come il 72% degli intervistati si definisca “molto o piuttosto preoccupato” per le conseguenze che il climate change potrebbe avere sulla sua vita. Una preoccupazione che, almeno a parole, si traduce anche in una volontà di cambiare le cose: addirittura l’80% degli intervistati ha dichiarato di voler modificare il modo in cui vive e lavora per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.
Si tratta di numeri che sono aumentati in maniera significativa negli ultimi anni. Rispetto al 2015, per esempio, i tedeschi che si definiscono molto preoccupati per la crisi climatica sono più che raddoppiati (dal 18% al 37%); in Corea del Sud questo dato è aumentato di 13 punti, raggiungendo il 45%, e in Spagna addirittura il 46%. Sembra che tutti vogliano salvare il mondo. Eppure, stiamo andando nella direzione opposta. Parlando all’inaugurazione della 27esima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP 27), il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres è stato particolarmente pessimista (o forse semplicemente realista) affermando che: “Le emissioni di gas serra continuano a crescere, le temperature globali continuano ad aumentare e il nostro pianeta si sta rapidamente avvicinando a punti di svolta che renderanno il caos climatico irreversibile. Siamo su un’autostrada verso l’inferno climatico con il piede ancora sull’acceleratore”. L’ultimo rapporto dell’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il gruppo di esperti e scienziati internazionali che studia i cambiamenti climatici) l’ha detto in maniera ancora più netta: gli impegni sottoscritti dai Paesi sono semplicemente insufficienti per contrastare il surriscaldamento globale. Di questo passo, si stima che entro la fine del secolo la temperatura globale potrebbe aumentare di 2,5 gradi centigradi, 1 grado in più rispetto al limite stabilito alla storica COP 21 di Parigi.
La comunità globale si trova così davanti a un apparente paradosso: da una parte, la crescente volontà dei cittadini di contrastare la crisi climatica; dall’altra un pianeta che sembra dirigersi sempre più rapidamente verso il punto di non ritorno. Sicuramente le élite politiche e industriali di tutto il mondo si sarebbero dovute comportare diversamente, e adesso dovrebbero e potrebbero fare di più, ma anche come singoli individui potremmo fare di più, a maggior ragione se siamo sempre più preoccupati per l’ambiente. Dietro questo atteggiamento, però, non c’è nulla di particolarmente strano: è facile che nella grande maggioranza dei casi i membri di un grande gruppo di persone non agiscano nell’interesse del gruppo.
Sembra controintuitivo, eppure spesso è così. Nel libro del 1965 La logica dell’azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, l’economista Mancur Olson sostenne la tesi secondo cui le persone non agiscono nell’interesse del proprio gruppo a meno che non siano costrette o abbiano qualche incentivo personale, che sia di natura economica, sociale o psicologica. Questo avviene perché il contributo che potrebbero dare al gruppo non supera il costo di svolgere quella stessa azione. Per capire meglio si può provare ad adottare la teoria di Olson al gruppo più largo possibile: l’umanità stessa. Come abbiamo visto in precedenza, più di due terzi delle persone è preoccupato per l’ambiente: evitare il cambiamento climatico rappresenta quindi un interesse senz’altro condiviso dalla maggioranza della specie. Eppure, cambiare le nostre abitudini ha un costo, in termini di minore comodità, eccetera. Costo che spesso non siamo disposti a pagare, perché non sembra valere il micro-contributo che possiamo portare al pianeta. Di conseguenza, tendiamo a non fare nulla e ad accontentarci dello status quo, con l’eccezione di chi appunto può ricevere incentivi personali – dall’auto-gratificazione personale per aver compiuto la scelta più etica nonostante gli sforzi e i sacrifici, all’incentivo politico di portare avanti una battaglia ecologista. Ma non deve essere per forza così. Invece di limitarci a interpretare il ruolo dell’Homo oeconomicus di certe teorie, calcolatore ed esclusivamente concentrato sul proprio interesse individuale, possiamo adottare un approccio relazionale ed etico, che ci faccia rendere conto che tutto ciò che facciamo ha un impatto su noi stessi, sulle altre persone e sull’intero pianeta. In questo caso le cose potrebbero cambiare. La verità, infatti, è che nessuna scelta personale è mai solo personale, ma è sempre anche intrinsecamente politica.
Un classico esempio di questo atteggiamento è il cosiddetto “voto con il portafoglio”, ovvero usare i propri soldi come un capitale da investire in maniera etica, in modo da sostenere le aziende che rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori. C’è un’enorme differenza a livello ambientale tra acquistare un prodotto locale e uno che ha dovuto percorrere migliaia di chilometri in tutto il mondo per essere quotidianamente pronto sugli scaffali del supermercato sotto casa. Nonostante il green washing di molte aziende, dalla casa all’auto, dagli elettrodomestici ai servizi di cui usufruiamo, la storia recente ci insegna che scegliere prodotti e intermediari che siano sostenibili e che abbiano un basso impatto ambientale è più importante che mai. L’esempio più lampante riguarda l’alimentazione: si stima infatti che l’inquinamento prodotto dall’industria alimentare sia causato per il 32% dal consumo di carne e che, in generale, una dieta non-vegetariana produca il 59% di emissioni in più rispetto a una vegetariana. Anche scelte apparentemente secondarie, come un diverso utilizzo degli strumenti digitali, possono fare la differenza: non cancellare file inutili come mail o vecchie foto, conservare app inutilizzate, avere più backup su diversi cloud, sono tutte “non-scelte” che impattano gratuitamente sull’ambiente, come ben racconta il libro Ecologia digitale, che raccoglie i saggi di docenti universitari, studiosi, attivisti, esperti di tecnologia, imprenditori green e giornalisti.
Ma l’impatto delle scelte individuali sull’ambiente non si ferma alla dimensione economica. Tocca anche direttamente la politica, almeno in tre modi. In primo luogo, influenza i governi: soltanto cambiando le nostre abitudini individuali ed esprimendo la nostra opinione possiamo fare pressioni sui governanti e sui partiti politici affinché adottino misure più coraggiose. Se la società civile non reagisce alla mancanza di politiche coraggiose sul clima, allora anche la sfera pubblica – dove le classi dirigenti raccolgono le idee e le proposte da attuare nell’azione di governo – rimarrà silente e nulla cambierà. In secondo luogo: scelte forti in tema di risparmio energetico o di adozione di uno stile di vita sostenibile sono una testimonianza che influenza chi ci sta accanto, che agisce da effetto moltiplicatore e crea circoli virtuosi di collettività attente all’ambiente, come i gruppi di autoconsumo e le comunità energetiche.
Infine, la singola decisione individuale può contribuire direttamente a fare politica, nel senso puro del termine. La scelta di Greta Thunberg di iniziare a protestare tutti i venerdì davanti al Parlamento svedese nel 2019 ha dato inizio a Fridays For Future, uno dei movimenti a difesa dell’ambiente più influenti degli ultimi decenni. Certo, non tutti faremo partire un cambiamento di questo tipo da soli. Ma votando un candidato invece che un altro, impegnandoci direttamente per la propria comunità, iscrivendoci ad associazioni, promuovendo iniziative di sensibilizzazione o cercando direttamente di correre per ricoprire incarichi di responsabilità istituzionali, si può fare la differenza. Bisogna allora superare la dicotomia per cui si sta o dalla parte di chi governa, o da quella di chi è governato. Il rapporto tra cittadini e politica è molto più complesso e sfaccettato. Ogni nostra scelta può avere un impatto sul mondo, piccolo o grande che sia: e questo è già politica. Aspettare che arrivi una rivoluzione dall’alto è semplicemente inutile, perché nulla accadrà se non siamo noi in primis a volerlo. Il segreto è diventare consapevoli del nostro potere, assumercene la responsabilità, e agire.
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