Smascherare il greenwashing è il primo passo verso la vera sostenibilità

Quella climatica è una delle emergenze più gravi della nostra epoca, e fronteggiarla dovrebbe essere una priorità di ogni governo del mondo e, nel suo piccolo, di ogni cittadino. Greenpeace l’ha detto molto chiaramente nel suo report Countdown to extinction: non prendere provvedimenti urgenti significa fronteggiare una imminente estinzione di massa delle specie animali e vegetali. Il rischio è molto alto anche per gli esseri umani, dato che entro la fine del secolo il 90% della popolazione mondiale – la maggior parte della quale vive nei Paesi più poveri – vedrà ridotta la propria capacità di produrre cibo. In uno scenario di questo tipo è fondamentale che ognuno sia consapevole della fase delicata che stiamo vivendo. Proprio per questo ha rappresentato un segnale importante la scelta dell’Oxford English Dictionary che per il 2019 ha indicato “climate emergency” come parola dell’anno. Una notizia simile è un buon esempio di come l’emergenza climatica stia diventando un problema centrale anche per l’opinione pubblica, uscendo dalla nicchia  di scienziati e associazioni ambientaliste. Tutto ciò influenza – o dovrebbe influenzare – gli stili di vita e i consumi di ognuno di noi. In questo senso, più del 60% degli italiani si dice intenzionato a ridurre l’uso della plastica e gli sprechi alimentari e a muoversi il più possibile a piedi.

Con un livello maggiore di attenzione da parte dei consumatori verso tutto ciò che è sostenibile, anche le aziende hanno capito di doversi adattare a questa diversa sensibilità, cambiando le proprie strategie verso un minor impatto ambientale. A volte, purtroppo, la svolta green delle aziende non corrisponde a un reale impegno, ma resta un’operazione di marketing, un tentativo di presentare – in maniera ingannevole – i propri prodotti e il proprio marchio come “eco-friendly”, per apparire virtuosi davanti a consumatori sempre più sensibili sul tema. In casi simili si parla di greenwashing. Smascherare questi comportamenti è quindi fondamentale per indirizzare lo sforzo collettivo verso pratiche davvero utili e positive per l’ambiente.

Un esempio lampante di greenwashing è quello di McDonald’s. Come dichiara con orgoglio sul proprio sito, il colosso del fast food si impegna a far sì che, entro il 2025, tutti i packaging dei suoi prodotti siano realizzati con materiali riciclati. Vista la mole di imballaggi di cui si parla, un traguardo del genere sarebbe sicuramente significativo, ma in realtà i primi tentativi sono stati un insuccesso. L’azienda ha cominciato a sostituire le cannucce di plastica con quelle in cartone in Gran Bretagna. I problemi sono arrivati quando la multinazionale si è resa conto che quelle cannucce non sarebbero state comunque riciclabili a causa delle loro dimensioni ridotte e della forma. Se un episodio del genere può essere etichettato come un incidente di percorso verso una conversione green dell’azienda, scavando più a fondo si capisce come un colosso come McDonald’s non possa assolutamente essere genuinamente interessato ad avere un minor impatto ambientale.

Le buone intenzioni dichiarate cozzano infatti con la natura stessa del suo brand. Nonostante i tentativi di mostrarsi attenta alle condizioni di benessere degli animali allevati, è evidente che per la mole del proprio commercio McDonald’s debba rivolgersi per forza agli allevamenti intensivi che, secondo uno studio dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, in Italia rappresentano la seconda causa di inquinamento da polveri sottili. Se già un dato simile fa capire come la politica aziendale della catena di fast food non sia conciliabile con un concreto impegno per l’ambiente, tutto ciò è ancora più palese dall’elenco dei suoi fornitori. Tra questi spicca il colosso alimentare statunitense Cargill, tra i principali fornitori di pollame da allevamento intensivo di McDonald’s.

In questo meccanismo si inserisce anche la produzione di soia. Utilizzata su larga scala per l’alimentazione degli animali negli allevamenti intensivi, è diventata la principale causa di deforestazione in Amazzonia. Cargill opera direttamente in questo settore, con le criticità ambientali immense che ne conseguono, concentrando i suoi investimenti nell’Amazzonia brasiliana, in quella boliviana, negli altipiani del Cerrado brasiliano e in diverse altre regioni del continente. Al di là di considerazioni etiche e per la salute tanto degli animali quanto dei suoi clienti, è evidente che il core principale dell’attività di McDonald’s, cioè la vendita di carne a basso costo e su larga scala, sia incompatibile con una preoccupazione sincera per le sorti dell’ambiente e che ogni tentativo di presentare certe politiche sotto una luce green sia solo un’operazione di marketing per non perdere la sua fascia di consumatori più sensibile in materia ambientale, in particolare i giovani.

Questioni simili riguardano anche la produzione di olio di palma. Anche se nel dibattito pubblico ci si concentra quasi esclusivamente sugli eventuali danni alla salute di questo prodotto, in realtà le sue controindicazioni sono prima di tutto di natura ambientale. Produrre olio di palma ha un impatto devastante, poiché per far spazio ai palmeti si portano avanti massicce operazioni di deforestazione, distruggendo interi ecosistemi. Tra il 1990 e il 2015, in Indonesia sono stati distrutti 24 milioni di ettari di foreste, dimezzando la popolazione autoctona di oranghi del Borneo. Era quindi sembrato un segnale positivo l’istituzione nel 2004 del Roundtable on Sustainable Palm Oil, che riunisce società e associazioni che operano su livelli diversi della filiera con l’obiettivo di stabilire e far rispettare determinati parametri per una produzione più pulita. In realtà l’Environmental Investigation Agency ha dimostrato in un report del 2019 come gli interventi del Rspo siano del tutto fallimentari, minati da conflitti d’interessi e dalla superficialità e sembrino poco più che un tentativo di presentare una facciata pulita di un’industria che continua ad avere un impatto disastroso sull’ambiente.

Le operazioni di greenwashing più pericolose sono però quelle a livello istituzionale. Mostrarsi vicini alle lotte ambientaliste permette ai governi di conquistarsi le simpatie di una parte dell’elettorato, soprattutto quello più giovane. Quando, però, a queste posizioni di facciata non corrisponde un reale impegno, le conseguenze sono ancora più gravi rispetto a quelle delle singole aziende. Nell’ultimo anno sia il governo italiano che l’Unione europea hanno affrontato il problema della conversione ecologica dell’economia. Conte, da parte sua, si è detto determinato a fare il possibile perché l’Italia raggiunga la carbon neutrality entro il 2050. In realtà, Greenpeace ha denunciato come il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima presentato a fine gennaio dal governo sia assolutamente insufficiente e resti ancora troppo vincolato all’utilizzo di energie fossili. La bocciatura della conversione green dell’Italia arriva anche dal Programma dell’Onu per l’ambiente (Unep), secondo il quale le norme in vigore nel nostro Paese sono inferiori anche alla media europea.

Proprio l’Unione europea, dopo aver accolto in Parlamento Greta Thunberg, ha raggiunto un accordo sulla tassonomia – cioè un sistema di gerarchie e classificazioni – delle attività economiche in base alla loro sostenibilità ambientale. Se un’iniziativa del genere appare in apparenza encomiabile nelle intenzioni (questo accordo, infatti, partiva anche dall’intento di contrastare proprio il greenwashing), non lo sono altrettanto le modalità con le quali è portata avanti. Per esempio, al momento non sono stati stabiliti riferimenti precisi e di contrasto all’energia nucleare, che riesce così a eludere i parametri usati per riconoscere l’energia non pulita, trascurando così il problema dello smaltimento delle scorie nucleari. Comportamenti simili, se vengono dalle istituzioni, sono ancora più pericolosi perché non mettono la società civile nelle condizioni adatte per una reale svolta ecologica in tutti i campi, soprattutto quello economico.

Il greenwashing è quindi una pratica pericolosa oltre che ingannevole, perché inganna i consumatori riparando sotto l’ombrello positivo della tutela dell’ambiente operazioni industriali che lo danneggiano ogni giorno. Questo succede se si considera l’attenzione all’ambiente non come una condizione necessaria del vivere comune, o un’urgenza della quale siamo tutti chiamati a farci carico, ma come un fattore di mercato da sfruttare a proprio vantaggio. È fondamentale che i singoli cittadini usino il loro potere come consumatori per smascherare atteggiamenti simili, dando il loro sostegno economico solo a chi si spende con l’obiettivo di raggiungere una vera sostenibilità. L’impegno per l’ambiente deve diventare un imperativo del nostro tempo portato avanti con attenzione e serietà, senza che il greenwashing di alcune aziende lo faccia diventare un altro strumento di marketing soggetto alle regole del mercato. Il guadagno come unico fine non è più sostenibile, non solo per l’ambiente, ma per ognuno di noi.

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