L’educazione ambientale è indispensabile per garantirci un futuro. Dobbiamo insegnarla nelle scuole. - THE VISION

I bambini e gli adolescenti sono le prime vittime della crisi climatica e proprio loro possono giocare un ruolo fondamentale per frenarla e facilitare il difficile adattamento e la risposta della nostra società alle condizioni ambientali che si stanno delineando sempre più chiaramente. Ma mentre complessivamente il tenore di vita, la salute e il livello d’istruzione dei bambini sono migliorati negli ultimi decenni, questi oggi nel corso della loro crescita si trovano ad affrontare i complessi ostacoli legati al degrado ambientale e climatico, che non stanno solo compromettendo il loro futuro, ma hanno anche il potenziale di indebolire i progressi compiuti. È un circolo vizioso: educazione e scolarizzazione insufficienti o inadeguate contribuiscono infatti a esporli agli effetti della crisi climatica, oltre che a far di loro adulti con più probabilità di contribuirvi, perché meno consapevoli. Ecco perché dobbiamo preoccuparci non solo di proteggere i più giovani, ma anche di garantire loro un’istruzione, in cui includere anche l’educazione ambientale.

La scuola stessa, in realtà, non è un diritto tutelato per tutti nel mondo, considerate le forti disparità – sociali, economiche e culturali – ancora esistenti per quanto riguarda l’accesso all’educazione e quindi anche nelle sue conseguenze, sia in termini di nozioni apprese che di opportunità fornite dal titolo di studio. La crisi climatica accentua ulteriormente questa spaccatura, colpendo in maggior misura chi appartiene agli strati più vulnerabili della popolazione, come chi vive sotto la soglia di povertà, chi appartiene a minoranze o gruppi migranti o, ancora, chi ha una qualche disabilità. La correlazione è evidente: disastri come inondazioni, incendi e tornado possono interrompere il percorso formativo di bambini e adolescenti, danneggiando o distruggendo le scuole e le infrastrutture che permettono di accedervi, come le strade; nelle aree più colpite gli edifici scolastici spesso chiudono e i materiali didattici possono andare persi o distrutti; nelle situazioni più drammatiche danni fisici (o addirittura la morte) che colpiscono famiglie e insegnanti causano assenze da scuola o l’impossibilità di svolgere le lezioni. Le conseguenze, anche a lungo termine, includono problemi di apprendimento e rischi per la salute, il benessere e la sicurezza di bambini e adolescenti da cui la scuola per molti è un riparo: si pensi alla malnutrizione o alla maggior esposizione a violenze e discriminazioni in caso di interruzione degli studi, che hanno effetti sulla sicurezza socio-economica dei piccoli e delle loro famiglie; fattori che possono compromettere anche il normale sviluppo fisiologico di età delicate come infanzia e adolescenza. Se poi, per esempio, per effetto di un’inondazione dei campi, vengono meno i mezzi di sussistenza delle famiglie, queste possono vedersi costrette a ritirare i figli da scuola perché non sono più in grado di far fronte alle spese scolastiche e magari a mandarli a lavorare per contribuire al reddito familiare. 

Tutto ciò vale soprattutto per i Paesi più poveri e in via di sviluppo, dove la popolazione meno abbiente è la più esposta alle conseguenze critiche della crisi climatica. Proprio in questi contesti l’istruzione sarebbe fondamentale, come riconoscono le Nazioni Unite che dedicano l’articolo 6 della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici a istruzione, formazione e sensibilizzazione della cittadinanza, mentre l’Accordo sul clima di Parigi nell’articolo 12 ribadisce l’importanza dell’istruzione nel potenziamento delle azioni per il clima. Invece, a oggi, quasi nessun Paese al mondo include le questioni educative tra le proprie priorità nelle strategie di mitigazione climatica e adattamento. 

Farlo, al contrario, sarebbe cruciale: uno studio, per esempio, evidenzia che le persone istruite hanno più facile accesso alle informazioni e ai sistemi di allerta precoce per fenomeni come tempeste o siccità, ma anche che l’istruzione migliora le capacità cognitive e determina la volontà di modificare i comportamenti a rischio e di prendersi cura della propria salute, cosa che tra l’altro comporta anche redditi più alti. Uno studio italo-austriaco, in particolare, evidenzia che in India, laddove si registrano monsoni più violenti della media, i bambini hanno il 20% di probabilità in più di soffrire di un ritardo della crescita, che provoca a sua volta un peggioramento del rendimento scolastico. Nelle regioni tropicali, inoltre, temperature eccessive e precipitazioni violente vissute nella prima infanzia sono associate a meno anni di scuola. Risultati analoghi sono stati riscontrati anche in Etiopia, Thailandia e Nepal, dove l’istruzione è di primaria importanza per la sopravvivenza delle famiglie e delle loro mandrie di bestiame. Questi fattori, infatti, hanno così tanta importanza da arrivare a pesare in certi contesti anche più della ricchezza effettiva delle famiglie, tanto che le madri con un livello di istruzione più alto hanno in media più nozioni in fatto di alimentazione, sono più scrupolose nell’igiene e più propense a rivolgersi ai medici in caso di bisogno, determinando così migliori tassi di sopravvivenza e salute dei bambini, anche se nati in una famiglia povera. 

Per tutti, poi, Paesi più industrializzati compresi, una seria educazione ambientale può davvero fare la differenza; deve essere, però, imparziale e fondata sulla scienza. Nozioni di base come la differenza tra clima e meteo, la definizione di biodiversità, le opportunità e i limiti della raccolta differenziata, ma anche dibattiti e riflessioni per aumentare la consapevolezza sui settori economici più impattanti e, ancora, sulle iniziative più efficaci per ridurre sprechi ed emissioni sono solo alcuni dei temi che si potrebbero affrontare in classe per dare agli studenti la capacità critica di orientarsi nel dibattito pubblico e capire, così, per fare un esempio, che dividere il vetro dalla carta è importante, ma una foglia di fico può coprire “peccati” ben peggiori. Impatti climatici, problemi ambientali, soluzioni individuali e collettive, locali e globali vanno integrati nei curricula scolastici, con gradi di complessità e approfondimento adeguati al livello di studio ed età; l’effetto sarebbe non solo una maggiore competenza diffusa, e quindi un maggiore impegno individuale, ma anche un senso civico e un pensiero critico più sviluppati, per formare cittadini in grado di usare gli strumenti a propria disposizione, dal voto alla protesta alle scelte d’acquisto, compiute in maniera efficace e consapevole. Secondo le ricerche, se il 16% degli studenti delle scuole superiori ricevesse una corretta educazione ambientale le emissioni carboniche potrebbero essere ridotte di circa 19 gigatonnellate entro il 2050, per effetto delle scelte dei cittadini. A questo, nei Paesi in via di sviluppo si aggiungerebbe il vantaggio di una maggior consapevolezza degli strascichi anche ambientali del colonialismo e più possibilità concrete per uscirne.

Purtroppo, però, oggi la percentuale di bambini di dieci anni incapaci di leggere un testo semplice nei Paesi a basso e medio reddito tocca il 70% – quasi dieci punti percentuali in più rispetto al pre-pandemia – e si stima che le opportunità educative limitate per le ragazze al completamento dei 12 anni di istruzione pesino tra i 15 trilioni e i 30 trilioni di dollari. Considerando la crescente frequenza con cui gli eventi meteorologici estremi si presentano, bisogna partire dalle basi, innanzitutto mettendo in sicurezza le scuole per assicurarne l’accesso anche in caso di alluvione, incendio, tifone o caldo estremo; e garantire anche i trasporti, le infrastrutture stradali e i servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Altrettanto tutelati devono essere gli insegnanti, dal momento che senza di loro non c’è scuola che tenga; e, soprattutto, loro per primi devono essere formati sulla crisi climatica, che è una materia a tutti gli effetti interdisciplinare.

Fortunatamente nel mondo qualcosa si muove: è dello scorso novembre la notizia per cui l’Università di Barcellona introdurrà un corso dedicato alla crisi climatica obbligatorio per tutti. Nel complesso, però, l’importanza dell’istruzione nell’affrontare l’argomento è drammaticamente sottovalutata e l’educazione ambientale nelle scuole è quasi del tutto assente. Ci sono iniziative sparse, come quelle promosse dal WWF, ma a livello ministeriale in Italia poco si muove, nonostante le prese di posizione dichiarate sul sito a proposito del ruolo essenziale della scuola, come luogo d’elezione per attivare progetti educativi su ambiente e sostenibilità. Vero è che, almeno sulla carta, nel nostro Paese l’insegnamento dell’educazione ambientale a partire dall’anno scolastico 2020-2021 è stato reso obbligatorio nelle scuole come parte del programma di educazione civica. Apparentemente, una decisione all’avanguardia: siamo stati infatti i primi al mondo a farlo. Ma sono passati anni e le cose non si sono concretizzate secondo i piani, a partire dal percorso di formazione per i docenti: la pandemia ha posto per la scuola problemi più urgenti, didattica a distanza in primis, e le risorse hanno continuato a essere scarse. Complici i cambi di governo, poi, l’educazione ambientale in classe è arrivata a diverse velocità (e con diversi gradi di qualità ed efficacia) tra un istituto e l’altro, tra una città e l’altra, come sempre accade in Italia. A oggi sono attivi diversi progetti all’avanguardia, come la scuola più sostenibile d’Europa – l’istituto Antonio Brancati di Pesaro – e iniziative efficaci e stimolanti, ma la situazione sul territorio nazionale è molto diseguale. Intanto, le diseguaglianze aggravano i problemi della società: la crisi climatica, però, è in cima alla lista, e non aspetta.


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