Nel libro Di chi sono le case vuote?, l’architetto e designer Ettore Sottsass, tra i più grandi del Novecento italiano, fa una riflessione profonda sull’abitare, l’architettura e il significato di “casa” nella società contemporanea. La domanda su cui si concentra l’intero testo, infatti, riguarda la possibilità non solo di possedere, ma soprattutto di sentire nostro lo spazio in cui viviamo, di legarci emotivamente a esso, percependolo come un luogo sicuro a cui in qualche modo apparteniamo. La risposta potrebbe sembrare scontata, per la maggior parte dei coetanei dei nostri genitori, che in linea di massima hanno potuto permettersi di comprare casa entro i trent’anni, limitando i traslochi e radicandosi fin da subito nel luogo che avevano scelto per costruire la loro vita adulta. Per la nostra generazione nomade, invece, il discorso è del tutto diverso, dato che il più delle volte non abbiamo il tempo necessario per affezionarci ai vari luoghi che abitiamo, perché ci troviamo a frequentarli per periodi troppo brevi, attraversando continui abbandoni di luoghi fisici che non diventano mai davvero casa, ma solo appoggi transitori. L’abbandono può dipendere da scelte di vita – legate a motivi di lavoro o studio –, ma anche a cause di forza maggiore – come gli affitti che aumentano a dismisura, i mutui inaccessibili, le bolle immobiliari ormai incontrollabili – e, secondo Sottsass, esso non può che lasciarci addosso una sensazione di vuoto e instabilità, che descrive bene il sentimento con cui molti di noi stanno vivendo l’aggravarsi della crisi abitativa verificatosi negli ultimi anni.
In questo contesto estremamente precario, quando penso alla fortuna che ho avuto nel poter decidere di lasciare casa dei miei genitori e trasferirmi altrove, mi chiedo spesso a chi appartengono, oggi, gli spazi che a un certo punto della mia vita ho abbandonato, lasciandoli vuoti. Chi ci sarà nella casa in cui sono stata piccola, dove sono ancora segnate sul muro le tacche della mia crescita in altezza, e che i miei hanno venduto dopo averci abitato per anni. Nella casa di Padova, dove forse qualcuno ha arredato con più cura l’enorme salotto spoglio, in cui io e le mie coinquiline, durante l’università, tenevamo soltanto un tavolo e tre poltrone. O nella casa dove per un periodo ho vissuto a Milano, a due passi dalla metro rossa, in una delle poche zone che ancora resistono alla gentrificazione. Proprio Milano, peraltro, è la città che è diventata simbolo della crisi abitativa in Italia – a partire dalle proteste degli studenti del Politecnico, avvenute l’ultima estate in cui ho vissuto lì –, oltre che di un altro fenomeno a cui Sottsass non ha potuto assistere, ma che ha cambiato profondamente il nostro concetto di abitare e di casa, intersecandolo con le più recenti innovazioni tecnologiche – e coinvolgendo ormai gran parte dei centri italiani ed europei.
Negli ultimi anni, infatti, la tecnologia ha operato una rivoluzione silenziosa, ma potente, che sta rendendo le nostre case, e in parte anche le nostre città, dei centri operativi completi, da cui ci sentiamo accolti perché risultano modellati sulle nostre esigenze – personali, pratiche, lavorative. Il proliferare di dispositivi intelligenti, connessioni veloci e app dedicate ha infatti permesso di trasformare qualsiasi stanza o spazio in un ambiente flessibile, in grado di adattarsi a chi lo abita. Quest’evoluzione tecnologica, però, ha reso ancora più evidente il divario tra la maggior parte delle persone, che è costretta a vivere tra un abbandono e l’altro, spostandosi in vari luoghi senza trovare mai la stabilità di una vera casa, e i pochi che possono godere di uno spazio che non funge soltanto da riparo, ma può addirittura soddisfare tutte le loro necessità e preferenze individuali. Allo stato attuale, infatti, dobbiamo renderci conto che non può esserci sviluppo dello smart living e quindi di smart city senza prima riconoscere che per troppe persone la casa non è ancora un diritto.
Secondo il Centro Ricerche Economiche Sociali di Nomisma, la crisi abitativa è alimentata principalmente da una forte disuguaglianza: quella tra l’immobilità del mercato e delle norme che dovrebbero regolarlo, e l’ipermobilità di chi cerca casa, alimentando il vortice di traslochi e successivi abbandoni degli immobili. Le persone che si spostano da una soluzione provvisoria all’altra, con la costante incertezza di dove andranno a finire il mese prossimo, sono infatti decine di migliaia. L’innovazione tecnologica e la transizione agli ambienti Smart, se ben implementate e regolamentate, potrebbero rappresentare un’occasione enorme in questa situazione, rendendo le nostre abitazioni degli spazi che sono in tutto e per tutto tarati sui nostri personali bisogni. Ma ciò non potrà verificarsi fino a quando l’idea di casa come diritto a un luogo dove stabilirsi e crescere non sia riportata al centro del dibattito sulla crisi abitativa. L’attuale atteggiamento nei confronti di questi temi, infatti, tende a ridurre alla commercializzazione il diritto abitativo, lasciando in sospeso il significato emotivo e sociale di avere uno spazio proprio e rendendo la casa qualcosa che diventa accessibile soltanto a chi può permettersi di pagare cifre sempre più alte. In pratica, se quella per la casa diventa una lotta, uno sforzo costante per mantenere un minimo di stabilità, investire in spazi Smart e tecnologici non può che diventare un ulteriore lusso per ricchi, e non uno strumento per garantire a tutti quello spazio di sicurezza e accoglienza che per molte persone, oggi, sta scomparendo.
Milano, come dicevamo, è un caso da manuale, ma è solo una delle tante città in cui il mercato immobiliare è sfuggito di mano. Anche a Roma, o in centri urbani più piccoli come Bologna, Firenze, Napoli gli affitti sono cresciuti in modo implacabile, con un incremento del 20% in cinque anni. Tra la gestione poco oculata degli affitti brevi, soprattutto nelle città d’arte e nei luoghi di interesse turistico; e l’ostinazione con cui il governo continua a ignorare l’opportunità offerta dagli immobili disabitati – che in Italia sono oltre 10 milioni, e non parliamo di ruderi fatiscenti, ma di case spesso perfettamente utilizzabili – le nostre città si stanno trasformando in cartoline di cemento, dove vivere, soprattutto per studenti e lavoratori fuori sede – ma spesso anche per i residenti, schiacciati dalle trasformazioni dei centri urbani legate al turismo – diventa quasi impossibile. Negli ultimi giorni, per esempio, ha fatto scalpore la notizia dei co-living milanesi – già famosi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna –, luoghi a metà tra il dormitorio di lusso e l’esperimento sociale su vasta scala, dove gruppi di venti o più coinquilini vivono condividendo Netflix, palestra e svariati comfort, dovendo però adattarsi magari ad avere soltanto due bagni, per la cifra mensile di circa 1400 euro al mese a testa. Una tendenza che restituisce alla perfezione come la casa sia diventata un’esperienza di consumo, un servizio da sottoscrivere, ignorando le esigenze basilari delle persone che ci vivono, per adattarsi soltanto a quelle di un mercato sempre più incontrollato.
D’altro canto, anche il recente decreto legge “salva casa” va in questa direzione, rimanendo un palliativo tutt’altro che efficace per arginare la crisi abitativa. L’introduzione di regole più permissive per la definizione di abitabilità e l’allargamento della forbice di ciò che si può considerare “casa”, infatti, ha elevato anche monolocali di 20 metri quadri, così come i sottotetti, ad abitazioni “ufficiali”, rendendole in qualche modo delle case di seconda categoria, prodotti meno costosi da vendere a chi non ha abbastanza soldi per potersi permettere un immobile “a prezzo pieno”. Un provvedimento che non ha quindi contribuito a rendere la casa una prerogativa di tutti, ma ha soltanto esteso la speculazione finanziaria, mettendo sul mercato ambienti ancora più angusti, invivibili e dai prezzi ingiustificabili.
Per questo motivo il discorso sull’implementazione dello smart living non può prescindere da una riflessione sul diritto alla casa. Le potenzialità tecnologiche degli ambienti smart e le loro funzionalità altamente personalizzate ci ricordano infatti che gli spazi in cui ci muoviamo non dovrebbero essere qualcosa da conquistare con fatica, ma dovrebbero invece assecondare gli scopi e le esigenze delle persone, costruendo un’esperienza il più possibile inclusiva, aumentando il benessere individuale e promuovendo equità e giustizia sociale – come dimostrano già molti esempi virtuosi in giro per il mondo. Non a caso, la stessa opportunità della transizione smart si fonda, nella teoria, sul desiderio di aumentare la qualità della vita di chi vi abita, costruendo case e città che si adattino a bisogni diversi, per dare a tutti uguali possibilità. Va da sé che per pensare di avanzare in un progetto di evoluzione sociale del genere, il primo diritto da garantire alle persone è quello alla disponibilità di uno spazio adeguato in cui vivere.
Recuperare il concetto di diritto alla casa, in un momento in cui l’innovazione tecnologica può aiutarci a farlo rispettare, significa infatti accogliere i miglioramenti che le nuove tecnologie possono introdurre, riportando l’attenzione sulle esigenze delle persone. Al contempo, servono provvedimenti dall’alto che valorizzino il diritto all’abitare: a partire da un tetto massimo sui canoni d’affitto, o dalle agevolazioni sull’acquisto di immobili per i giovani o le frange sociali più fragili; per arrivare a una regolamentazione precisa ed efficace della transizione Smart – sia per quanto riguarda le case private, ma soprattutto per le città – in modo che l’idea di garantire a tutti l’accesso a una qualità della vita soddisfacente non rimanga soltanto un desiderio inespresso. Solo così si può pensare di iniziare ad appianare le disuguaglianze alla base della crisi abitativa, ricostruendo con azioni concrete il significato più pieno del concetto di casa: non solo un appoggio momentaneo o un rifugio di fortuna, ma un luogo in cui stabilirsi, riconoscersi e a cui potersi legare senza il timore di doverlo abbandonare di lì a poco.
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