Siamo bombardati da app ma ne usiamo meno di quelle che scarichiamo. Vanno scelte in modo critico. - THE VISION

Nel 1983, lo storico e fisico statunitense Arnold Pacey pubblicò un libro intitolato The Culture of Technology. Il suo obiettivo era di criticare la visione che vede la tecnologia come un ambito indipendente da qualsiasi orientamento valoriale, dimostrando al contrario come lo sviluppo tecnologico sia condizionato da molti fattori, sia politici e culturali che economici e scientifici. Secondo Pacey, questa apparente “neutralità” della tecnica l’ha portata a diventare la soluzione più ovvia per qualsiasi problema, perché più accessibile e meno contestabile. Non a caso, nel suo libro parla di “technical fix” ovvero la presunzione che ogni questione possa essere semplicemente risolta attraverso l’adozione di uno strumento tecnologico, trascurando invece le alternative di natura personale, politica o sociale. Se nella vita quotidiana degli anni Ottanta, i technical fix potevano essere gli acquisti di nuovi elettrodomestici, nella frenetica società degli anni Venti del Ventunesimo secolo questi hanno preso la forma delle app.

Sembra infatti che per ogni bisogno esista un’app. Trucchi per non perdere la concentrazione durante lo studio, sistemi di auto-sorveglianza per tenere monitorata la propria attività fisica, il ciclo mestruale, i parametri vitali, la propria attività intestinale, per non parlare delle decine di sistemi diversi e spesso non comunicanti tra loro per muoversi in città. A volte però, al pari di qualsiasi altro bene di consumo, le app invece che aiutarci e servirci ci fanno sorgere dei bisogni indotti. Se un tempo questo avveniva in maniera top-down con la televisione e le pubblicità, oggi la spinta a consumare di più e dotarsi di sempre nuovi prodotti assume forme un po’ più sottili. Per esempio, il semplice fatto che esista un’applicazione con una funzione particolare può stimolare nel soggetto l’idea che quella funzione gli sia necessaria e che corrisponda a un suo reale bisogno, incentivandone l’utilizzo.

Tutto ciò si traduce nella proliferazione senza precedenti di app, che in base ad alcune recenti stime al momento sarebbero ben 8,9 milioni. Ma più che il numero assoluto in sé, è l’utilizzo che ne facciamo a indicare un problema di fondo. Secondo Statista, solo nel 2020 sono state scaricate 218 miliardi di app. In base a una ricerca condotta da SimForm, in media, una persona conta ben 40 app installate sul proprio telefono, anche se l’89% del suo tempo viene speso su meno della metà di queste, 18. Il numero di app installate aumenta ulteriormente per i più giovani, con millennial e gen Z che contano in media più di 67 app installate sul proprio dispositivo. Avere installate sul proprio smartphone molte più applicazioni di quante se ne usano sembra una questione all’apparenza banale, ma se analizzata da una particolare prospettiva appare come qualcosa da non sottovalutare. 

Il primo e più evidente punto critico riguarda la memoria e la batteria del dispositivo. Un elevato numero di app comporta un minor spazio disponibile per altri contenuti personali, come foto e documenti. Certo, vi è sempre la possibilità di spostarle nel cloud, ma non si tratta di una scelta priva di conseguenze. Come sottolinea l’autrice americana Kate Crawford nel suo Atlas of AI, siamo abituati a immaginarci il mondo digitale come qualcosa di etereo e immateriale, ma la tecnologia è fatta di materie prime. Più dati immagazzinati comportano un maggior consumo di energia e quindi più inquinamento. Secondo Climate Impact Partners, per esempio, i servizi di cloud sono già responsabili del 3,5% delle emissioni globali. Lo stesso problema vale per le batterie. Tra l’altro, bisogna tenere a mente che molte app funzionano in maniera “passiva”, anche senza venire aperte (come per esempio le app di streaming musicale), contribuendo così a un maggior dispendio di energia e a problemi concreti e quotidiani, come la necessità di dover ricaricare molto spesso il proprio dispositivo.

In secondo luogo, l’elevato numero di app porta a un’esternalizzazione delle responsabilità personali. Il fatto che il nostro smartphone – ormai vera e propria estensione della nostra coscienza e del nostro corpo – gestisca una parte crescente della nostra vita ci rende per certi aspetti più vulnerabili diventando meno autonomi e meno capaci di gestire indipendentemente da esso la nostra esistenza. Se, per esempio, sento di avere la necessità di avere un’applicazione che mi ricordi di bere acqua e di farlo abbastanza, ciò significa che la mia percezione del corpo si lega a doppio filo all’utilizzo di quello strumento digitale, limitandomi nell’ascolto e comprensione dei miei bisogni. 

Se a volte l’utilità di un’applicazione è indubbia (come può essere nel caso di una sveglia), dall’altra parte in molti casi le app ci forniscono soluzioni apparenti, ma che a ben vedere possono finire per aggravare i problemi che dovrebbero aiutarci a risolvere. Un gran numero di applicazioni, ad esempio, genera problemi legati al tempo, una risorsa sempre più scarsa, anche a causa delle troppe scelte che ci troviamo a dover compiere. Si tratta di un elemento che, apparentemente, dovrebbe renderci più liberi, ma che in realtà genera ansie e preoccupazioni che sarebbero facilmente evitabili. Per esempio, se ho la necessità di aprire diverse app concorrenti tra loro per decidere se muovermi in bici, monopattino, car sharing, metro o autobus, non solo perdo tempo, ma ne può derivare anche una sensazione di frustrazione dovuta all’incapacità di scegliere tra così tante alternative.

Terzo, l’utilizzo di troppe app comporta una maggior difficoltà a controllare i propri dati. La maggior parte delle applicazioni, infatti, guadagna soldi attraverso l’estrazione di dati dalle attività dell’utente e dalla profilazione di quest’ultimo. I vari profili – o “prodotti predittivi”, in quanto finalizzati a predire le nostre azioni di consumo – vengono a loro volta venduti ad enti terzi (come le aziende), interessati alle informazioni per targettizzare la pubblicità di prodotti o servizi, spesso senza che siamo davvero a conoscenza di chi controlla questi flussi e di quali informazioni vengano condivise. Si tratta di quel meccanismo che l’accademica statunitense Shoshana Zuboff ha chiamato “capitalismo della sorveglianza”. 

Certo, non è una novità affermare che la profilazione algoritmica sia il principale strumento di rendita delle app. Basti pensare che il 98% dell’introito totale di tutte le app proviene da applicazioni gratuite, mentre solo il 2% è relativo ad app a pagamento. Nel 2020, il 70% degli introiti di Google veniva dalla pubblicità, una percentuale che arrivava fino al 98,5% nel caso di Facebook. L’avere tante app installate rende più difficile avere un controllo capillare sui propri dati. Diventa infatti più facile perdersi tra le varie autorizzazioni e cookies, lasciando così che app apparentemente innocue possano avere accesso a dati sensibili come i nostri messaggi, le nostre immagini e i nostri contatti. Il punto non è demonizzare in toto il mondo delle app, ma imparare a scegliere e favorire quelle soluzioni che possono ovviare ad alcuni dei problemi presentati sopra, soprattutto in termini di privacy e di sostenibilità ambientale. Per esempio, una buona strategia sarebbe scaricare quelle app che cercano di tenere insieme più funzionalità. Questo è utile sia per ottimizzare memoria e consumo del proprio dispositivo, sia per tutelare i propri dati, diminuendo il rischio di una condivisione con terze parti di cui non si sa nulla.

Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda il settore della mobilità. Spesso ci sembra necessario scaricare app per ogni micro-servizio, dai biglietti del tram all’abbonamento della metro, dal car sharing alla mappa della città, con servizi che producono una grande mole di dati e consumano molta energia, quando si potrebbe avere tutto in un’unica applicazione. È in questa direzione che stanno andando alcune realtà in tutto il mondo. A Helsinki, trasporto pubblico e privato sono disponibili in un’unica applicazione per smartphone che le persone possono utilizzare per calcolare il modo migliore per arrivare a destinazione. L’obiettivo è quello di incoraggiare i cittadini a non prendere la propria auto se è già disponibile un’ampia gamma di modalità di trasporto alternative, tra cui taxi, trasporti pubblici, scooter e car sharing, noleggio auto e biciclette, permettendo così anche di favorire la sostenibilità ambientale. In Italia, invece, Telepass ha rilasciato un app per agevolare gli spostamenti in città e le modalità di viaggio, consentendo la scelta di più servizi utili per la mobilità urbana ed extra urbana, pubblica e privata, come le strisce blu, il carburante o la ricarica dell’auto elettrica, l’uso di monopattini, bici e scooter in sharing, l’acquisto di biglietti per treni e pullman, il noleggio di auto, il pagamento del bollo o a favore della Pubblica Amministrazione. Si tratta di realtà che, seppur ancora limitate a livello numerico e di conoscenza del grande pubblico, sono fondamentali per favorire un utilizzo più razionale delle app, ponendo al centro l’ambiente, l’utente e i suoi diritti. È in questa direzione che bisogna andare se vogliamo vivere con spirito critico ed etico il rapporto con la tecnologia.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con Telepass, tech company all’avanguardia nella rivoluzione della mobilità in ambito urbano ed extraurbano. Grazie a uno sguardo sempre più innovativo, Telepass dà alle persone la possibilità di muoversi liberamente in maniera più inclusiva, sostenibile e smart, per trasformare ogni spostamento in un’esperienza senza confini.

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