Era il 1998 quando a Brema, in Germania, al termine di una conferenza dell’Associazione per lo studio scientifico della coscienza, il neuroscienziato Christof Koch scommetteva con il filosofo David Chalmers che entro venticinque anni a partire da quel momento si sarebbero finalmente scoperti i meccanismi e i neuroni specifici con cui il cervello produce lo stato di coscienza, grazie al quale ciascuno di noi è in grado di avvertire e comprendere le esperienze che vive. In palio pare ci fosse una cassa di vino, oltre alla soddisfazione di essere riusciti ad arrivare in fondo a uno dei più grandi quesiti scientifici senza risposta, ovviamente, ovvero quello che riguarda la cosiddetta “esperienza soggettiva della mente”, scoprendo cosa conferisce quel carattere di unicità che qualifica il nostro contatto con il mondo. Proprio da esso, infatti, dipende il modo in cui interpretiamo quello che ci accade: come procediamo nei ragionamenti, come ci immaginiamo nelle nostre fantasie, quali ricordi rimangono impressi nella nostra mente e quali no, ma anche tutto ciò che viviamo a livello inconscio, quando la nostra esperienza appare frammentata nella forma del sogno. Lo scorso anno, allo scadere del tempo ipotizzato da Koch, nonostante i metodi di ricerca e le teorie sulle basi neurali della coscienza si siano moltiplicate, un articolo comparso su Nature ha decretato la vittoria di Chalmers, affermando che a oggi non si può ancora dire di aver individuato le precise dinamiche con cui i neuroni producono la coscienza, dunque ciò che ci definisce più di ogni altra cosa, rendendoci – potremmo dire – chi siamo.
La nostra mente – ovvero l’insieme dei processi neurali che si attivano nel nostro cervello – rappresenta un oggetto che ci è ancora in gran parte sconosciuto, nonostante sia tanto integrato nel nostro senso d’identità. D’altronde, anche se spesso tendiamo ad allontanare questo pensiero – accontentandoci della convinzione per cui da qualche parte debba esistere un nucleo che custodisce tutto ciò che ci rende noi stessi, che per alcuni potrebbe essere un organo e per altri un concetto evanescente come l’anima – non possiamo aggirare una realtà che non può che disturbarci, dato che ci troviamo costretti ad affidare proprio ciò che sembra definirci maggiormente a un custode misterioso, a tratti oscuro, che non sappiamo decifrare del tutto nel suo funzionamento. Forse proprio dall’incapacità di rassegnarci a quanto poco sappiamo di questa parte di noi è nato il desiderio di rappresentare i movimenti della nostra coscienza con mezzi diversi da quelli scientifici, nella speranza di catturare quel qualcosa che ancora sembra sfuggire all’oggettività dei dati. Se penso al cinema – tra i luoghi privilegiati di questo esperimento extra-scientifico, paragonato fin dalla sua preistoria a una simulazione dei nostri processi mentali, come se tra le due esperienze esistesse una sorta di affinità elettiva – il tentativo che personalmente mi è rimasto più impresso, forse proprio per la sua capacità di sfuggire al mio desiderio di risposte, mantenendo la porzione d’ignoto che circonda il discorso sulla mente umana è Inland Empire, capolavoro del 2006 diretto da David Lynch e disponibile su MUBI, anche nella rassegna “Credi ai fantasmi? Spettri nel cinema”.
Pur avendo visto Inland Empire ormai diverse volte, la sensazione che mi rimane addosso dopo ogni nuova visione è quella di venire gettata in un enorme e labirintico palazzo mentale, come quelli pieni di stanze attraverso cui cerchiamo di catalogare le nostre memorie, ma che muta nella sua architettura prima di poterne costruire una mappa, e dove la luce penetra appena. I percorsi che si aprono tra le immagini ricorrenti di corridoi e porte, che il regista utilizza per passare da un piano all’altro della narrazione – rinunciando alla linearità dell’intreccio entro la prima mezz’ora –, servono infatti a rafforzare l’impressione che il film rappresenti un calco di ciò che Lynch si immagina possa accadere nella nostra mente, il cui spettro viene esplorato dalla razionalità al delirio, rendendo quest’opera un’esperienza quasi fisica, che sembra non coinvolgere soltanto lo sguardo ma l’intero corpo dello spettatore, per quanto se ne esce confusi, attoniti, per certi versi affaticati.
La fluttuazione tra linee narrative rende indistinguibili quasi da subito verità e finzione, cinema ed esistenza, sogno e veglia, conscio e inconscio, fatti realmente accaduti o soltanto immaginati, che vengono presentati in sequenza sullo schermo senza alcuna apparente pretesa di coerenza. A partire dalla scena in cui alla protagonista, Nikki – un’attrice all’apice della carriera interpretata da una strepitosa Laura Dern –, viene assegnato il ruolo principale nel remake di un film polacco mai compiuto intitolato 47, diverse vicende si sovrappongono l’una all’altra andando a intrecciarsi con la sua, e generando così una confusione assoluta dei piani di realtà. Ci sono le apparizioni di una prostituta in lacrime – che nei credits viene chiamata soltanto “Lost girl”, ed è interpretata dall’attrice polacca Karolina Gruszka; quelle di tre inquietanti personaggi umanoidi con la testa di coniglio; e ci sono le riprese del film, che sembrano inghiottire la vita di Nikki, facendole perdere non solo il rapporto con il marito – che tradisce con un collega attore, interpretato da Justin Theroux –, ma anche il senso di sé che dovrebbe permetterle di tracciare una linea netta tra vita vera, messa in scena e immaginazione. Ed è proprio questo ritmo sconnesso e indecifrabile a inibire anche nello spettatore il desiderio di ricomporre i pezzi del puzzle, sconvolgendo le regole della narrazione e spogliandoci da ogni aspettativa su ciò che verrà dopo.
L’itinerario proposto da Lynch rappresenta una ricostruzione di ciò che accade quando sprofondiamo nel vortice dei pensieri, nel momento in cui ancora sono qualcosa di soltanto nostro, un processo che – come ha affermato il suo direttore della fotografia Freddie Francis – apre “un vasto intreccio, un oceano di possibilità”. Scena dopo scena si assiste infatti a una moltiplicazione delle vite possibili attraverso cui la protagonista transita insieme agli altri personaggi, dando a chi guarda la possibilità di smarrirsi, ma anche liberarsi. Certo, ci vuole un po’ di esercizio: come quando al primo ascolto di un pezzo jazz, per chi come me non è abbastanza educato a questo genere di musica, quando dopo dieci minuti di variazioni parte quello che sembra uno swing del tutto fuori luogo, si pensa che l’autore abbia perso il controllo. Al contrario, come si capisce a forza di riascoltare, può occorrere una vita di ricerca per trovare il controllo su una forma nuova, e Lynch ci arriva molto vicino in Inland Empire, creando quello che è un momento riflessivo – meditativo – più che narrativo. La liberazione a cui il regista punta non è infatti legata alla comprensione di un qualche segreto inizialmente nascosto tra gli eventi della trama, ma a una rinuncia alla compiutezza, alla conclusione che tendiamo ad aspettarci da un racconto. Per chi è disposto ad accettare che si possa sfuggire dalla tirannia del senso, inteso come risoluzione finale o significato univocamente leggibile, il film diventa infatti un forte percorso emotivo, che permette di guardare da fuori il nostro disordine interiore, restituito in scena attraverso frammenti di storie che si richiamano, comparse sfuggenti di personaggi identici che compiono azioni diverse, o combinazioni alternative di eventi in vari mondi possibili, frasi e singole parole che si ripetono in contesti differenti come significanti staccati dal referente, seguendo una logica che non si svela una volta arrivati in fondo, ma emerge a intermittenza.
Chi siamo dunque nel sogno? Nelle fantasie? Nei desideri che immaginiamo di realizzare senza confidarli a nessuno? E sono davvero libere queste versioni incorporee di noi stessi? Lynch sembra chiederci di pensare a quanti nostri possibili avatar si contendono la conquista dell’impero della mente, come se ogni individuo fosse l’incarnazione di un groviglio di vite alternative, che nel tempo della nostra esistenza non possiamo vedere nella loro totalità, trovandoci a viverne soltanto una alla volta. Non a caso, proprio Inland Empire viene considerato la summa delle riflessioni di Lynch sulla filosofia orientale e i suoi metodi, in particolare per quanto riguarda il suo interesse per le dottrine indiane – tanto che pare che abbia aperto le prime proiezioni del film citando l’Aitareya Upanishad, uno dei tanti elementi che vanno a comporre il corpus di testi sacri fondamentali dell’India antica, dedicato proprio al rapporto tra essere umano e mondo, e alla coscienza che il primo ha del secondo.
Da questo punto di vista, Inland Empire porta all’estremo dei concetti già trattati in Mulholland Drive, diretto da Lynch qualche anno prima, nel 2001. Forse tutto quello che vediamo – i conigli, le presenze simili a fantasmi provenienti da chissà quale passato, la produzione del film, lo sdoppiamento della vita di Nikki –, altro non è che la trasfigurazione cifrata di un trauma rimosso che la protagonista mette in atto attraverso il suo alter-ego, proiettandolo nel “mondo perfetto” di Hollywood, in un lento e doloroso processo di fuga e ritorno alla realtà – che per Rita in Mulholland Drive si innescava dopo un incidente d’auto. Dove le passioni, il tradimento, la gelosia, l’angoscia legata al pensiero della morte, e più in generale la nostra parte emotiva irrazionale e incontrollabile diventa impossibile da governare, Lynch suggerisce ai suoi personaggi di elaborare la vita vera attraverso il filtro del sogno, della fantasia, o addirittura – e in Inland Empire accade in modo esplicito – della finzione cinematografica. A sottolineare l’apertura di questa dimensione Altra – che corrisponde allo strato più sotterraneo e inesplorato della nostra mente – contribuisce anche l’utilizzo del digitale, sperimentato per la prima volta dal regista, che procede nella scoperta di questo nuovo strumento cercando la stonatura, lo sgranato, lo sporco, sfocando e deformando l’immagine in modo da raccogliere tutte le sue irregolarità – soprattutto negli ossessivi primi piani che riempiono l’intero film – per dare consistenza all’esperienza intima che ognuno di noi fa quando ha il coraggio di staccarsi dal sé razionale, per vedere cos’altro siamo.
Probabilmente aveva ragione David Foster Wallace quando nel descrivere il motivo per cui i film di Lynch sono così intensi, inquietanti, sconvolgenti ha citato la molteplicità interna dei suoi personaggi, che presentandosi in mille versioni di se stessi ci costringono a mettere in dubbio l’integrità della nostra coscienza a cui siamo tanto affezionati. Inland Empire, più di ogni altra opera del regista, calca la mano su questo aspetto, raffigurando l’impero della mente in tutte le sue sfaccettature, dalla narrazione coerente e razionale che facciamo del nostro io, e con cui tendiamo a identificarci per mantenere un’illusione di controllo su tutti i nostri impulsi e moti interiori; alle forme irregolari e imprevedibili che questo luogo intimo assume al di là delle nostre decisioni coscienti, quando proviamo o viviamo qualcosa che non possiamo governare.
Dopo essersi osservata a rovescio, guardandosi letteralmente dentro, nel finale Nikki compare infatti seduta su un divano, immobile e calma. Ma sono soltanto pochi secondi. La scena dei titoli di coda, accompagnati dalla musica di “Sinnerman” di Nina Simone, interrompe la sua momentanea pacificazione mostrando un gruppo di ragazze che balla insieme a diversi personaggi, rimandi ad altre storie accennate, ma non narrate, in Inland Empire, e altri ancora che richiamano i precedenti film di Lynch – tra cui Camilla di Mulholland Drive e un boscaiolo, reminiscenza di Velluto blu e Twin Peaks. Come a suggerirci che una volta scoperta la nostra insopprimibile molteplicità, il nostro essere aperti a diverse possibilità alternative e animati da numerose istanze, possiamo accettare di esistere soltanto nella trasformazione, nel continuo divenire, impossibile da racchiudere tra i confini di un Io. E per quanto faccia paura non avere più un posto conosciuto in cui rifugiarsi – tanto che durante la danza uno dei personaggi chiede allo spettatore “dove scapperai?” – possiamo accogliere l’idea di esplorarne di diversi, ignoti, nei nostri sogni, desideri, o nelle fantasie della finzione.
“Inland Empire” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
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