La guerra non colpisce equamente donne e uomini. Certo, i combattenti impegnati personalmente nelle operazioni militari e quindi esposti a un rischio diretto di morte sono prevalentemente uomini. Ma si stima che una schiacciante maggioranza delle vittime dei conflitti contemporanee siano civili – principalmente donne e bambini, che rappresentano anche l’80% dei rifugiati e gli sfollati a livello globale.
Durante un conflitto, donne e ragazze che sono già tendenzialmente in possesso di minori risorse economiche, si trovano non solo a dover assumere il ruolo di unico genitore, custode di parenti anziani e sola persona a poter provvedere della famiglia, ma anche a badare ai combattenti feriti. Sono poi direttamente minacciate dalla violenza sessuale usata come tattica di guerra e bersaglio privilegiato di rapimenti e traffico di esseri umani. Secondo le Nazioni Unite, almeno una rifugiata su cinque ha subìto violenza sessuale. Un’esperienza che porta con sé traumi, stigmatizzazione e povertà, gravidanze indesiderate e deterioramento della salute, in situazioni in cui l’accesso a cure sanitarie è già estremamente ridotto. Talvolta si ritrovano a sostenere gruppi ribelli armati che offrono soluzioni apparenti ai loro problemi nel quadro di Stati falliti. È il caso delle donne somale affiliate ad Al-Shabaab, che prometteva loro di proteggere le loro famiglie dalla violenza settaria sul territorio.
Le ragazze che vivono in Paesi in situazione di conflitto hanno più del doppio delle probabilità di abbandonare il percorso scolastico rispetto ai ragazzi, e ciò non ha conseguenze soltanto sulla loro istruzione, autodeterminazione e realizzazione personale, ma anche sullo sviluppo dei Paesi in cui vivono. La Banca mondiale spiega che l’istruzione è il fattore che contribuisce in assoluto di più alla crescita economica nazionale e alla lotta alla mortalità infantile.
Eppure le donne continuano a essere escluse sistematicamente dai negoziati di pace. Secondo un calcolo del Council of Foreign Relations, tra il 1992 e il 2018 costituivano infatti solo il 13% dei negoziatori, il 3% dei mediatori e il 4% dei firmatari dei principali trattati di pace. I dati, però, indicano che la partecipazione femminile nei processi di pace abbia risultati tangibili: i trattati alla cui stesura hanno preso parte delle donne hanno infatti il 35% in più di probabilità di essere rispettati per oltre 15 anni.
È a queste esperienze e a questi numeri che guardano i governi che da qualche anno a questa parte incoraggiano lo sviluppo di una politica estera femminista. Una critica femminista alle relazioni internazionali esisteva nel mondo accademico dal secolo scorso e si inseriva, insieme al costruttivismo, al post-strutturalismo e al post-colonialismo, in un più ampio campo d’analisi che risponde al nome di riflettivismo – opposto ad approcci classici e razionalisti, basati sulle premesse della teoria della scelta razionale e del positivismo. Il Centre for Feminist Foreign Policy, un think tank aperto nel 2018 con sede a Berlino, individua il problema in uno status quo “fondato su valori patriarcali, che perpetua una violenza sistemica attraverso capitalismo, imperialismo e colonialismo”. Questo sistema, scrivono, “ha un impatto negativo sulle comunità, che varia in base al genere, alla razza, all’etnia, alla classe sociale, allo status socioeconomico e all’orientamento sessuale”. La soluzione individuata è quella di ripensare lo sbilanciamento di potere che perpetua l’oppressione includendo nel processo decisionale le comunità marginalizzate e, in generale, le persone sulla cui pelle vengono vissute le scelte di politica estera dei Paesi.
Il primo Paese al mondo a istituire una politica estera femminista è stato la Svezia, nel 2014, grazie alla ministra socialdemocratica Margot Wallström, ex commissaria europea all’Ambiente e vicepresidente della Commissione europea. Tacciata di voler portare avanti una politica “anti-uomini” e “ideologica” – in linea con la convinzione che una politica che finisce per escludere sistematicamente le donne dal processo decisionale sarebbe invece neutrale – Wallström aveva risposto che “se dà così fastidio parlare di femminismo allora parliamo di parità di genere. Un grande numero di studi e analisi chiarisce che quando c’è parità c’è anche sicurezza”. “La parità di genere non è solo un obiettivo in sé,” aveva spiegato, “ma anche una precondizione per raggiungere altri obiettivi di sicurezza e sviluppo quali l’eradicazione del terrorismo, la crescita economica e il miglioramento della salute globale”.
Una considerazione che sembra riflettersi nei migliori risultati raggiunti dai Paesi a leadership femminile di fronte all’epidemia di COVID-19. La premier neozelandese Jacinda Ardern, per fare un esempio, è riuscita a debellare il virus nel suo Stato con una certa velocità, basandosi su tre valori principali: onestà, autorità ed empatia. E mentre qualcuno faceva notare che anche altri Paesi, quali l’Islanda, la Finlandia e la Germania – tutti guidati da donne – sono riusciti a gestire la crisi con grande successo, altri sottolineavano piuttosto come i cosiddetti “uomini forti” della politica mondiale, da Trump a Bolsonaro, non si fossero mostrati lontanamente all’altezza della aspettative. “Una diversificazione delle fonti di informazione e leader con l’umiltà di ascoltare voci provenienti dall’esterno delle istituzioni sono cruciali per una risposta positiva alla pandemia”, ha scritto Devi Sridhar, professoressa di Global Health presso il Dipartimento di Medicina dell’Università di Edimburgo. “L’unico modo per evitare il ‘pensiero di gruppo’ e i punti deboli è assicurare la presenza di persone che hanno diverse formazioni e competenze al tavolo decisionale”.
Partendo da presupposti simili, la Feminist Foreign Policy sottolinea l’importanza di dare maggiore rilevanza a una governance più inclusiva ed equa, che tenda un orecchio alle comunità emarginate e si allontani dall’attuale processo elitista e chiuso alla società civile. Un altro tratto da valorizzare sarebbe la trasparenza e la capacità di ammettere i propri sbagli sul piano internazionale, da contrapporsi all’attuale tendenza a non mostrare mai un fianco scoperto al nemico. In generale, l’obiettivo finale di questa politica è quello di sostituire l’attuale sistema di sicurezza globale a somma zero, basato sulla sopravvivenza del più forte, con una visione alternativa centrata sulla cooperazione e la coordinazione internazionale. Un obiettivo informato, tra le altre cose, da uno studio recente secondo il quale “il fattore che meglio predice il livello di aggressività di un Paese non è la ricchezza, la democrazia o l’identità etno-religiosa. È il trattamento riservato alle sue donne”.
“Guardiamo alla politica internazionale in un’ottica diversa da quella classica, che si concentra su forza militare, violenza e dominio. Offriamo un’alternativa intersezionale che ripensi alla sicurezza nell’interesse dei più vulnerabili”, scrive il Center for Feminist Policy. “Riteniamo che un approccio femminista alla politica estera fornisca una potente lente attraverso cui è possibile interrogare i violenti sistemi globali di potere, che lasciano milioni di persone in uno stato di continua vulnerabilità”.
Oggi sono diversi i Paesi che hanno dichiarato di essere al lavoro per attuare una politica estera femminista. A fianco della Svezia si sono infatti aggiunti Canada, Francia, Lussemburgo e Messico – una minoranza comunque risicata, composta di Paesi medio-piccoli, che da un punto di vista geopolitico sono ancorati più o meno fermamente alla sfera d’influenza statunitense.
In Svezia la politica voluta da Wallström e perpetuata anche dopo le sue dimissioni nel 2019 si articola adesso attorno alle “tre R”: rights, representation e resources. Centralità dei diritti di genere; inclusione delle donne ad ogni livello del processo decisionale; ed equa suddivisione delle risorse statali, che si tratti del budget nazionale o dei progetti di sviluppo sostenuti a livello internazionale. Dopo poco l’arrivo di Wallström agli Esteri, il Paese – che si definisce “superpotenza umanitaria” ma si trova al contempo in cima alla classifica dei maggiori esportatori di armi pro capite d’Europa – ha deciso di non rinnovare gli accordi bilaterali per la compravendita di armi con l’Arabia Saudita. Ponendo fine a un cavillo che da decenni permetteva a Stoccolma di commerciare con Riyadh, benché le leggi nazionali svedesi vietino le esportazioni ai Paesi che partecipano a conflitti violenti o vengono sospettati di violazioni dei diritti umani. La scelta ha infuriato il Regno, ma la ministra si è rifiutata di chiedere scusa. E il Paese è anche diventato il primo Stato occidentale dell’Unione europea a riconoscere ufficialmente la Palestina.
A seguire l’esempio di Stoccolma è stato nel 2017 il Canada, con l’adozione della Feminist International Assistance Policy. Secondo Marie-Claude Bibeau, all’epoca ministra dello Sviluppo di Ottawa, il Paese nordamericano “da moltissimo tempo è impegnato ad aiutare i più poveri e vulnerabili” e “crede che le società siano più prospere, pacifiche, sicure e unite quando i diritti delle donne sono rispettati”. Il nuovo quadro ha promesso di investire maggiori risorse in campi quali l’uguaglianza di genere e l’empowerment di donne e ragazze, pace e sicurezza, tutela dell’ambiente, governance inclusiva e “dignità umana” per 1,4 miliardi nell’arco di dieci anni. Al contempo ha lanciato un programma chiamato Women’s Voice and Leadership Program – 150 milioni di dollari canadesi stanziati dal governo per contribuire alle necessità delle donne nei Paesi in via di sviluppo – e ha invitato tutte le ministre degli Esteri del mondo a Montréal per il primo summit globale di questo tipo. Rifiutandosi poi però di appuntare un mediatore internazionale che investigasse sulle violazioni dei diritti umani da parte delle aziende canadesi all’estero, in particolare nei settori energetici e tessili.
Nel 2019 si sono uniti al gruppo Francia e Lussemburgo. Parigi, in particolare, ha affermato che “investirà tutte le risorse necessarie”. Il budget, predisposto soprattutto ad aiutare movimenti e Ong femministe nei Paesi in via di sviluppo, è di 120 milioni di euro. Emmanuel Macron ha più volte sostenuto di lottare strenuamente per l’adozione universale della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza verso le donne e ha sostenuto che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere è “la grande causa del suo quinquennio”. C’è da dire che in effetti, tra il 2017 e il 2019, il numero di donne nel corpo diplomatico francese è raddoppiato. Ma secondo l’OECD, l’obiettivo non è menzionato nell’80% dei progetti di aiuto allo sviluppo bilaterali lanciati dalla Francia negli ultimi anni. E si può dire lo stesso per la Svezia e il Canada caso nel 15% dei casi.
L’ultimo Paese a essersi dichiarato femminista nella politica estera è il Messico, a inizio 2020. Il governo di Andrés Manuel López Obrador ha pubblicato il suo piano per posizionare le questioni di genere al centro del suo impegno internazionale. Si mira a “ridurre e poi eliminare le differenze strutturali e le disparità di genere per costruire una società più giusta e prospera”. I punti, per il momento vaghi, parlano di “femminismo in ogni area del ministero degli Esteri”, una prospettiva di genere sullo scenario internazionale e il raggiungimento della parità all’interno della diplomazia nazionale.
Se l’idea di una Feminist Foreign Policy sembra star timidamente prendendo piede, quantomeno tra potenze di media grandezza, c’è il rischio che questa avanzata venga arrestata da più parti. Non si sa ancora, infatti, quali effetti avrà la pandemia sulle democrazie liberali, che già da anni si trovavano in difficoltà, e un’ulteriore ascesa di forze illiberali (spesso dichiaratamente antifemministe) non deporrebbe certo a favore di una politica estera meno votata al nazionalismo e alla chiusura. C’è poi la questione delle grandi potenze: se ad esempio gli Stati Uniti avevano fatto qualche passo timido e calcolato in questa direzione sotto Obama, l’amministrazione Trump si è opposta apertamente all’espansione dei diritti riproduttivi e sessuali in seno alle Nazioni Unite, allineandosi a Paesi come Arabia Saudita e Iraq. Cina e Russia, poi, non si trovano in una situazione migliore. In questo contesto, nessuno Stato medio-piccolo, per quanto devoto all’idea di lasciare il segno sullo scacchiere globale, ha realisticamente la probabilità di intaccare lo status quo.
Il problema potrebbe però essere a monte. Tra i Paesi che si sono dichiarati femministi nella politica estera, l’unico che sembra davvero impegnato a far fede alle proprie convinzioni è la Svezia. Perché parlare di Feminist Foreign Policy non vuol dire solo aggiungere qualche nuovo programma di sviluppo basato sull’uguaglianza di genere, o dirsi impegnato ad affrontare questioni contingenti quali lo stupro di guerra; significa mettere in discussione tutte le strutture coloniali, razziste e patriarcali in piedi da sempre (o quasi); riconoscere l’intersezione delle lotte e rafforzare le comunità; e coinvolgere tutti gli aspetti della politica estera di un Paese – non soltanto lo sviluppo. Impegnandosi per i diritti umani di tutti, non soltanto – come spesso accade – delle persone soggette alle decisioni dei rivali geopolitici, da dipingere come straordinari trasgressori. Tutto il resto è pinkwashing.