A meno di due mesi dall’approvazione delle nuove linee guida dell’Istituto superiore di sanità sull’aborto farmacologico, che hanno eliminato il ricovero obbligatorio di tre giorni, la Regione Piemonte ha inviato alle Asl una circolare in aperto contrasto con le novità introdotte, vietando la somministrazione della Ru486 nei consultori e mantenendo la possibilità di abortire in day hospital solo fino alla conclusione dell’emergenza Covid, per poi ripristinare il ricovero. La delibera è stata proposta dall’assessore agli Affari legali Maurizio Marrone, di Fratelli d’Italia, che ha coinvolto anche l’avvocatura regionale per difendere la competenza del Piemonte in materia sanitaria. Nonostante le molte voci contrarie – tra cui quella della sindaca di Torino Chiara Appendino – la delibera è stata approvata e inviata alle aziende sanitarie locali.
L’iniziativa, assicura in un’intervista a ProVita Marrone (che è un avvocato e non un medico), è sostenuta da “valutazioni cliniche”, come se le nuove linee guida dell’Iss – tra l’altro in ritardo di decenni rispetto ad altri Paesi europei – perdessero la loro credibilità superato il confine di Vigevano. Come rivelato da L’Espresso, le valutazioni dell’assessore parrebbero più di tipo economico, dal momento che la delibera prevede “l’attivazione di convenzioni per progetti di collaborazione all’interno della rete piemontese dei consultori con idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato […] quali, a titolo esemplificativo il Progetto Gemma avviato da Movimento per la vita e Centri di aiuto alla vita”. Il Movimento per la vita (Mpv) è stato il primo movimento pro life in Italia, fondato all’indomani dell’approvazione della 194/78 per organizzare un referendum abrogativo della legge, che perse con l’88,5% dei voti contrari. Il Progetto Gemma, fondato nel 1994, è un “un servizio per l’adozione prenatale a distanza di madri in difficoltà, tentate di non accogliere il proprio bambino”. In poche parole, se una donna incinta si trova in difficoltà economiche e si rivolge a un Centro di aiuto alla vita del Mpv (presenti in moltissimi ospedali pubblici), il Progetto Gemma le fornirà un aiuto economico per un anno per incentivarla a non interrompere la gravidanza. La proposta di Marrone potrebbe quindi finanziare con soldi pubblici tale servizio, esattamente come avvenuto nel comune di Iseo, in provincia di Brescia, dove il consiglio comunale guidato dal sindaco di Fratelli d’Italia Marco Ghitti ha approvato la proposta di “sostegno alla vita nascente” per finanziare il Progetto Gemma. La finalità, spiega Marrone, è contrastare le interruzioni di gravidanza motivate da ragioni economiche che, secondo il Mpv, sarebbero “la prima causa d’aborto”.
I finanziamenti con soldi pubblici ad associazioni pro life sono una prassi comune nelle amministrazioni di centro destra: nel 2017 la giunta di Venezia sostenne con un finanziamento di 7mila euro il Centro di aiuto alla vita di Mestre, così come il comune di Montebelluna in provincia di Treviso che nel 2018 stanziò parte dei 7.500 euro destinati alle associazioni di volontariato al Cav. Anche la serie di mozioni-fotocopia presentate nel 2018 a Verona, Milano, Roma e altre città italiane prevedevano finanziamenti al Progetto Gemma. Emblematico è il caso dell’Umbria che a giugno, mentre tutta l’Italia era alle prese con l’interruzione del servizio di aborto dovuto all’emergenza sanitaria, aveva abrogato una legge regionale precedente che permetteva di eseguire l’Ivg farmacologica in day hospital reintroducendo l’obbligo di ricovero. Sono stati proprio il caso umbro e la situazione creatasi durante la pandemia a spingere il ministro della Salute Roberto Speranza a proporre la revisione delle linee di indirizzo della Ru486. La decisione della presidente della Regione, la leghista Donatella Tesei, sembrava infatti inspiegabile – in un momento cui era fondamentale liberare quanti più posti letto possibile negli ospedali – fino a quando è emerso che nel 2019 ha firmato un “Manifesto Valoriale” con l’associazione antiabortista “Difendiamo i nostri figli” che chiedeva alla giunta di impegnarsi a “tutelare la vita nascente”. Tra le misure previste c’erano, tra le altre cose, “il supporto alle associazioni che hanno, tra i loro fini statuari, il sostegno alla maternità” e “la realizzazione, per il tramite dei servizi competenti, di un percorso personalizzato ed urgente di aiuto materiale e psicologico per le donne disposte a rimuovere la propria decisione abortiva”.
Ciò che accomuna tutte queste iniziative è l’apparente rispetto della legge 194/78. Nonostante la ragion d’essere del Movimento per la vita sembri essere la cancellazione del diritto all’aborto, dopo la disfatta del referendum del 1981 l’associazione si è orientata verso la retorica della “cultura della vita”, scegliendo di agire sulla dimensione personale e privata delle donne che sono intenzionate a interrompere la gravidanza e non sul contrasto aperto alla legge. Le varie mozioni e delibere presentate nei consigli comunali e regionali, quindi, sottolineano sempre di voler semplicemente “attuare la parte preventiva” della legge 194/78, cioè quella di tutela della maternità, favorendo il contatto tra le donne e i Centri di aiuto alla vita. Stando a quanto dichiarato nel 2017 ad Avvenire dal presidente del Mpv Gian Luigi Gigli, il 5% delle donne che si rivolgono a un Centro di aiuto alla vita lo fa perché indirizzate dai consultori pubblici, in teoria laici. La percentuale può sembrare irrisoria, ma bisogna tenere conto che i Cav sono direttamente presenti con i propri sportelli in cliniche e strutture ospedaliere pubbliche. Come ha denunciato lo scorso marzo Francesca Visser in un’inchiesta su OpenDemocracy, non solo il numero dei Cav in Italia supera quello delle cliniche abilitate a eseguire l’aborto, ma i centri agiscono “senza esplicitare la loro agenda antiabortista. ‘Sei in difficoltà a causa di una gravidanza difficile o che non vuoi? Non rimanere sola: chiamaci, ti possiamo aiutare’, dicevano”. La mozione presentata da Marrone in Piemonte potrebbe permettere a Federvi P.A., l’associazione che unisce i movimenti antiabortisti di Piemonte e Valle d’Aosta, di aprire i propri sportelli negli ospedali passando “dalla porta principale”.
Il Movimento per la vita e le giunte di centrodestra hanno sempre fatto fronte comune, specialmente in tema di Ru486, che in Italia è stata introdotta nel 2010 con moltissime e ingiustificate polemiche sulla sua presunta pericolosità. Si è parlato di “aborto fai-da-te”, “cultura dello scarto” e “pillola assassina” per un farmaco largamente impiegato e considerato sicuro e affidabile in tutto il mondo. L’ex presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni è stato tra i più strenui oppositori alla distribuzione della Ru486 in Italia, con il sostegno del Mpv. Nel 2008 pubblicò un editoriale su Il Foglio in cui sosteneva che “La Ru486 non è una medicina […] È al contrario un sistema abortivo altamente controverso anche dal punto di vista della sua sicurezza ed efficienza clinica” che riduce il medico a “un dispensario di veleni”. Per questo l’ex governatore tentò la stessa strada di Marrone, proponendo un atto di indirizzo che accorciava il termine massimo per la somministrazione del farmaco abortivo in caso di aborto terapeutico sul territorio lombardo, in contraddizione con le linee guida dell’Iss. Il caso arrivò al Tar, che due anni dopo stabilì come la delibera regionale “[contravvenisse] alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori”, cioè quando fosse opportuno ricorrere alla Ru486, e poi al Consiglio di Stato. Il ministro Speranza non si è ancora pronunciato sulla delibera del Piemonte e sulle eventuali iniziative legali che saranno intraprese per farla annullare, anche se non è inverosimile che si ripeta qualcosa di simile.
Quello che è certo è che l’attacco alla 194 arriva sempre più spesso dalle amministrazioni locali, sia a livello delle regioni, che hanno competenza legislativa per quanto riguarda la sanità, sia a livello comunale, dove è facile che finanziamenti, patti d’intesa e convenzioni con associazioni antiabortiste passino inosservate, come dimostra il caso dei cimiteri dei feti. Se abrogare la legge 194 sembra qualcosa di infattibile, pare che oggi il diritto all’aborto si combatta efficacemente attraverso la capillarità e la frammentazione delle delibere e delle mozioni comunali, che colpiscono in maniera diretta la vita quotidiana delle cittadine e dei cittadini. Quasi tutte le regioni italiane devono ancora adattarsi alle nuove linee guida per l’aborto farmacologico e, visti i precedenti, c’è da aspettarsi che altre amministrazioni seguano l’esempio piemontese, dato che 15 regioni su 20 sono ora in mano al centrodestra. Come dicevano le femministe italiane già negli anni Ottanta, non si può credere di avere dei diritti.