Il coronavirus ha fermato il servizio per l’aborto. È ora di passare all’ivg farmacologica.
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Una delle tante conseguenze collaterali dell’emergenza coronavirus è la difficoltà delle donne di accedere alle interruzioni di gravidanza. Come divulgato dai gruppi femministi Obiezione respinta e da “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, che hanno creato un canale Telegram per segnalare gli ospedali ancora operativi, molte strutture (soprattutto in Lombardia) hanno temporaneamente sospeso il servizio di Ivg. Sperando si tratti soltanto di misure straordinarie date dalle circostanze, la situazione è complicata: da un lato ci sono i problemi organizzativi e logistici delle strutture, che sono anche un’importante fonte di contagio per operatori sanitari e pazienti, dall’altro c’è il diritto delle donne di usufruire di un servizio essenziale e inderogabile nei termini di legge, ovvero 90 giorni dal concepimento. L’Oms ha recentemente dichiarato l’aborto “servizio essenziale” anche nel contesto della pandemia, ricordando a tutti gli Stati colpiti di permettere l’accesso all’aborto sicuro. Una soluzione che tuteli tutti i soggetti coinvolti esiste, ed è già applicata con successo in Francia e in Galles: l’aborto in telemedicina tramite Ru486.

In Italia, l’aborto farmacologico è stato introdotto nel 2009 con molte polemiche sulla sua presunta pericolosità e con l’idea che avrebbe favorito un incremento degli aborti che però non è mai avvenuto, il numero è anzi in calo da quasi trent’anni. Queste polemiche hanno condizionato fortemente sia la possibilità di accesso sia la percezione dell’Ivg farmacologica, tanto che in Italia solo il 15,6% delle donne la sceglie, rispetto al 57% della Francia, al 60% dell’Inghilterra o al 90% della Svezia. Sono inoltre state poste due importanti limitazioni: il termine massimo di sette settimane (49 giorni) dall’inizio della gestazione (anziché i 90 dell’aborto chirurgico) e il ricovero ospedaliero per tutta la durata dell’operazione, che può durare fino a tre giorni: inizialmente viene somministrato il mifepristone (Ru486), che provoca il distaccamento dell’embrione, il quale viene poi espulso tramite le contrazioni dell’utero stimolate dalla prostaglandina, assunta due giorni dopo. Le raccomandazioni dell’Oms sull’aborto sicuro indicano che la Ru486 è sicura fino a 9 settimane, e diversi studi confermano che il mifepristone si può assumere fino a 13 settimane. Carlo Flamigni, ginecologo ed ex membro del Comitato nazionale di bioetica e oggi membro del Comitato di Etica della Statale di Milano, sostiene che l’obbligo di ricovero sia “il frutto di scelte moralmente molto discutibili”, dato che le raccomandazioni scientifiche propendono per il day hospital e concordano sulla sicurezza dell’aborto farmacologico fino a 9 settimane.

Carlo Flamigni

Alcune regioni, come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Lazio e la Toscana, hanno cominciato a offrire l’aborto farmacologico in day hospital: la Ru486 viene somministrata in ospedale, la donna rimane qualche ora in osservazione, e poi può tornare a casa e assumere la prostaglandina da sola (ma deve comunque tornare in ospedale per ritirare il farmaco). Ma si tratta, appunto, di pochi ospedali in tutta Italia. In un momento come questo, in cui i posti letto servono per fronteggiare l’emergenza Covid, è assurdo che una procedura che avrebbe dovuto velocizzare e semplificare l’aborto abbia finito per tenere occupati i posti letto più a lungo della procedura chirurgica. E questo spiega anche perché molte strutture abbiano smesso di offrire l’ivg farmacologica.

Anche nel caso del day hospital, però, l’aborto farmacologico richiede più accessi in ospedale: quello per accertare lo stato di gravidanza, quello per assumere la Ru486, quello per la prostaglandina e infine un ultimo accesso dopo 14 giorni per verificare l’efficacia del farmaco. L’aborto telemedico consente invece di limitare questi accessi, scongiurando il pericolo di contagio da COVID-19 della donna e del personale e assicurando l’assistenza sanitaria necessaria durante tutta l’operazione. In molti Paesi, come in Francia, Scozia, Galles e Svezia, metà della procedura si esegue già a casa: la Ru486 si assume in day hospital e la prostaglandina da sole. Mentre nel Regno Unito il termine è di 9 settimane sia che si decida di stare in ospedale sia che si preferisca tornare a casa, in Francia il ricovero è obbligatorio solo tra la settima e la nona settimana. L’aborto telemedico prevede quindi che anche la Ru486 possa essere assunta in autonomia, sempre sotto la stretta sorveglianza del personale medico. Come raccontato a Rete Pro Choice dall’ostetrica Rosanna Sestito, che lavora in Francia, gli operatori sanitari sono in costante contatto via telefono o videochat con la paziente, che assume da sola e presso la sua abitazione i farmaci abortivi. La procedura è stata approvata il giorno successivo alla chiusura dei reparti ginecologici in Francia, mentre i gruppi femministi e le associazioni per i diritti umani hanno chiesto una proroga temporanea del termine per ottenere l’Ivg.

L’aborto telemedico, come spiega il Guttmacher Institute, uno dei più autorevoli centri di studio sui diritti riproduttivi al mondo, viene utilizzato con successo nelle aree rurali degli Stati Uniti, dove non esistono cliniche abortive o dove non c’è abbastanza personale. Planned Parenthood offre questo servizio dal 2008, che al momento interessa 10 Stati, tra cui l’Alaska e le Isole Hawaii, anche se solo il 15% dei dottori è attrezzato per eseguire interventi da remoto. I servizi di telemedicina sono stati incoraggiati in Europa da una comunicazione della Commissione europea del 2008, che invitava gli Stati membri a implementare questi servizi. Le linee di indirizzo nazionali del ministero della Salute, però, prevedono solo visite a distanza o consulti.

La Rete Pro Choice, LAIGA (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione legge 194) AMICA (Associazione medici italiani contraccezione e aborto) e l’Associazione Vita di donna hanno scritto una lettera al presidente del Consiglio Conte e al ministro della Salute Speranza per chiedere di modificare le “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”. In particolare, si chiede di estendere la possibilità di usufruire dell’Ivg farmacologica oltre le attuali sette settimane di gestazione previste, di eliminare il ricovero ospedaliero e di poter eseguire la procedura in telemedicina “in situazioni di particolari difficoltà”. Anche le associazioni dei ginecologi concordano sulla necessità di trovare una soluzione: “In questo momento storico riteniamo doveroso tutelare la salute e i diritti delle donne, attuando le procedure ritenute giustamente indifferibili, e al contempo ponendo in essere tutte le misure utili a contenere e contrastare il diffondersi della pandemia”, ha dichiarato a SkyTg24 Antonio Chiantera, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia.

Roberto Speranza

È molto difficile prevedere se anche solo una di queste misure verrà adottata, magari anche solo in via temporanea o eccezionale.Tuttavia è evidente che la possibilità di accedere a un’operazione indifferibile come quella dell’interruzione di gravidanza non possa essere del tutto eliminata e che servirebbe quantomeno adottare delle misure di sicurezza straordinarie, come il contingentamento degli ingressi nelle cliniche, la garanzia dei dispositivi di protezione individuale e, più in generale, una procedura più semplice che riduca gli accessi in ospedale. Sono ormai più di dieci anni che in molti, tra medici e attivisti per i diritti umani, si battono per eliminare il ricovero ospedaliero per la Ru486 (almeno di fronte all’attuale termine di 7 settimane), senza però ottenere risultati. Ogni tentativo di miglioramento delle leggi sull’aborto in Italia si deve scontrare con l’ostruzionismo, sia da parte dei conservatori che reputano la legge già fin troppo permissiva, sia di chi teme che un’eventuale modifica possa esporla agli attacchi di chi la vuole smantellare. Sono timori legittimi, ma già in passato è successo che venissero applicate deroghe alla legislazione sull’aborto per un’emergenza sanitaria.

Il 10 luglio 1976 si verificò un incidente nell’azienda chimica Icmesa di Meda, in Brianza, che causò lo dispersione di una nube di diossina che colpì in particolare il Seveso. Pochi giorni dopo, il Partito radicale chiese al Parlamento una deroga affinché alle donne incinte di quella zona venisse concesso di abortire per ragioni terapeutiche. La Corte Costituzionale aveva infatti stabilito, con la sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, la legittimità dell’interruzione di gravidanza in caso di pericolo della madre, ma non di malformazioni del feto. Nel giro di un mese si accese un dibattito molto feroce, che vide contrapposte le ragioni dei Radicali e di parte della sinistra contro quelle della destra. Montanelli, ad esempio, fu tra i più strenui oppositori al diritto all’aborto, che definiva “eugenetico e non terapeutico”. Dopo settimane di proteste anche da parte dei cittadini di Seveso, l’11 agosto il ministro di Grazia e Giustizia democristiano Bonifacio, con l’autorizzazione del primo ministro Andreotti, approvò l’aborto per le vittime della diossina. La legge 194 arrivò tre anni dopo e forse, senza l’emergenza del Seveso, le cose sarebbero andate diversamente: l’eccezionalità dell’emergenza sanitaria evidenziò la necessità dell’interruzione di gravidanza e stimolò il dibattito per la sua depenalizzazione. La situazione non era, ovviamente la stessa: oggi abbiamo una pandemia di dimensioni globali e non una crisi sanitaria concentrata in un solo comune e l’aborto è stato depenalizzato. Tuttavia, tutte le pratiche mediche sono suscettibili di miglioramenti, a maggior ragione se tutti gli enti sanitari internazionali concordano nel ritenerli sicuri. Allo stesso modo, quindi, la crisi sanitaria della Covid-19 potrebbe essere l’occasione per ripensare l’aborto farmacologico in Italia, adeguandolo finalmente agli standard di tutto il mondo e contribuendo a eliminare lo stigma che ancora lo circonda.

Indro Montanelli

La storia dell’aborto, come spiega Helen Hester in Xenofemminismo, è avanzata grazie al coraggio e all’autodeterminazione delle donne che, in molti casi, hanno sfidato apertamente la legge e la medicina istituzionale per ottenere da sole ciò che veniva loro negato attraverso il repurposing delle tecnologie esistenti. Quello che un tempo era considerato impensabile o inaccettabile è stato progressivamente accettato anche dalle istituzioni come qualcosa di possibile e necessario, come dimostra il caso della diossina. Nell’ambito di un’emergenza sanitaria, la pratica del repurposing tecnologico rivendicata da Helen Hester diventa un’azione necessaria per “riprogettare il mondo”, per usare le parole del movimento xenofemminista. “Il compito definitivo consiste nel progettare tecnologie utili a lottare contro la disparità di accesso agli strumenti di riproduzione e farmacologici”. Nel caso dell’aborto telemedico, basterebbe uno schermo e una connessione internet per fare una piccola rivoluzione.

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