Alla vigilia delle recenti elezioni britanniche, la scrittrice Zadie Smith ha pubblicato un accorato articolo sul Guardian per incoraggiare i suoi connazionali a votare per il partito Laburista e a non perdere la speranza: dopo quattordici anni di disastroso governo dei conservatori, una volta toccato il fondo, si può solo risalire. Nel pezzo, Smith racconta come, all’inizio della sua carriera di scrittrice, i suoi lettori americani non riuscissero a capacitarsi del fatto che lei, nonostante la famiglia modesta, avesse frequentato una prestigiosa università londinese. “It was free”, rispondeva lei, a sua volta perplessa, e consapevole solo in quel momento di quale privilegio fosse vivere in un Paese che garantiva diritti basilari come quello allo studio e alla salute. La Gran Bretagna in cui Smith è cresciuta e che faceva invidia agli USA, racconta ancora, è lentamente svanita sotto il martello dell’austerity e di una politica che ha difeso esclusivamente gli interessi privati. Per i giovani di oggi sentir parlare di un welfare che funziona è come sentire una fiaba o il racconto di un mondo perduto. Ma non bisogna perdere la speranza, scrive, se è successo una volta può succedere di nuovo. Ora che i laburisti hanno vinto, sta a loro dimostrare che un governo che pensa al bene dei cittadini può ancora esistere e che il neoliberismo, in qualche modo, può essere arginato.
In un certo senso, sarebbe tutto molto più semplice se anche il recente disfacimento dello stato sociale italiano fosse da imputare a uno specifico partito, meglio se di destra, ma se c’è una cosa di cui non siamo stati privati negli ultimi anni è l’alternanza politica. Quello che davvero è mancato per molto tempo, e su questo sono tutti d’accordo, è un grande movimento che portasse avanti istanze anche solo vagamente di sinistra. In quanto trentenne di questa parte politica, appartengo a una bolla di persone che tendenzialmente vota il PD perché “è il meno peggio”; AVS nella speranza che faccia qualcosa per il clima; oppure, purtroppo, diserta le urne . Nel frattempo, si affida a sogni esterofili guardando a personaggi d’oltreoceano come Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, o a leader socialisti europei come Pedro Sanchez in Spagna.
Per anni, pensando di essere condannati ad appartenere per sempre a una minoranza, ci siamo detti che il punto non era nemmeno sperare che politici simili, in Italia, potessero arrivare a governare. Ci sarebbe bastato che qualcuno, quelle cose, le dicesse. Negli ultimi mesi, però, una leader che sta cercando di riportare il discorso politico italiano più a sinistra e allo stesso tempo di rimodernarlo c’è, ed è Elly Schlein. Nella speranza che possa davvero diventare il punto di riferimento di noi Millennial perduti – e anche se tenere posizioni critiche e scettiche su tutti forse fa sempre più figo – ho deciso che valesse la pena scrivere di lei in termini positivi non in quanto “meno peggio” ma in quanto persona capace e meritevole di fiducia.
Personalmente, a farmela apprezzare è stata più di tutto la sua attenzione ai temi ambientali, che i grandi partiti evitano, sempre di più, come se il pianeta non stesse per implodere da un momento all’altro. In linea anche con i movimenti dei più giovani per il clima, Schlein ha trovato il modo di farsi portavoce di una battaglia scomoda e impopolare, parlando di giustizia climatica, transizione energetica e intersezionalità delle lotte. La paura di cadere in un buco nero di impopolarità di fronte al fantomatico Paese reale la argina cercando di affrontare questi temi nella maniera vicina alle persone, calcando la mano sui danni ambientali ed economici che già il cambiamento climatico sta infliggendo, e schierandosi contro i sussidi statali ambientalmente dannosi, che in Italia ammontano a 94,8 miliardi l’anno.
Questa sua attitudine da attivista, che non ha niente di radicale ma si richiama al semplice buon senso, vale anche per i diritti civili, i temi femministi e LGBTQ+: per esempio, Schlein si è detta più volte determinata a vendicare gli applausi del centrodestra che, nel 2021, hanno accompagnato l’affossamento della legge Zan contro l’omotransfobia, e ha spesso rimarcato la differenza tra leadership femminili – come quella di Meloni – e leadership femministe – che invece hanno a cuore l’emancipazione delle donne e la libertà dei loro corpi. A mia memoria, in Italia, nessun leader di un grande partito ha mai parlato di certi temi in questi termini. Il suo programma politico, inoltre, non si limita alle battaglie percepite come più astratte e ideali: sul fronte del lavoro sta portando avanti proposte come il salario minimo e la sperimentazione della settimana corta, e ha rimarcato più volte la necessità di un nuovo piano industriale per modificare l’attuale modello di sviluppo e utilizzare al meglio i fondi del Pnrr. Infine, Elly Schlein si differenzia da tutti gli altri anche nello stile e nel linguaggio: usa parole come “intersezionale”, ha fatto serenamente coming out in tv (“Sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta”), e si fa riprendere mentre si scatena al Pride con una camicia fiorata.
In generale, la sua sensibilità nell’aver colto quel “bisogno di sinistra” nel Paese la rende la figura politica che, più di tutte, sta contribuendo a costruire una concreta alternativa alle destre. Ha avuto infatti il pregio di aver finalmente puntato su quei temi che i suoi predecessori alla guida del PD sembravano aver archiviato per pusillanimità, per mancanza di lungimiranza o per pura convinzione personale: lavoro povero e precariato, integrazione, sanità e istruzione pubblica, diritti civili e ambiente. A differenza di altri leader, inoltre, non è un macho egocentrico, il che non guasta, e si è sempre detta aperta a collaborare con le altre opposizioni.
All’inizio, come molti, la trovavo poco convincente e carismatica: nonostante il curriculum, la giovane età e i contenuti solidi, faticavo a vederla come una persona che riesce a tenere alta l’attenzione quando parla, a far passare davvero i suoi messaggi. In un mondo popolato da politici istrionici, maestri oratori bravi a mentire e a parlare del nulla con classe, il suo modo di argomentare mi risultava piatto, scolastico e legnoso. Dopo il crescente interesse delle fasce elettorali più giovani verso il PD, però, ho capito che i canali attraverso cui mi ero fatta un’idea di lei, ovvero gli spezzoni delle (poche) rapide ospitate nei talk show, non erano quelli giusti. Nei contesti giornalistici televisivi Schlein infatti non brilla, forse per inesperienza, ma anche perché viene spesso trattata con scetticismo e freddezza, o con un assurdo atteggiamento paternalistico tale che a volte, più che a un’intervista, sembra di assistere a un prof che interroga una studentessa.
Non a caso, nei confronti fatti nei contesti più informali – ma non per questo meno sfidanti – riesce a dare il meglio di sé, così come negli interventi in piazza o nei luoghi istituzionali. Resta memorabile, per esempio, il discorso alla Camera con cui ha sbugiardato Meloni sui tagli alla sanità, di cui un estratto è diventato poi virale su TikTok senza però mai raggiungere un pubblico davvero ampio. Forse consapevole di questi limiti nell’arrivare all’elettorato attraverso i media mainstream, Schlein ha fatto la scelta strategica di non essere onnipresente né in tv né sui social: è infatti la leader di partito con meno follower e meno post all’attivo, raramente condivide spezzoni delle sue ospitate, e finora ha sempre preferito le strade agli schermi.
Quello che nel 2024, periodo di digital marketing compulsivo, potrebbe sembrare l’ennesimo autogol del PD – soprattutto alla luce della concorrenza di postatori inarrestabili come Salvini e Meloni – per ora sembra funzionare e alle ultime elezioni europee è valso al partito cinque punti percentuali. Nelle settimane di campagna elettorale, infatti, Schlein ha parlato in maniera martellante soprattutto nelle piazze e nei circoli, dove da sempre coglie il sentiment del suo potenziale elettorato. Questa trovata rispecchia, in realtà, la storia della sua carriera politica, iniziata con la partecipazione da volontaria a una delle campagne elettorali più determinate della storia di occidente: quella di Barack Obama nel 2008. Da allora, Schlein ha sempre avuto una vocazione improntata sulla presenza tra le persone, sull’attivismo e sulla partecipazione comunitaria: senza un coinvolgimento dal basso, senza la creazione di una comunità, come lei stessa ripete da anni, è impossibile attuare quella rivoluzione necessaria a trasformare le sorti del suo partito e dell’Italia.
Sia dal punto di vista dei contenuti che dell’approccio alla politica, Elly Schlein ha tutte le carte in regola per guadagnarsi la fiducia dei giovani progressisti italiani e, allo stesso tempo, per accogliere i tanti adulti che, negli anni, non si sono sentiti rappresentati da un partito di sinistra in palese crisi di identità. In fondo, dimostra una ricerca, è già così. La differenza di percezione tra gli under 30 che l’hanno premiata alle urne e chi resta ancora scettico, tuttavia, credo sia da ricercare non tanto nel suo modo di fare politica ma nel passato del PD: chi ha meno ricordi traumatici legati a un partito che si è dimostrato più volte polveroso e deludente è molto più disposto a darle una possibilità. Chi è rimasto scottato in passato, invece, continua a domandarsi dove sia la fregatura anche se al momento, per una volta, sembra andare tutto abbastanza bene. Ma con il governo più a destra della storia italiana – che rischia di farci precipitare in una situazione disastrosa e irreversibile – forse vale la pena iniziare a tifare per una politica che, diversamente dagli altri, ci somiglia, senza cadere nell’errore di essere troppo severi o scettici, soltanto perché abbiamo paura di fallire o perché, sotto sotto, fa più figo.