Molti giovani non votano perché la politica li ignora, così però non spezziamo mai un circolo vizioso - THE VISION

L’8 e il 9 giugno, giorni in cui in Italia si voterà per le elezioni europee, è molto probabile che nella penisola si aggirerà un fantasma: quello dell’astensionismo. Qualcuno lo definisce addirittura un partito, ma non è corretto. Gli astensionisti decidono di affidare ad altri una scelta che, dopo lunghe battaglie nella Storia, è diventata un diritto – e al contempo un dovere. Un partito ha per sua natura dei rappresentanti, e chi non vota non li sceglie, si astiene senza compattarsi come comunità pur essendo parte – ormai cospicua – della popolazione. L’intangibilità di un gruppo sempre più vicino alla maggioranza, quello dei non votanti, è preoccupante perché suona come la resa di un popolo senza volto. C’è chi ha deciso di non votare più il meno peggio, chi è del tutto disinteressato e chi addirittura smentisce se stesso. Durante le elezioni nazionali, per esempio, diversi miei conoscenti hanno rinunciato al voto con la scusa di considerarlo inutile, perché tanto “sceglie tutto l’Europa”. Secondo questa logica, le elezioni europee allora dovrebbero essere più importanti di quelle nazionali – e per certi versi forse lo sono davvero – portando quindi gli individui in questione ad andare alle urne per comporre la nuova Europa, entità percepita come astratta, ma in realtà frutto del voto che daremo tra poche settimane. Quello che stride è che queste persone però non soltanto non voteranno, nonostante la scusa “sceglie tutto l’Europa” sia in questo caso smontata, ma sono prevalentemente giovani.

Il mio ristretto campione di conoscenze non è di certo significativo, dunque è meglio affidarsi a un’indagine ben più estesa, quella del Consiglio Nazionale dei Giovani realizzata in collaborazione con l’Istituto Piepoli. Il risultato che viene fuori è una triste conferma: solo il 47% degli under 35 italiani è intenzionato a votare alle imminenti elezioni europee. Non che per le altre fasce d’età vada meglio, considerando che l’affluenza media secondo il sondaggio si assesta sul 45%, ma la fuga dei giovani dalle responsabilità elettorali rappresenta una sconfitta generazionale proprio perché un esercito di ragazze e ragazzi deciderà scientemente di non partecipare alla creazione del proprio futuro, lasciando che siano altri a indirizzarlo. Questo è anche un segno dell’evoluzione dei tempi: nel 1992 votò il 91% degli under 35 italiani. La differenza con il presente è vertiginosa e non può essere erroneamente ridotta a un disimpegno delle nuove generazioni. C’è tanto altro, e le colpe della classe dirigente del Paese non possono essere nascoste sotto il tappeto.

Intanto è bene ricordare come la composizione del parlamento europeo e di quello nazionale siano due cose ben distinte. La prima evidenza: i tre partiti della coalizione che compone attualmente il governo italiano fanno parte in Europa di tre gruppi parlamentari differenti. Fratelli d’Italia è all’interno dei conservatori destrorsi di ECR Group, la Lega ha abbracciato l’euroscetticismo di ID, mentre Forza Italia è tra i cristiani-democratici del PPE. Un elettore di destra potrebbe facilmente confondersi, chiedendosi come mai gli alleati in casa nostra siano divisi fuori dal confine. Un elettore di sinistra, confuso e smarrito per motivi culturali, identitari e antropologici da almeno tre decenni, potrebbe chiedersi invece perché tapparsi il naso anche alle europee quando gli ipotetici rappresentanti non riescono a mettere insieme un’opposizione decente nemmeno in Italia. E se si è giovani questi dubbi sono ancora più prominenti, proprio perché a mancare è la bussola per orientarsi, un tratto identitario che possa convincere i giovani adulti – e non solo – a votare lo stesso

La prima risposta sul “perché votare” può sembrare un esercizio di semplicismo, ma in realtà è la più affidabile: ed è perché in base alla composizione del prossimo europarlamento capiremo la nostra direzione. Un’Europa chiusa, intollerante, con le cesoie in mano per tagliare diverse libertà – un continente a trazione-Orbán, per intenderci – può essere evitata scegliendo di dare il voto a partiti presenti nei gruppi più progressisti (Verdi/Alleanza Libera Europa, Socialisti e Democratici, La sinistra). Questo significa che il voto per partiti nostrani anche mal digeriti andrà comunque a rafforzare una sfera politica più ampia. Magari c’è chi prova fastidio a vedere Bonelli anche solo in foto, ma il voto confluirebbe nella ben più strutturata famiglia europea dei Verdi; chi è nauseato dal PD si consolerà sapendo che sono nello stesso gruppo dei socialisti spagnoli e tedeschi che spesso invidiamo; gli allergici ai partitini della sinistra italiana li voterebbero sapendo di affiancarli a Podemos o a La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Rispetto alle elezioni nazionali la scelta ricadrà su una visione e non su uno slogan, su un progetto e non sul singolo nome o sul partito in sé. 

Visioni e progetti, dunque, che dovrebbero riguardare i giovani più di chiunque altro. Le responsabilità della politica per la disillusione degli under 35 risiedono soprattutto nella scarsa capacità di coinvolgerli a livello non soltanto di temi, ma anche di linguaggio. Tornando infatti all’indagine del Consiglio Nazionale dei Giovani e dell’Istituto Piepoli, emerge un altro dato: soltanto l’8% dei giovani si ritiene davvero soddisfatto dal dibattito politico sulle elezioni europee. Il resto dichiara che non sono state affrontate nel modo corretto le tematiche principali e le criticità del Paese. Gli argomenti che risultano più importanti per gli under 35 del sondaggio sono lavoro e occupazione (39%), scuola, università e formazione successiva (18%) e cambiamento climatico (9%). Anche qui, il voto alle europee è fondamentale per poter incidere su questi temi in ottica futura. Se la destra è contro il salario minimo, taglia i fondi alla cultura e mette paletti alla transizione green – per Salvini è addirittura “un omicidio” – è ovvio che una sua vittoria in Europa peggiorerà ulteriormente la situazione. Lo stesso dicasi per i diritti civili. Pochi giorni fa, per esempio, l’Italia ha deciso di non firmare la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore della comunità LGBT+. È importante manifestare in piazza e far sentire la propria voce, che sia una protesta a favore dei diritti LGBT+ o dei palestinesi, ma la militanza non può essere passiva ed escludere l’opzione delle urne. Anche perché gli alleati europei delle nostre forze di destra (da Vox ad altri neofascisti amanti di muri e manganellate) in caso di successo stringerebbero ancor di più la corda al collo della democrazia e dei diritti.

Non ci si può nemmeno appellare alla logica del “dare un segnale” non votando, visto che al voto andranno ventisette nazioni e l’astensionismo dell’Italia sarebbe insignificante anche come gesto dimostrativo. Non importerebbe a nessuno, e a Bruxelles andrebbero comunque i rappresentanti eletti dagli altri e non dai disertori delle urne. E proprio lì verranno prese molte delle decisioni che segneranno il nostro futuro. Spesso c’è una disinformazione di fondo sul ruolo dell’Unione Europea nelle nostre vite. Qualcuno forse considera inutile il voto alle europee, ma ignora che circa il 60% dei decreti legislativi nazionali è legato a direttive e atti giuridici dell’UE. Per alcuni temi la percentuale è ancora più alta: l’80% delle leggi sull’ambiente viene da Bruxelles. E, anche in questo caso, non da una figura mitologica, un misto tra deus ex machina e un burattinaio, ma dai rappresentanti che mandiamo a Bruxelles attraverso le elezioni. Dunque siamo concretamente noi a tracciare il sentiero su cui camminiamo. Perdere l’occasione di farlo significa rinunciare al percorso stesso, restare fermi e assistere impotenti a qualsiasi decisione. Questo vuol dire essere complici di un eventuale successo delle forze politiche che meno rappresentano i nostri ideali.

La macchina europea sta facendo di tutto per spingere le persone al voto – ricordate le matite sul palco dell’Ariston? – eppure sembra non bastare, soprattutto perché c’è ancora la visione di una tornata elettorale basata sui partiti e sui loro leader, tra l’altro quasi tutti candidati pur sapendo di non presentarsi a Bruxelles in caso di elezione. Eppure, all’Austria o alla Finlandia non importa nulla dei diverbi tra Renzi e Calenda o delle copie vendute del libro di Vannacci: interessa solo sapere chi saranno i 76 deputati italiani che siederanno all’europarlamento e quale gruppo abbracceranno. Noi, invece, stiamo affrontando queste europee con un provincialismo svilente, concentrandoci più sulle risse interne che sulle prospettive continentali dettate dai temi. Così stiamo tenendo lontani gli elettori, in particolar modo i giovani, da un dibatto confezionato su misura dei partiti e non dei cittadini. È una condanna al circolo vizioso della persona che non vota, si lamenta dei rappresentanti che non ha scelto e dell’Unione Europea che non ha contribuito a rinnovare.

Ammettetelo: a questa descrizione avete associato un boomer. Fa rabbia invece pensare che riguardi anche un giovane qualunque, magari di quelli che si attiva per le giuste cause, scende in piazza, occupa le università, e però l’8 e il 9 giugno non si presenterà al seggio perché i politici fanno tutti schifo. Può essere, ma se “il più pulito ha la rogna” allora votiamo il rognoso. Sarà malaticcio e si gratterà in continuazione, ma almeno non voterà per cancellare i diritti, non condannerà ulteriormente l’ambiente, non sarà colluso con la Russia o altre dittature esterne e non renderà l’Europa la casa dell’estremismo di destra. Al limite avrà un collega straniero nel suo gruppo parlamentare più sveglio di lui. Poi, al ritorno dalle urne, continueremo a elencare le negligenze dei rognosi, ma intanto iniziamo a proteggerci dai pericoli per le nostre democrazie. Soprattutto se siamo giovani e c’è in ballo il nostro futuro.

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