Di Battista è tornato. Ma non si è capito ancora dove voglia andare. - THE VISION
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Mentre il Paese sta affrontando la seconda ondata della pandemia, il processo a Salvini, il crollo del Pil, la riapertura zoppicante delle scuole e il rischio di nuove chiusure, l’ultima cosa di cui avremmo pensato di doverci occupare era il ritorno sulla scena politica di Alessandro Di Battista. Quando nel novembre 2017 dichiarò che non si sarebbe ricandidato in Parlamento, prendendosi una legislatura sabbatica, i suoi piani erano legati alla regola del doppio mandato e alla possibilità di tornare in campo avvolto da un’aura messianica. Tre anni dopo la regola del doppio mandato traballa, il Movimento 5 stelle si è alleato prima con la destra e poi con la sinistra e adesso alle urne è battuto anche da Fratelli d’Italia, e Casaleggio sembra a un passo dallo scontro con il figliol prodigo Di Battista. Consapevole di non essere nelle grazie nemmeno del suo stesso partito, Dibba è stato costretto a trasformarsi nella sua nemesi: il rottamatore, il Matteo Renzi del M5s.

Davide Casaleggio

In seguito alle recenti elezioni regionali, considerate da Di Battista “la peggiore sconfitta della storia del M5s”, il caos ha preso il sopravvento nel movimento. Indecisi se affidarsi a un nuovo capo politico o a una guida collegiale, se prendersi a cazzotti agli Stati Generali o glissare sulle fronde degli scissionisti, adesso i vertici del M5s devono anche tenere a bada le mire espansionistiche del piccolo rivoluzionario. Dopo tre anni di viaggi in giro per il mondo, corsi di falegnameria a Viterbo e libri inchiesta su Bibbiano che non hanno mai visto la luce, Di Battista sembra stia pensando che l’unica strada per riappropriarsi di un certo risalto mediatico passa per la lotta fratricida. Iniziata con la sua  dichiarazione che il M5s sta diventando “un partito come l’Udeur, buono più per la gestione di poltrone e carriere”.

L’affermazione non si distacca troppo dalla realtà, ma in tutto questo sfugge il ruolo di Di Battista. Da un lato ha l’intenzione di arrivare al potere (“Nel M5s spingono per la leadership collegiale perché non vogliono diventi capo politico”), dall’altro continua a rimarcare la sua estraneità al mondo politico, continuando nella parte dell’indifferente al fascino della “poltrona”, dato che è uno scrittore e giornalista e può vivere di quello. Quello che omette è che la sua carriera parallela è comunque generata e condizionata dall’esperienza grillina. Va ricordato, per esempio, che, a parte la collaborazione con Fazi editore, le sue quattro opere letterarie hanno visto come case editrici Adagio della Casaleggio Associati e Paper First del Fatto Quotidiano. In pratica sono stati finanziati direttamente o indirettamente dal M5s. Gli unici due libri estranei all’universo grillino, usciti nel 2016 e nel 2017, sono editi da Rizzoli del gruppo Mondadori, quindi da Berlusconi. Curioso per chi ha combattuto per anni il berlusconismo.

Silvio Berlusconi

La carriera da giornalista ha invece preso forma nel 2011, con la pubblicazione di alcuni reportage sul blog di Beppe Grillo. Dopo la sua esperienza in Parlamento è stato assunto dal Fatto Quotidiano, con tanto di proteste del comitato di redazione del quotidiano. Adesso insegnerà giornalismo in un workshop organizzato dalla testata Tpi, dove per 185 euro a iscritto spiegherà come realizzare un reportage all’estero. Probabilmente spiegherà ai partecipanti come realizzare un reportage da Tijuana raccontando le sofferenze all’ombra del muro tra Messico e Stati Uniti, e allo stesso tempo come sostenere un governo che lungo i confini italiani trattava i migranti in modo simile.

Va ricordato che Di Battista ha avuto anche la sua fase salviniana. Quando ancora non lanciava stilettate al Movimento, passava le giornate su Facebook a convincere il suo popolo della bontà del governo gialloverde. Temeva la fuga dei grillini di sinistra e l’assorbimento da parte della Lega del resto dell’elettorato, e così è stato. A nulla sono serviti i suoi post commoventi in cui considerava “un sogno divenuto realtà” l’elezione alla Rai di Marcello Foa, candidato alla presidenza nel 2018 con la spinta di Salvini e con un figlio nello staff del leader leghista. Non sono bastate nemmeno le trasformazioni del vocabolario, quando per un periodo ha iniziato non soltanto a ragionare come Salvini, ma a parlare come lui: radical chic, comunisti col Rolex, attacchi a Saviano, basta con l’accoglienza, aiutiamoli a casa loro. La natura del governo gialloverde sembrava calzargli a pennello. Aveva detto che avrebbe abbandonato il M5s in caso di alleanze con altri partiti; non si è scandalizzato per la vicinanza con la Lega, ma a ottobre è esploso dopo la virata verso il centrosinistra sostenendo che “L’alleanza con il Pd è la Morte nera”.

Marcello Foa

Di Battista ha anche ammesso che per un soffio non ha fatto parte del governo attuale. Fu infatti Luigi Di Maio a proporgli di entrare nella squadra di governo: proposta accettata, ma che saltò per il veto del Partito democratico. Seguendo la logica dei fatti, senza il rifiuto del Pd Di Battista si sarebbe trovato a lavorare con la Morte nera. 

La credibilità di Di Battista agli occhi dei suoi elettori è venuta meno già da un paio di anni, nonostante il suo ruolo extraparlamentare. Le sue battaglie su temi come Tav, Tap e Ilva sono solo un ricordo, con il Movimento costretto ad arrendersi di fronte ai compromessi e alla realtà dei fatti della politica reale e non dei proclami nelle piazze. A Dibba resta da giocare solo un’ultima carta: smarcarsi dal movimento sottolineando le loro promesse mancate, sottolineando che con lui al governo non sarebbe successo. Una tesi debole, considerando che durante l’intera esperienza gialloverde Di Battista ha sostenuto Di Maio e il M5S, e quindi anche i tradimenti post elettorali e i contentini alla Lega, tra cui i decreti sicurezza e il continuo braccio di ferro sul tema migranti.

Alessandro Di Battista

Eppure per un periodo si è anche avvicinato agli ambienti di sinistra, ha riempito la libreria di testi di Lenin, ha girato il Sud America come cooperante per diverse Ong. Probabilmente era la sua fase di ribellione, quando da post adolescenti ci sente tutti un po’ Che Guevara, barricaderi pronti a rovesciare il regime cubano di Fulgencio Batista ascoltando gli Inti-Illimani. Poi scatta il ricongiungimento con le proprie radici, si mette su famiglia e il rivoluzionario diventa reazionario. Ti addormenti Subcomandante Marcos e ti risvegli Gianluigi Paragone.

Il destino di Di Battista è strettamente legato a quello del M5s. Al momento le correnti interne sono due: da una parte i governisti, ovvero Di Maio e gli altri politici vicini a Conte e all’idea di un Movimento di Palazzo, anche a costo di cedere alle alleanze. Dall’altra gli scissionisti, con Davide Casaleggio pronto a staccare la spina di Rousseau e tornare a una visione antipartitica e, in fin dei conti, antipolitica. Il governismo di un movimento antisistema è una contraddizione che ha portato il M5s a dilapidare i suoi voti, e per questo Di Battista preferirebbe l’altra strada. Lo scissionismo però vive una stagione di rigetto nel momento in cui gli slot di demagogia spicciola sono già occupati da Salvini e Meloni. In pratica un moderato allergico alla destra voterebbe Pd, mentre un populista sceglierebbe il pacchetto proposto dal duo sovranista. Un ipotetico terzo polo capeggiato da Di Battista farebbe invece la fine di un qualsiasi partitino schiacciato da due forze già cristallizzate sulla scena politica. Uno di quei partiti parassitari in cerca di un ospite. L’Udeur, per esempio (cit).

Giorgia Meloni e Matteo Salvini

Non sappiamo cosa farà da grande Dibba, se indosserà i panni del falegname o dello scrittore intellettuale, del rivoluzionario o del Mario Giordano. Di certo troverà il modo per stare sotto i riflettori e sentenziare su qualsiasi cosa, anche e soprattutto quando la sua opinione non è richiesta. Per ora la sua carriera si è basata sull’armiamoci e partite, e mentre i suoi compagni perdevano credibilità di fronte alle responsabilità del potere, lui si nascondeva nella giungla con i guerrieri guatemaltechi, dividendosi tra un post contro Saviano e una foto su Instagram con un bambino denutrito. Nascondere infatti una totale assenza di coerenza è molto più semplice quando nessuno tra i lettori è davvero interessato alle conseguenze di quello che dici o fai.

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