Il berlusconismo ha impoverito culturalmente gli italiani. È una frase ripetuta da anni e che può certamente corrispondere al vero, anche se è più giusto allargarla a un cambiamento dell’intera società, cambiando gli italiani ben oltre la loro cultura. Quello che spesso viene equivocato è il momento in cui Berlusconi ha dato il via a questo processo: erroneamente si riavvolge il nastro fino alla sua discesa in campo del 1994, quando l’imprenditore è diventato politico trasformando il Parlamento in una succursale della Fininvest e il Paese nella sua azienda. In realtà questo è avvenuto un decennio prima, attraverso le sue televisioni.
Negli anni Ottanta in Italia vigeva un imperativo: dimenticare il decennio precedente degli anni di piombo. Erano gli anni in cui il mondo seguiva i binari dell’edonismo reaganiano, dello yuppie vanesio e venale, di tutti i Patrick Bateman di American Psycho che presidiavano gli uffici e società di tutto il mondo, magari senza la deriva omicida. L’Italia si allineò a modo suo, con la Milano da bere e l’esplosione del consumo di cocaina, con il socialismo gaudente e i paninari. Berlusconi seppe intuire e sfruttare quel nuovo corso: il successo, le giuste amicizie, i trionfi con il Milan e l’ingresso nelle case degli italiani erano accompagnati dall’ombra dell’appartenenza alla loggia massonica deviata P2 di Licio Gelli e dei rapporti con ambienti mafiosi. Per citare la serie Boris, “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.
Berlusconi capì prima di tutti in Italia l’importanza del mezzo televisivo come veicolo di persuasione. Partì dunque dalle realtà regionali per iniziare a intaccare il monopolio decennale della Rai. Nel 1978 la sua Fininvest diventò azionista di maggioranza dell’emittente locale Telemilano e si accordò con decine di reti regionali per trasmettere contemporaneamente le sue trasmissioni in tutto il Paese. Con questo sistema divenne a tutti gli effetti un network nazionale che nel 1980 cambiò nome in Canale 5. Berlusconi chiamò con sé i principali volti nazional popolari della Rai, come Mike Bongiorno, Corrado, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, iniziando ad acquistare i diritti di alcuni serial di successo, come Dallas. Il pubblico veniva così attirato sulle nuove reti da volti riconoscibili e rassicuranti, ma per differenziarsi dalla Rai queste seguivano una strada più spregiudicata, moderna, marcatamente anni Ottanta. La Tv commerciale non doveva informare e intrattenere, ma distrarre e imbambolare.
Per differenziare l’offerta e la programmazione, Berlusconi decise di ampliare il suo impero, aggiungendo al pacchetto Mediaset Italia 1 nel 1982 e Rete 4 nel 1984. Gli ascolti lo premiarono, portando in breve tempo le sue reti a ottenere uno share tanto alto da poter competere con i canali Rai. Il tutto senza la possibilità di trasmettere in diretta: per tutti gli anni Ottanta Mediaset rimase senza telegiornali, prima della legge Mammì del 1990.
Come ha fatto un imprenditore a possedere e mantenere tre reti televisive trasmesse in tutta la nazione?
Qui si entra nel cuore degli anni Ottanta e nella radicalità dei suoi intenti. Se il Pci piangeva la morte di Berlinguer e si avviava a un lento tramonto, i socialisti alzavano la testa adeguandosi allo spirito del decennio molto lontano dalla formalità di 30 anni di storia repubblicana. È l’indirizzo di Bettino Craxi, il progetto di un’Italia allegra, dal drink facile, lontanissima dalla lotta di classe e dalle tensioni degli anni Settanta, e proprio per questo vincente. Craxi e Berlusconi erano amici, seguivano la stessa filosofia, frequentavano gli stessi locali milanesi, dove muovevano i fili della politica e dell’imprenditoria locale e nazionale.
Quando la Rai e diverse associazioni denunciarono alle autorità la modalità di trasmissione delle tre reti di Berlusconi chiedendone la sospensione, Craxi, all’epoca presidente del Consiglio, intervenne personalmente. Presentò un decreto legge il 20 ottobre 1984, chiamato decreto Berlusconi, per consentire a Mediaset di continuare a trasmettere le sue trasmissioni. Venne considerato incostituzionale, e per questo il 6 dicembre dello stesso anno o arrivò il Berlusconi bis, poi votato con la fiducia e convertito in legge. La validità era solo di sei mesi, e quindi nel 1985 arrivò il Berlusconi ter, quello definitivo che permise a Mediaset di continuare le trasmissioni senza impedimenti.
Se i programmi di Bongiorno o della coppia Vianello-Mondaini mantenevano quell’impronta tipica della Rai, la vera novità era rappresentata dalla distruzione del vecchio concetto di varietà, sostituito da programmi comici più moderni. Il capostipite fu Drive In, creatura di Antonio Ricci che poi avrebbe creato un esercito di emulatori. La struttura del programma era perfetta per sedurre il pubblico: risate su argomenti anche più volgari e scorretti con battute di comici come Ezio Greggio e Massimo Boldi, accompagnate dalla presenza di vallette molto meno vestite delle colleghe Rai. Ogni tanto veniva fatta qualche battuta sulla Thatcher che assicurava la patente di programma di satira politica, ma si trattava dello stesso stile poi perfezionato in Striscia la notizia nel 1988, ovvero privo di mordente e di critica sociale. Non dava fastidio a nessuno, e infatti il programma veniva seguito per altro. L’anno prima Fininvest lanciò un nuovo canale, Italia 7, dove andò in onda Colpo grosso, il programma che più di tutti rappresenta la concezione berlusconiana della donna e la mercificazione del suo corpo.
Le ragazze cin cin si spogliavano sotto gli occhi di Umberto Smaila mentre i maschi gongolavano. Tra i suoi estimatori c’era anche l’ex segretario del Pcus sovietico Michail Gorbačëv, che decise di portare al Cremlino cinquanta videocassette del programma. Le donne nella tv commerciale, salvo rare eccezioni, erano un ornamento, un modo per tenere incollato il pubblico maschile al televisore. Poco importa il loro ruolo: consegnano la busta al conduttore, accarezzano i materassi durante le televendite, sorridono e basta. La concezione del corpo femminile viene svilita, e sarà così per altri due decenni di berlusconismo, fino a Vallettopoli, al Ruby-gate e al tardivo tentativo di dare il via a un nuovo corso lasciandosi alle spalle le scorie di un maschilismo sempre più impresentabile per una fetta sempre più larga dell’opinione pubblica italiana.
Gli anni Ottanta hanno rappresentato per gli italiani il ponte kitsch verso la Seconda Repubblica, e per Berlusconi l’inizio di una strategia comunicativa per preparare la sua discesa in campo politica. I cittadini sono diventati pubblico, la politica una puntata di Buona Domenica e alcune leggi un modo per evitare di finire in tribunale. La vittoria di Berlusconi è stata la capacità di modellare una parte degli italiani attraverso le sue televisioni fino a renderli pronti per accogliere la sua candidatura dopo l’annichilimento della politica tradizionale seguito a Tangentopoli. Nel 1994 il campo era ormai pronto perché Berlusconi svestisse i panni dell’imprenditore per prendere quelli del politico e, di lì a pochi mesi, anche di presidente del Consiglio di un Paese che lo ha premiato alle urne dopo essere stato plasmato per anni dal messaggio quotidiano delle sue televisioni.