Perché non ci sarà più nessun attore comico come Massimo Troisi

Il 5 marzo 1981 Massimo Troisi debutta al cinema in veste di regista-attore con Ricomincio da tre: il film incassa 15 miliardi di lire e viene proiettato per 43 settimane consecutive nelle sale, segnando un record ancora oggi imbattuto. Da quel giorno, l’artista napoletano ha conosciuto una lunga serie di successi, terminata solo con la morte prematura avvenuta durante  le riprese de Il Postino nel 1994. In tredici anni ha lavorato in dodici pellicole, di cui solo cinque nella veste di attore. Eppure, Troisi riuscì a cambiare le regole della comicità al cinema, plasmate da artisti come Manfredi, Sordi, Tognazzi e Villaggio. Oggi la nostra comicità è orfana del lascito di Troisi, molto lontana da quella che l’attore aveva portato a teatro, in televisione e introdotto sul grande schermo.

La forza comica di Troisi si trovava soprattutto nella visione sarcastica e romanzata del quotidiano, dove ogni evento diventava spunto per un umorismo spontaneo, immediato, paradossale, mai volgare, aggressivo o urlato. Non aveva bisogno di forzare una situazione o di una parolaccia per strappare la risata del pubblico, ma si basava sulla mimica inconfondibile e un talento quasi istintivo per i tempi della battuta. Dal teatro-cabaret al cinema, dalla radio alla tv, la comicità italiana di oggi si nutre in molti casi  di urla sguaiate, volgarità, bassezze, qualunquismi e stereotipi. Anche per questo è sbagliato considerare Massimo Troisi uno dei maestri della comicità italiana. L’attore rappresenta più un unicum privo di eredi artistici. Venticinque anni dopo la sua morte non esiste una “scuola Troisi” e il suo ricordo sfocia nella citazione o nei peggiori dei casi nell’emulazione, mentre non viene scalfito quell’alone di irripetibilità che da sempre lo ha accompagnato in una vita segnata da una malformazione cardiaca scoperta all’età di 14 anni.

Per capire l’unicità di Massimo Troisi possiamo partire dal linguaggio e prendere in prestito quanto detto da Roberto Benigni, con cui ha diretto nel 1984 il film Non ci resta che piangere. Nella poesia dedicata a Troisi dopo la sua morte, Benigni scrive: “Morto Troisi muore la segreta arte di quella dolce tarantella, ciò che Moravia disse del Poeta io lo ridico per un Pulcinella”. Parafrasando, l’arte di Troisi è Troisi, al punto che gli è stato riconosciuto lo status di “maschera” che prima era stato di Totò. Quando Ettore Scola nel 1990 gli affidò il ruolo di Pulcinella ne Il viaggio di Capitan Fracassa, sembrò una naturale sovrapposizione.

Non ci resta che piangere (1984)

Il concetto di maschera è ancor più evidente nei film di cui Troisi è stato regista o co-regista. I protagonisti sono una proiezione della sua personalità in diversi contesti: impacciati e timidi, vivono una condizione di esuli più che di emarginati, trovando la risata nell’incomprensione, nella parola smangiucchiata, nei gesti abbozzati del corpo. Lo si vede con Gaetano in Ricomincio da tre, il soggetto più autobiografico nella carriera di Troisi, ma anche con Mario Ruoppolo ne Il Postino (co-diretto con Michael Radford), quando l’artista di San Giorgio a Cremano ha mostrato la sua indole più nostalgica, matura e intima, che gli valse la candidatura postuma per l’Oscar come miglior attore protagonista nel 1996.

Massimo Troisi non era solo divertente, ma tagliente. La sua carriera è stata una costante operazione di decostruzione della società, usando Napoli come suo luogo archetipico. Troisi ha offerto un’immagine della sua città ribaltando i luoghi comuni. Per riuscirci ha seguito due percorsi: nel primo ha rappresentato Napoli con lo sguardo esterno, mentre nel secondo l’ha raccontata come può fare solo uno dei suoi abitanti. Dagli inizi in calzamaglia con I Saraceni, poi diventati La Smorfia insieme a Enzo Decaro e Lello Arena, dai piccoli teatri al passaggio in tv nelle trasmissioni Non Stop e Luna Park, fino al clamoroso successo da “solista” al cinema, Massimo Troisi ha tentato di spezzare tanto la visione conservatrice che hanno alcuni dei suoi abitanti su Napoli, quanto i pregiudizi del resto degli italiani.

Il postino (1994)

Quando nel 1982 lo sceneggiatore Lorenzo Magni lo ha ospitato nel programma Movie Movie, Massimo Troisi ha motivato il suo stile con una gag beffarda: “È semplice perché sono napoletano. È obbligatorio. Il napoletano sa cantare perché è napoletano; sa recitare perché è napoletano. Quindi sì è bravo, ma che ha fatto? È napoletano”. Sul palcoscenico, intanto, scardina le tradizioni. La lunga e ridondante sceneggiata napoletana diventa un “mini atto unico” in cui Enzo Decaro, su una sedia, narra le vicende del vicolo Scassacocchi “Dove la gente era intenta alle normali attività quali mangiare la pizza e suonare il mandolino”. Lì, il guappo di quartiere Don Gennarino Parsifal, interpretato da Lello Arena, piange perché è nato “fetente” e ha il compito di fare stragi. Massimo Troisi, che interpreta sia l’aspirante guappo Ciro sia sua madre uccisa da Gennarino, per evitare di innescare un ciclo di malvagità seguendo l’etica della vendetta, perdona al boss l’uccisione e abbandona le proprie aspirazioni di comando.

Nella “sceneggiata” emerge anche la figura di Dio e il rapporto con la religione, tematica molto cara alla cultura napoletana e più volte affrontata e dissacrata da Massimo Troisi. Come ha fatto nell’atto della Natività, noto per la battuta “Annunciazione! Annunciazione!” di Lello Arena nei panni di un arcangelo Gabriele non vedente; o nella gag in cui il trio invoca la grazia di san Gennaro, chiedendo al patrono di Napoli di far uscire i numeri vincenti del Lotto; o ancora in Ricomincio da tre quando Gaetano prende le parti di Giuda compatendolo per il suo essere nato povero.

Ricomincio da tre (1981)

Massimo Troisi ha portato il concetto di napoletanità fuori dai confini della città per inserirlo nel dialogo pubblico e politico, oltre che artistico. In una puntata di Blitz, programma condotto da Gianni Minà tra il 1981 e il 1983, l’attore contestò l’etichetta di “nuovo napoletano” e affermò la volontà di voler offrire un’immagine differente della città senza rinnegarne la tradizione. Negli anni Ottanta diventò il simbolo di un movimento artistico che oltrepassava i confini regionali (come oggi sta varcando quelli nazionali) e di cui fece parte soprattutto l’amico Pino Daniele, che produsse diverse colonne sonore dei suoi film.

Massimo Troisi superò i confini regionali anche perché seppe dare una voce carica di sarcasmo agli esuli, estranei alle convenzioni sociali, insicuri e non tutelati dalle istituzione. Nel farlo, ha mostrato una sensibilità maschile diversa, lontana dai canoni dell’uomo virile e infallibile. Con peculiare ironia ha affrontato tematiche quotidiane e universali come il lavoro, l’amicizia, la morte, la malattia, la solitudine, la religione, l’amore e il matrimonio. In Pensavo fosse amore… invece era un calesse, Tommaso riconquista Cecilia (Francesca Neri), ma non si presenta all’altare: i due si incontrano in un bar il giorno stesso, dove arrivano alla conclusione che il matrimonio non sia adatto a un uomo e una donna e si accordano per vedersi la sera come se nulla fosse. Già in precedenza, Tommaso, in un crescendo di paradossi e frasi smorzate, aveva affermato: “Uno dice viviamo insieme quando le cose non vanno, infatti quando peggiorano dice perché non ci sposiamo. Se proprio incominciate che non ce la fate più, facciamo un figlio, così quando alla fine vi odiate ma siete vecchi dice: ché ci lasciamo adesso che siamo vecchi?”.

Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991)

La sua sensibilità umana e sullo schermo è sempre stata compensata da un rapporto con i media sfacciato. Si esprimeva con naturalezza in un napoletano strascicato, alle premiazioni derideva il valore dei trofei, durante le interviste smascherava i meccanismi della tv, riprendendo con toni diversi gli stessi concetti già espressi da Pier Paolo Pasolini (suo modello ispiratore che si divertiva a imitare). Al Festival di Sanremo del 1981, per esempio, si è rifiutato all’ultimo momento di partecipare con un suo monologo per la censura imposta della Rai, affermando: “Mi hanno detto di fare tutto meno che parlare di religione, politica, terrorismo, terremoto perché sai, il Paese sta in una situazione un po’ così e mo’ sto indeciso tra una poesia di Giovanni Pascoli o Carducci”. Più volte ha tirato stoccate anche alla classe dirigente del Paese, come nello sketch sul Terremoto del Belice all’interno dell’auto-mockumentary Morto Troisi Viva Troisi del 1982.

Di quel tipo di comicità, oggi siamo del tutto orfani. Alle pellicole di Checco Zalone e Antonio Albanese, si affiancano quelle più politicamente corrette di Alessandro Siani. Al netto di una stand-up comedy che lentamente migliora, il mainstream televisivo è occupato ancora da programmi come Made in Sud e Colorado Café, lontane dall’idea di comicità e satira da intendere come strumento di riflessione o crescita culturale. Quella che Massimo Troisi riuscì a far emergere anche nei panni di Mario Ruoppolo, un postino che grazie all’incontro con Pablo Neruda (Philippe Noiret) scopre la poesia, trasformando l’amore in un’arma sociale di resistenza e autodeterminazione. Nella battuta “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”, risposta impacciata di un umile postino al grande poeta, si trova tutta l’essenza della comicità gentile ma sempre tagliente di Massimo Troisi.

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