“Belli e dannati” immortala l’estasi di un’epoca che tende all’epilogo, gli anni ’90 - THE VISION

Essendo nata dopo la metà degli anni Novanta, praticamente tutto ciò che è successo in quel momento storico non si è condensato in un ricordo davvero mio, ma in immagini che ho acquisito dalla narrazione crepuscolare che dalla Guerra del Golfo si è trascinata fino a oggi. Kurt Cobain che si spara in testa con un fucile nella sua casa di Seattle dopo una tripla dose di eroina. River Phoenix che muore di overdose, anche lui in una mimesi dello zoo di Christiane F., cadendo faccia sull’asfalto davanti a un locale la notte di Halloween 1993. Coaguli di un’atmosfera decadente che è stata la risposta all’assenza di prospettive della generazione successiva all’Edonismo Reaganiano. Il contrasto con il passato si esprimeva nella rottura violenta, nel futuro mozzato, in un’esistenza che non aveva intenzione di esaurirsi gradualmente e quindi si spezzava di colpo. Una forma di nichilismo sfrenato, dunque, animato dal solo rifiuto di invecchiare subendo il malessere sociale della classe media bianca; il fallimento delle illusioni fluo propinate durante la decade precedente; la paranoia legata alla caduta di un Impero ormai guasto. Con la sua morte precoce, Phoenix si fa definitivamente simbolo di un sentimento collettivo. Allo stesso tempo, sembra proseguire la trama del film per eccellenza in cui ha recitato, Belli e Dannati, uscito nel 1991 e diretto da Gus Van Sant.

Le sovrapposizioni tra le qualità del personaggio interpretato da Phoenix (Mike) e le caratteristiche dell’attore nella vita reale, infatti, diventano più che coincidenze nel momento in cui un avvenimento che sembra tratto dalla trama del film si concretizza nella realtà. Mike e Scott (interpretato da Keanu Reeves) sono “ragazzi di vita”, ma con le parole dell’Enrico IV di Shakespeare riadattato dal regista per scrivere i dialoghi, che trasferiscono sullo schermo l’opportunismo e gli inganni dell’opera teatrale. Uniscono il fascino – e la bellezza – di due personaggi dannati, appunto, simili per molti versi a certe rockstar, all’angoscia soffocante di un’epoca che tendeva all’epilogo, creando uno scenario che di per sé narrativamente non sarebbe neanche così verosimile e potente, se non fosse che dopo la tragica morte di River Phoenix, semplicemente è diventato reale.

Attraverso corrispondenze di cronaca e il racconto della vita dei due protagonisti, il film consacra il grunge, assorbendone la protesta, che usa per toccare diverse tematiche come l’emotività maschile, le relazioni omosessuali, la prostituzione e il disagio giovanile. Oltre a essere intrinsecamente “interrotti” come tutti i protagonisti e i prodotti culturali di quegli anni, infatti, i personaggi di Gus Van Sant si sono resi interpreti di una serie di rivendicazioni politiche e sociali, dando vita a una riflessione su argomenti che sono stati poi approfonditi nel cinema e nella realtà degli anni a seguire.

Il fascino di Belli e dannati è legato, in parte, al malessere che i due protagonisti condividono, come fosse uno strascico del loro passato tormentato che non sono riusciti mai a risolvere del tutto: Mike odia la sua famiglia, è ossessionato da visioni che gli ricordano la madre perduta, soffre di narcolessia e a causa delle sue crisi si addormenta tutte le volte in cui prova un’emozione che non è in grado di gestire. Scott, invece, è nato in una condizione di agio di cui però non si sente parte, infatti si dedica strenuamente alla vendetta nei confronti del padre, cercando di fare esclusivamente scelte che lo deludono, per costringerlo a pentirsi della mediocrità e dell’ipocrisia che invadono la vita di qualsiasi WASP americano. La loro sfida alle convenzioni sociali è fatta di furti, inganni, droga, piccoli crimini e giornate di sesso con clienti adescati quasi per gioco. C’è qualcosa di irritante nel modo in cui Mike e Scott oscillano costantemente tra la compulsione e la scelta di compiere crimini, svelando senza farsi scrupoli il compiacimento perverso che li porta a indulgere nei loro comportamenti autodistruttivi, con una naturalezza eversiva, tenace, che riempie di fascino anche la tristezza che la accompagna.

Il tema della prostituzione – che ai tempi ha diviso le opinioni del pubblico – viene esplorato con grande profondità psicologica, sia attraverso i racconti delle prime esperienze – spesso traumatiche – dei ragazzi che lavorano con Mike e Scott, trattati come confessioni custodite tra le pagine di un fotoromanzo porno mai aperto; sia attraverso la rappresentazione esplicita dei rapporti sessuali. Le scene di sesso sono sequenze di fotogrammi che si susseguono sullo schermo come se facessero parte di un album da sfogliare: una scelta che permette di raccontarle con una delicatezza e una grazia per certi aspetti romantiche, volutamente distanti dall’immagine di depravazione a cui venivano – e spesso vengono ancora – condannate. 

Anche la dimensione del viaggio è funzionale alla descrizione dell’esistenza senza dimora dei protagonisti, che pur avendo una destinazione ben precisa da raggiungere, si sentono vincolati alla sola promessa di non lasciarsi mai ingabbiare da alcun obbligo o responsabilità imposta dagli altri; e vengono mossi da un unico scopo: divorare il più velocemente possibile tutta la strada davanti a sé per allontanarsi dalla mediocrità della vita ordinaria. Lo stesso Mike all’inizio del film si vanta di saper riconoscere le strade dell’Idaho con la stessa precisione con cui distingue i volti delle persone che conosce, afferrando dall’asfalto dettagli “tali e quali a quelli delle facce di cazzo” che lo circondano. Il suo “private Idaho” – da cui viene anche il titolo originale del film – è infatti quello personale e onirico in cui può sostare quando si addormenta disteso sulla strada, ricongiungendosi ai ricordi della sua infanzia e fuggendo dalla realtà che condivide con le altre persone.

La decisione di Mike di andare a cercare la madre a Roma, nell’ultimo luogo dove ha dato notizie di sé, è un tentativo di materializzare questo microcosmo privato di memorie semi sepolte che continuano ad assillarlo. Per Scott il viaggio, invece, è solo l’ennesima scusa per allontanarsi da tutto quello che gli ricorda casa. Una provocazione che consuma rapidamente anche lo scambio di battute con la domestica dei suoi genitori, avvenuto appena prima della partenza. “Dove andate?”. “Dovunque, comunque. Buona giornata”.

Le intenzioni che li portano a percorrere ancora insieme la strada verso la stessa destinazione, dunque, sono solo apparentemente condivise. Durante il viaggio la strafottenza di Mike e Scott si rivela frammentata da debolezze che fanno intrusione nel loro rapporto come interferenze disturbanti. La relazione che li lega, oltre a mettere in scena con grande anticipo sui tempi un amore apertamente omossesuale, esplora la dimensione vulnerabile, intimorita e indifesa dell’emotività maschile. Ne è un esempio il sentimento non corrisposto che Mike prova per Scott, tanto sofferto da demolire progressivamente i desideri che danno senso alla sua esistenza, perché capaci di oltrepassare la logica del calcolo, della truffa e del tornaconto personale che regolano tutti gli altri aspetti del modo in cui ha deciso di viverla.

Soprattutto, quella che sembrava un’amicizia fondata sul rifiuto delle distinzioni sociali non riesce a superare le differenze reali che separano Mike e Scott. Il patto che li univa in un’esistenza al di sopra delle convenzioni imposte, infatti, si sgretola nel momento in cui Scott si innamora di una ragazza conosciuta a Roma, con cui torna negli Stati Uniti per iniziare una vita perfettamente inquadrata nel canone borghese. La sua decisione rende transitoria una realtà che per Mike, invece, rimane identica a sé stessa, creando un’asimmetria insanabile, tanto profonda da trasformare la scelta di rottura che i protagonisti avevano fatto insieme, in una condanna da cui soltanto uno dei due non ha gli strumenti per affrancarsi.

Quando Scott decide di lasciare Mike il suo abbandono è un’interruzione inaspettata, l’ultima e forse la più dolorosa tra quelle che il secondo ha subìto. Questo gesto svuota di senso la dannazione su cui entrambi avevano costruito la loro vita, credendosi uguali, perché Scott può tornare a essere il figlio dell’alta borghesia americana a cui è sempre appartenuto, nonostante il disprezzo che diceva di provare per la sua famiglia. Mike, invece, rimane incastrato nella delusione che segue una promessa tradita, come quella di successo e invincibilità a cui River Phoenix non deve aver mai creduto davvero; o quella di un passato che continua a mangiarsi il futuro.

Così Mike viene riconsegnato alle strade tanto familiari su cui continua ad addormentarsi, anche se ora non è più Scott a caricarlo in macchina per riportarlo a casa. Nello stato di sospensione in cui si trova ancora una volta, da solo, deve trovare un modo per abitare l’incompletezza in cui si è esaurito il loro rapporto.

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